Diversità di genere e cultura “brogrammer”: che fare?

I pregiudizi legati alla diversità di genere sono difficili da combattere a tutti i livelli, comprese le organizzazioni high tech globali come Google e Facebook. Stanno tuttavia emergendo dalla ricerca organizzativa percorsi di cambiamento che, partendo dalla classificazione e rilevazione dei ‘bias’ di genere, offrono strumenti operativi alle organizzazioni.

[message_box title=”BROGRAMMER” color=”red”]Il termine ‘brogrammer’ indica un forte orientamento maschilista nel mondo dei programmatori; combina le parole inglesi ‘brother’ e ‘programmer’.[/message_box]

Introduzione

A leggere un recente articolo pubblicato dalla rivista Forbes (Marcus, 2016), sembrerebbe che anche le imprese più innovative, quelle impegnate nella diffusione delle tecnologie digitali come Facebook, Google, IBM, Microsoft e Amazon, non siano esenti dal divario di genere nella gestione di uomini e donne. Un fatto questo che non deve sorprendere perché il fenomeno ha radici profonde: in Italia la rilevanza della ‘questione di genere’ è tuttora elevata secondo quanto fa osservare la Banca d’Italia nel capitolo della sua Relazione annuale (2012) dedicato a “Il ruolo delle donne nell’economia italiana” dove conclude che, pur essendovi stato un miglioramento negli ultimi decenni nel divario della partecipazione di uomini e donne alla vita economica, il nostro paese mostra ancora una situazione di forte arretratezza nei confronti internazionali. D’altro canto, il divario di genere non interessa soltanto l’Italia: le diseguaglianze tra uomini e donne sono tuttora diffuse nei paesi industrializzati e rischiano di essere esacerbate dalla quarta rivoluzione industriale secondo i risultati della decima inchiesta annuale sul Global Gender Gap (2015) condotta dal World Economic Forum e che riguarda 145 paesi (in questa classifica l’Italia è al quarantunesimo posto dopo la Svezia, l’Irlanda e la Francia, ma anche dopo la Bolivia e Cuba).

Se non vi sono dubbi sulla persistenza del fenomeno e sulla complessa articolazione e interazione di fattori economici, sociali e culturali che ne sono la base, a livello di gestione delle imprese si vanno profilando studi e indagini che mostrano come le organizzazioni che hanno una maggiore presenza di donne in posti di responsabilità spuntano risultati economici migliori (Credit Suisse Research Institute, 2014). Per questa ragione, e non solo per questioni di equità, sono stati condotte ricerche che cercano di capire in che modo la gestione di un’impresa può intervenire per superare le disparità di trattamento e far leva sulle diversità di genere per migliorare le proprie prestazioni complessive. Di seguito proponiamo il percorso di cambiamento proposto da Joan Williams (Williams, 2014) basato su di un’indagine condotta intervistando 127 professioniste (Williams & Dempsey, 2014).

Un percorso per ridurre il divario di genere nelle imprese high tech.

La Williams fa notare che società come Google, Yahoo, Linkedin e Facebook ammettono di avere una bassa percentuale di donne tra i propri addetti e nello stesso tempo dichiarano di voler superare la mera retorica per affrontare il problema in modo strutturato analizzando i processi interni per capire dove il fenomeno si annida e che dimensioni ha. E’ questa la tesi di fondo del libro e dell’articolo: il primo passo è ammettere il problema, il secondo è capire in quali aree è più evidente la discrasia tra le dichiarazioni di principio e quanto effettivamente accade (ad esempio, se si dice che in azienda vige la meritocrazia occorre capire se, a parità di prestazioni, i premi sono di pari entità oppure se sono, come spesso avviene, minori per le donne), il terzo è mettere mano ad un processo di cambiamento allo scopo di “interrompere intenzionalmente la formazione e la messa in atto dei pregiudizi” là dove sono stati rilevati i fenomeni più significativi.

