Alla frontiera dell’innovazione: Il “boundary work” nelle organizzazioni

I processi collaborativi sono diventati una necessità imprescindibile nell’organizzazione dell’innovazione. Recenti sviluppi nell’ambito della teoria organizzativa possono offrire spunti utili all’interpretazione e alla risoluzione dei problemi connessi alla progettazione, al governo e alla gestione dei processi di innovazione collaborativa. In particolare, il recente contributo pubblicato su Academy of Management Annals a firma di Ann Langley e colleghi introduce il concetto di boundary work, che rappresenta a nostro avviso una chiave di lettura molto interessante per affrontare le sfide dell’innovazione collaborativa. In questo articolo illustriamo e discutiamo le principali caratteristiche e implicazioni di questa idea per l’efficace governo e gestione dei processi di collaborative innovation.

Introduzione

Vi è un crescente consenso tra ricercatori, manager e policy maker sul fatto che i modelli tradizionali di organizzazione dell’innovazione non siano sufficienti per garantire alle imprese livelli sostenibili di competitività nel prossimo futuro. Nei decenni passati, la centralizzazione delle funzioni di ricerca e sviluppo “in house” è stata la soluzione prevalente ed ha garantito risultati efficaci, soprattutto in termini di innovazione incrementale, nell’ambito di specifiche combinazioni prodotto/mercato. Questo stesso modello, tuttavia, appare inadeguato a sostenere processi di innovazione radicale e di creazione di combinazioni prodotto/mercato ad alto grado di novità e discontinuità. Lo scenario globale è sempre più interconnesso e complesso, di conseguenza, anche e soprattutto per la gestione dell’innovazione i processi collaborativi sono diventati una necessità imprescindibile, sostenuta dall’affermazione e diffusione di concetti “bandiera” come la “open innovation” (Chesbrough, 2003).

Più in generale, l’innovazione collaborativa è una strategia che fa leva sull’esperienza e le competenze di attori interni ed esterni a un’organizzazione al fine di creare apprendimento tecnologico e nuove soluzioni (Kodama, 2015). In particolare, a seconda del contesto, l’innovazione collaborativa può risultare nella creazione nuovi prodotti, nuovi processi, nuove formule organizzative e modelli di business. Esistono diverse modalità con cui si può realizzare un processo di innovazione collaborativa. Ad esempio, la creazione sempre più frequente da parte delle imprese di laboratori di innovazione (“innovation labs”) finalizzati a stimolare la creatività e l’innovazione tra i dipendenti (Magadley e Birdi, 2009), attraverso l’interazione con stakeholder, clienti e partner chiave e talvolta ai clienti. Anche i sempre più diffusi programmi di accelerazione e incubazione si sforzano di stabilire relazioni “generative” tra grandi aziende che hanno bisogno di idee e start-up in cerca di capitale e applicazioni per le loro tecnologie (Usman e Vanhaverbeke, 2017).

Sebbene l’innovazione collaborativa sia un tema di grande attualità e su cui si sta sviluppando un fervente dibattito, numerosi sono nella realtà i casi di mancata collaborazione tra le organizzazioni a fronte di evidenti opportunità (Narsalay, Kavathekar e Light, 2016). Al tempo stesso, si moltiplicano i casi in cui la pressione a collaborare all’interno delle organizzazioni genera costi occulti in termini di tensione sul clima organizzativo e aumento dello stress (Cross, Rebele e Grant, 2016). Spesso le aziende che aderiscono al paradigma dell’innovazione collaborativa ne abbracciano i principi con una sorta di approccio fideistico, senza prepararsi del tutto e gestendo il processo in modo incompleto o inappropriato. Si tratta di un errore non privo di conseguenze proprio perchè le sfide all’innovazione collaborativa sono molteplici. L’integrazione delle conoscenze richiede l’attraversamento dei confini tra diversi ambiti disciplinari e contesti cognitivi e si basa sulla creazione di pratiche condivise e comprensione reciproca (Carlile, 2002). I conflitti a livello culturale si oppongono all’instaurarsi di una mentalità collaborativa (Swink, 2006), ulteriormente ostacolata dalla non chiarezza delle aspettative e dalle differenze nei processi aziendali (Swink, 2006; Usman e Vanhaverbeke, 2017). Inoltre, esiste un problema a livello di supporto interno per i progetti di innovazione collaborativa, che non possono prescindere dalla chiara approvazione dei dirigenti apicali e da schemi coerenti di incentivazione e ricompensa per l’impegno dei dipendenti (Usman e Vanhaverbeke, 2017).