Per la Williams vi è un’opportunità: se è vero, come sostengono i capi azienda, che nel settore high tech si stanno attuando discontinuità e fratture nel modo di condurre gli affari e di gestire le organizzazioni, allora dovrebbe anche essere possibile provocare una discontinuità nella gestione tradizionale della diversità di genere. Questo settore potrebbe fare da traino nei confronti di altri comparti meno dinamici dove spesso vengono effettuati interventi di vetrina che non incidono realmente sul problema oppure che intendono cambiare il comportamento delle donne per renderle, ad esempio, negoziatrici più capaci. Su quest’ultimo aspetto l’autrice scrive che, quando in un’organizzazione la diversità di genere ha poco spazio, sono i sistemi aziendali ad aver bisogno di miglioramento piuttosto che le dipendenti. Vediamo dunque quali sono le tre fasi del processo di cambiamento che viene da lei proposto.

Il percorso di cambiamento, fase 1: capire dove si annidano i problemi maggiori.

I processi aziendali dove spesso vengono esercitati – in modo sotterraneo, non esplicito – dei pregiudizi nei confronti delle donne sono le assunzioni, le assegnazioni di mansioni e compiti, le valutazioni, le promozioni e le retribuzioni (Williams and Dempsey 2014, p 312). Il suggerimento della Williams è di cercare di capire in che misura sono affetti da uno dei quattro pregiudizi tipici che l’autrice ha rilevato sia nella letteratura che nelle interviste a 127 professioniste:

“Dimostramelo ancora una volta!”. Alle donne si chiede di dimostrare ripetutamente la loro competenza mentre agli uomini si concede il beneficio del dubbio. Due terzi delle donne intervistate hanno dichiarato di essere state vittime di questo pregiudizio. In particolare, la loro competenza tecnica viene dimenticata appena lasciano un ruolo tecnico a seguito di una promozione: ad esempio se intervengono su questioni tecniche si chiede loro se abbiano mai scritto qualche riga di codice.

“Equilibriste”. Tre quarti delle donne intervistate sono costrette a trovare un difficile equilibrio tra l’essere considerate troppo riservate e schive per posizioni che secondo gli stereotipi correnti richiederebbero doti di mascolinità e, quando sembra le abbiano, di essere considerate arroganti e aggressive. Succede così che in azienda vengano assegnati alle donne compiti non di prestigio e definiti dall’autrice “attività domestiche da ufficio” quali recuperare documenti e organizzare conferenze o celebrazioni di ricorrenze. Ad esempio, nelle organizzazioni high tech il potere e il prestigio va spesso ai “padroni del codice” mentre donne anche molto capaci tecnicamente si trovano a gestire progetti o aspetti commerciali che sono considerati meno critici. Se resistono nell’accettare incarichi che raramente sono assegnati agli uomini, vengono considerate poco cooperative. In altri termini, quando sono dirette, competitive e assertive rischiano delle ritorsioni che arrivano persino alle molestie sessuali quando si tratta di donne dominanti. La cultura sessista sembra permeare il settore con la conseguenza che negli Stati Uniti nel 1985 il 37% dei laureati in informatica erano donne mentre nel 2012 sono scese al 18%; nel 1991 i posti di lavoro dell’informatica erano coperti per il 37% da donne mentre nel 2014 sono scese al 26%; il 41% delle donne lascia il settore dopo dieci anni rispetto al 17% degli uomini.

“Il muro della maternità”. Alcune ricerche hanno evidenziato che le madri hanno il 79% in meno di possibilità di essere assunte e solo nel 50% dei casi hanno le stesse probabilità di essere promosse; alle madri vengono proposti stipendi più bassi di 11.000 dollari l’anno pur a fronte di prestazioni superiori (compresa una maggiore puntualità). Una ricerca ha studiato un gruppo di madri indiscutibilmente competenti e impegnate; ebbene, a causa della loro dedizione al lavoro, sono state considerate madri e persone dure: di conseguenza ad esse vengono assegnati standard prestazionali più elevati. La considerazione di fondo che la Williams avanza è che non siano tanto i lunghi orari di lavoro ad allontanare le madri dall’informatica quanto la cultura sessista con la quale si trovano a dover combattere. Se gli orari flessibili e il lavoro da remoto sono tipici del settore (e apprezzati dalle donne), le madri continuano a destare sospetti. Questo tipo di pregiudizio è stato sperimentato dal 59% delle donne da lei intervistate.

“Il tiro alla fune”. In questo gioco succede che quando una delle due squadre incomincia a cedere si verifica in breve tempo un cedimento complessivo. Questa metafora indica che il pregiudizio di genere contro le donne provoca nelle donne, all’inizio della carriera e che stanno subendo la discriminazione di genere, un allontanamento dalle colleghe: si rifiutano di aiutarle e arrivano ad allearsi con gli uomini a spese della altre donne. Questo fenomeno è stato riportato dal 45% delle intervistate.

Secondo lo studio della Williams, occorre quindi vedere se questi modelli di pregiudizio nei confronti delle donne sono presenti nell’organizzazione attraverso i suoi sistemi di gestione. L’avvio del percorso di cambiamento potrebbe essere dato da interviste confidenziali alle donne oppure, se vi è sufficiente fiducia tra le partecipanti, da focus group condotti da esperti esterni. Questo consente di individuare dove collocare gli ‘interruttori di pregiudizio’ nell’organizzazione, dove, cioè, occorre creare le discontinuità indispensabili per scogliere i nodi principali.

Il percorso di cambiamento, fase 2: come individuare gli indicatori chiave del divario.

Trovare degli indicatori adatti per misurare i divari dove si manifestano serve sia per disporre di una base di partenza sia per poter valutare i risultati del cambiamento. Ad esempio, nelle organizzazioni nelle quali il management con maggiore anzianità aziendale ha un ruolo rilevante nell’attribuzione degli incarichi è utile chiedere al personale (sia uomini che donne) da dove provengono le ultime cinque opportunità che sono state loro offerte. Spesso infatti questi manager tendono a selezionare tra il personale interno coloro con i quali si trovano più a loro agio; il che vuol dire che spesso vengono preferiti gli uomini: le donne, soprattutto se madri, vengono ritenute meno disponibili rispetto ai colleghi sui quali, si ritiene, grava il peso di mantenere la famiglia.

Un modo per quantificare il peso delle “attività domestiche da ufficio”, laddove nella prima fase questo sia stato ritenuto un pregiudizio di rilievo, è di redigere una lista di attività ritenute di profilo elevato e una di attività ritenute di basso profilo chiedendo sia a donne che a uomini la distribuzione del loro tempo di lavoro tra tali attività.

Se il problema rilevato riguarda il “muro della maternità” occorre tracciare la tipologia degli incarichi ricoperti prima e dopo il congedo di maternità: spesso si trova che gli incarichi ottenuti dopo il rientro sono di qualità inferiore rispetto a prima.

Quelli riportati sono alcuni esempi, ciascuna organizzazione dovrà individuare le metriche più adatte alla tipologia di pregiudizi rilevata e agli obiettivi strategici dell’impresa. Occorre comprendere in che modo vengono esercitate le pratiche discriminatorie nelle modalità di assunzione, di assegnazione degli incarichi, nella valutazione delle prestazioni e nella fissazione delle remunerazioni. In sostanza, occorre capire se c’è e come si articola e concretizza nell’organizzazione la cultura del ‘brogrammer’.

Il percorso di cambiamento, fase 3: sperimentare, misurare il successo e… continuare!

Dopo aver identificato i pregiudizi e le misure chiave occorre attivare gli ‘interruttori di pregiudizio’ e monitorare i dati quantitativi per valutare se il miglioramento intervenuto è in linea con le attese e intervenendo di conseguenza. Uno di questi interruttori che la Williams riporta citando il lavoro di Leibbrandt e List (2012), due ricercatori del National Bureau of Economic Research, è semplice e facile da realizzare: è bastato inserire in un annuncio di ricerca del personale che l’ammontare della retribuzione era trattabile per ridurre del 45% il divario retributivo nei casi studiati; il fatto è che se nessun riferimento alla negoziabilità della retribuzione viene fatto in un annuncio, gli uomini tendono a negoziare comunque la retribuzione molto più delle donne.

Un altro ‘interruttore’ efficace viene proposto dall’esperienza di Google dove ci si era accorti che le donne erano promosse meno spesso degli uomini. L’analisi ha evidenziato che, poiché in quell’azienda è necessaria l’autocandidatura per essere presi in considerazione, meno donne si proponevano. L’ipotesi avanzata è stata che, poiché la modestia è ancora considerata una caratteristica della femminilità, le donne tendevano a non candidarsi avendo sperimentato che l’autopromozione, così come la negoziazione, non era ben accolta. L’avvio di seminari tenuti da leader donna su come e quando proporsi in azienda ha fatto sì che la differenza nel numero delle autocandidature scomparisse.