La mancata risposta alle sfide sopra citate porta a mettere in discussione gli investimenti nell’innovazione collaborativa a fronte base del valore reale che viene prodotto. L’evidenza fino ad ora suggerisce che le aziende stanno progressivamente facendo i conti con risultati insoddisfacenti e aspettative disattese a fronte investimenti anche molto elevati. Per questo molte organizzazioni stanno riconsiderando se abbia ancora senso percorrere la strada della collaborazione. Le continue chiusure e ridimensionamenti degli “innovation labs” sono un sintomo chiaro della difficoltà di funzionamento efficiente ed efficace di questi modelli.

Recenti sviluppi nell’ambito della teoria dell’organizzazione possono offrire spunti utili all’interpretazione e alla risoluzione dei problemi connessi alla progettazione, al governo e alla gestione dei processi di innovazione collaborativa. In particolare, il recente contributo pubblicato su Academy of Management Annals a firma di Ann Langley, Kajsa Lindberg, Bjørn Erik Mørk, Davide Nicolini, Elena Raviola e Lars Walter (Langley et al., 2019) introduce il concetto di boundary work, che rappresenta a nostro avviso una chiave di lettura molto interessante per affrontare le sfide dell’innovazione collaborativa. Nel prosieguo dell’articolo, illustriamo e discutiamo le principali caratteristiche e implicazioni di questa idea.

Il concetto di boundary work

In origine l’espressione “boundary work” venne coniata da Gyerin (1983) per descrivere le strategie discorsive usate dagli scienziati per distinguere la scienza dalla “non scienza”. Nell’ultimo decennio, il concetto ha assunto crescente popolarità tra gli studiosi di management, che lo hanno applicato a molteplici oggetti e livelli di analisi. Langley et al. (2019) si pongono l’obiettivo di sistematizzare la conoscenza in tema di boundary work, al fine di illustrare in quali modi la prospettiva può contribuire a comprendere, in un’ottica processuale, fenomeni quali: il conflitto, la collaborazione e l’integrazione tra organizzazioni. Inoltre, il concetto è analizzato nel suo potenziale interpretativo di processi quali appunto l’innovazione e le forme organizzative emergenti.

Attraverso una rassegna sistematica della letteratura, Langley et al. (2019) identificano il concetto di boudary work come “l’impegno deliberato, a livello individuale e collettivo, atto a influenzare i confini sociali, simbolici, materiali e temporali, (…) che coinvolgono gruppi, tipi di occupazioni/professioni e organizzazioni” (Langley et al., 2019; p. 705). Partendo da questa definizione, gli autori, distinguono la nozione di boundary work da concetti simili o affini, e classificano gli articoli inclusi nella loro rassegna in base alla forma di boundary work esaminata. In particolare, vengono definiti tre tipi di boundary work: competitivo, collaborativo e configurazionale.

Il boundary work competitivo consiste in tutte le attività in cui gli attori lavorano “per” i confini, ossia costruiscono, difendono o estendono confini per distinguersi da altri attori, definendo un territorio esclusivo (ad esempio, una professione) che è percepito come fonte di privilegio. L’aggettivo “competitivo” fa riferimento al fatto che questo tipo di boundary work ha un connotato individualista/egoistico, nel senso che la costruzione dei confini viene vista come un meccanismo per acquisire risorse personali o ribadire vantaggi di potere, posizione sociale o status.

Il boundary work collaborativo, caratterizzato come lavoro “ai” confini, considera i modi con cui gli attori ridefiniscono o negoziano i confini nell’interazione con altri attori, con l’obiettivo di collaborare, o quantomeno di portare a termine compiti che fanno parte dell’operatività quotidiana delle organizzazioni. Gli studi che affrontano il tema del boundary work collaborativo riconoscono che i confini possono essere una dimensione che facilita il coordinamento, stimolando gli individui a sviluppare pratiche che facilitano la comunicazione e l’allineamento reciproco.

Il boundary work configurazionale, infine, identifica l’azione ad un livello più elevato, enfatizzando il lavoro “per mezzo dei” confini. Questa attività si esprime nei tentativi che gli attori compiono con l’obiettivo di definire e organizzare i confini che influenzano il comportamento di altri attori. In altre parole, si tratta di progettare cambiamenti nelle modalità di differenziazione e integrazione dell’azione collettiva.

Per ciascuno dei tre tipi di boundary work Langley et al. (2019) identificano antecedenti significativi nelle letterature di organizzazione, management e sociologia e specificano modalità distintive di svolgimento di ciascuna forma di lavoro che coinvolge i confini.

Le modalità di svolgimento delle tre forme di boundary work

Il boundary work competitivo

Il boundary work competitivo si esprime innanzitutto nelle attività di difesa dei confini. In queste modalità, gli attori generalmente si concentrano su una dicotomia di tipo in-group / out-group, come la distinzione già richiamata tra scienziati e non scienziati (ad es., Gieryn, 1983) o tra un gruppo professionale privilegiato e altri gruppi nello stesso contesto (ad es., Hazgui e Gendron, 2015). Il lavoro di difesa è visto soprattutto in chiave di strategie discorsive. Un esempio è individuato da Langley e colleghi (2019) nel lavoro di Garud, Gehman e Karunakaran (2014), che esamina le strategie usate, per ripristinare la legittimità professionale degli scienziati che si occupano di cambiamento climatico in seguito al cosiddetto “Climategate” che aveva messo in dubbio la veridicità delle conclusioni scientifiche sul problema.

Una seconda modalità di boundary work competitivo consiste nella contestazione dei confini e si concentra maggiormente sugli attori “out group” o “challengers”, che si trovano fuori dal gruppo privilegiato che difende i confini e che puntano a delegittimare o abbattere tali confini. Per esempio, Bach, Kessler e Heron (2012) studiano come il personale ausiliario che lavora fianco a fianco agli infermieri in un ospedale intraprenda strategie finalizzate a sminuire le differenze con gli infermieri, che all’opposto sono impegnati in azioni di difesa dei confini.

La creazione di confini è la terza e ultima modalità di boundary work competitivo e si concentra sui gruppi di recente formazione o relativamente più deboli, che puntano a “ritagliarsi” il proprio spazio. Nell’ambito dei gruppi professionali, ad esempio, i managers che si occupano di employer branding o i risk managers nelle banche sono esempi di gruppi che intraprendono processi di boundary work per definire e legittimare la loro identità distintiva.

Il boundary work collaborativo

La principale modalità di svolgimento del boundary work collaborativo consiste nella negoziazione dei confini. Le situazioni in cui si manifesta questo processo richiamano un’idea pragmatica dei confini, in base alla quale ruoli o delimitazioni possono essere sfumate o reinterpretate in presenza di un vantaggio reciproco derivante dalla collaborazione o in seguito alla necessità di portare a termine un compito. Esempi includono le attività del personale infermieristico che si sostituisce in caso di necessità al personale medico per garantire assistenza tempestiva ai pazienti, oppure l’interazione tra gruppi di specialisti che negoziano in una “trading zone” dinamica le rispettive idee per giungere ad un nuovo prodotto o servizio.  

Un’ulteriore modalità di lavoro collaborativo si esprime nella personificazione dei confini e riguarda gli individui che rappresentano essi stessi un confine attraverso i propri ruoli e attività. Si tratta di una sorta di “boundary spanning in practice”. La gestione da parte dei middle managers del loro ruolo ambivalente di mediazione tra livelli gerarchici e “mondi” all’interno della stessa organizzazione può rappresentare un esempio di questo tipo di lavoro. Anche i managers che si occupano di alleanze tra imprese, operando come “boundary bricoleurs” (Ellis e Ybema, 2010) sono a tutti gli effetti la personificazione dei confini tra le organizzazioni in una prospettiva di pratica collaborativa.

Infine, la minimizzazione dei confini suggerisce che il boundary work collaborativo beneficia di situazioni in cui i confini sono deliberatamente ignorati o relegati a un elemento formale che rimane sullo sfondo. Majchrzak, More e Faraj (2012), per esempio, mostrano come team interfunzionali che devono affrontare un task radicalmente nuovo, ignorano deliberatamente i rispettivi background specialistici per concentrarsi pragmaticamente sulla risoluzione del compito che è stato assegnato al team.

Il boundary work configurazionale

La prima modalità con cui un attore “esterno” lavora per configurare i confini è la attività di predisposizione dei confini stessi (“arrangement”, nella definizione di Langley e colleghi (2019)). In questa forma di lavoro, si creano spazi delimitati che consentono agli attori che vi si trovano di operare in condizioni speciali per raggiungere particolari obiettivi. Questo avviene ad esempio quando ad un team di progetto vengono assegnati “privilegi” speciali per facilitare innovazione e sperimentazione in un “ambiente protetto”, schermato dalle ordinarie interferenze provenienti dalle condizioni organizzative circostanti.

Il lavoro di configurazione si esprime anche nel “buffering” dei confini, svolto per consentire la collaborazione tra organizzazioni che appartengono a ambiti sociali incompatibili o caratterizzate da potenziali conflitti di interessi. L’attore esterno ai confini che svolge questo tipo di boundary work crea di fatto uno spazio dedicato, una sorta di “camera di compensazione”, in certi casi, agendo a tutti gli effetti come boundary organization. Un esempio è rappresentato dagli uffici di trasferimento tecnologico nelle istituzioni accademiche e di ricerca, che hanno il compito di mediare tra i valori e gli obiettivi della ricerca scientifica e le esigenze di valorizzazione economica dei risultati derivanti dalle scoperte.

Infine, il boundary work configurazionale si manifesta nella combinazione di confini (“coalescing” nel lessico di Langley et al. (2019)). Questa attività implica l’integrazione o la fusione di assetti esistenti, per dare origine a nuove configurazioni. Esempi si ritrovano nella convergenza di domini disciplinari e/o cognitivi che si verifica quando emerge un nuovo settore o ambito di ricerca e ne vengono definite le regole e istituzioni fondamentali. Studi in questa direzione hanno interessato per esempio la nascita del contesto interdisciplinare della “genetic toxicology” (Frickel, 2004), o la definizione degli ambiti di interesse delle nanotecnolgie (Granqvist e Laurila, 2011) o della augmented reality (Liao, 2016).

Conclusione: le implicazioni del boundary work per l’organizzazione dell’innovazione

Le forme e le modalità di esecuzione del boundary work suggeriscono importanti prospettive e implicazioni per la soluzione delle sfide poste dall’innovazione “aperta” e collaborativa. Come sottolineato in precedenza, l’integrazione delle conoscenze è un fattore cruciale nei progetti collaborativi e richiede l’attraversamento dei confini tra diversi ambiti disciplinari e contesti cognitivi. La chiave di lettura del boundary work competitivo consente ad esempio di riconoscere e affrontare per tempo i problemi legati alla “difesa” delle identità professionali nei gruppi impegnati in progetti innovativi, limitandone l’impatto negativo sugli esiti dell’attività. Questo aspetto è ad esempio confermato nella pratica organizzativa da un recente studio sulla open innovation alla NASA, che rivela come il “re-focusing” professionale sia necessario per un’implementazione di successo delle soluzioni emerse tramite modelli di open innovation all’interno di tradizionali processi di ricerca e sviluppo (Lifshitz-Assaf, 2018).

Dal punto di vista progettuale, le indicazioni nell’ambito del boundary work collaborativo e configurazionale sono fondamentali per disegnare e governare un processo di innovazione aperta e interattiva. Le modalità di negoziazione e minimizzazione dei confini, unite alla presenza di boundary subjects che operano da raccordo tra gruppi, rappresentano un insieme di strumenti di immediata traduzione pratica nella gestione dei gruppi inter-funzionali o inter-organizzativi.

La creazione di soluzioni organizzative appropriate e il supporto continuo del top management ai progetti di innovazione collaborativa richiama la necessità di attivare, a livello di creazione delle unità e dei gruppi, processi di predisposizione, buffering e combinazione dei confini. Un esempio di successo è rappresentato da LEGO (ad es., Lakhani, Lifshitz-Assaf, e Tushman, 2013), in relazione alle scelte strategiche di definizione e combinazione dei confini nei processi di co-creation che fanno leva sulle comunità di innovazione e che combinano gruppi di utenti e funzioni interne. La stessa azienda fornisce, con il suo LEGO future lab, un caso emblematico di predisposizione dei confini atta a creare un efficace spazio di sperimentazione autonomo e “schermato” dalle pressioni del resto dell’organizzazione.

Bibliografia

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