In un caso seguito direttamente dalla Williams si sono analizzate le valutazioni delle prestazioni compilate dai capi per vedere se si potevano rilevare pregiudizi legati al genere. Poiché così era, l’alta direzione ha deciso di organizzare seminari per migliorare la valutazione delle prestazioni: per questa via i partecipanti sono stati sensibilizzati sull’esistenza dei quattro pregiudizi tipici sopra riportati che potrebbero condizionare le valutazioni. Si tratta di una misura efficace perché la responsabilizzazione riduce gli automatismi attraverso i quali i pregiudizi prendono corpo. Occorre tuttavia avere tatto nella comunicazione con i capi per evitare colpevolizzazioni controproducenti e per non trasformare i seminari in tour de force del politicamente corretto.

Vediamo qualche altro suggerimento per intervenire sui quattro sistemi aziendali abitualmente in uso  nelle organizzazioni: le assunzioni, l’attribuzione di incarichi, la valutazione delle prestazioni e il sistema retributivo e di avanzamento.

Assumere. E’ efficace predisporre delle linee guida che scoraggino l’uso di parole con connotati tipicamente maschili quali ‘ambizioso’ o ‘competitivo’ negli annunci di ricerca del personale. Un altro strumento utile consiste nel togliere le informazioni sul genere dai profili dei candidati quando vengono consegnati ai manager che devono scegliere chi assumere. Anche redigere liste di domande standardizzate per gli uomini e per le donne da utilizzare nei colloqui aiuta a superare pregiudizi inconsapevoli da parte degli intervistatori.

Assegnare incarichi. In questo campo un ‘interruttore’ valido consiste nel documentare l’assegnazione di attività differenti agli uomini e alle donne per evidenziare come siano all’opera i quattro schemi di pregiudizio tipici: si tratta di sensibilizzare alla questione chi decide gli incarichi. Se questo strumento non è sufficiente si può arrivare a formalizzare il processo di assegnazione degli incarichi.

Valutare. Far controllare la redazione delle valutazione da consulenti esterni che abbiano esperienza in materia serve per capire se le valutazioni sono sistematicamente maggiori per gli uomini rispetto alle donne. Con l’occasione si può anche vedere se, a parità di valutazioni, gli uomini spuntano premi più rilevanti rispetto alle donne.

Retribuire e promuovere. I sistemi che tollerano le vanterie oppure, addirittura, che le promuovono spingono le donne a giocare al tiro alla fune. In realtà l’autopromozione recita un ruolo significativo in tutti i sistemi di gestione del personale e va guidata dall’azienda: occorre che vi siano degli ambiti formali nei quali si spiega in quali occasioni e in che misura è utile che tutti (uomini e donne) mettano in risalto i traguardi raggiunti e le capacità dimostrate. I sistemi retributivi basati su misure oggettive, difficili da essere eluse, sono un’arma potente contro le discriminazioni di genere e le donne si trovano bene in questo tipo di sistemi. Laddove invece le remunerazioni sono in mano a ristretti e potenti gruppi di potere che premiano le persone sulla base di negoziati effettuati “dietro le quinte” si formano dei veri e propri terreni di coltura per le discriminazioni di genere: una ricerca sugli studi legali ha rilevato che ben il 30% delle donne erano state prevaricate attraverso questo tipo di sistemi.

Conclusioni

La Williams sostiene che le organizzazioni, nel condurre le analisi e nel mettere a punto gli ‘interruttori di pregiudizio’, devono adottare un atteggiamento pratico, sperimentale: non basta accontentarsi di mettere in campo un’iniziativa aspettandosi risultati significativi in breve tempo. Ciò che serve è provare più strade e vedere quella che porta i risultati migliori. Le società che operano nel campo dell’informatica sono abituate ad operare sperimentalmente, ad individuare le alternative che sembrano più produttive. Questa loro abitudine ne fa dei candidati ideali per il percorso, non breve né facile, per l’affrancamento dalle discriminazioni di genere.

A chiusura di questo articolo proponiamo la tabella contenuta nel libro della Williams e della sua coautrice; in essa vengono riassunte le due diverse prospettive dalle quali considerare e risolvere i problemi più significativi del divario di genere: migliorare le donne o migliorare i sistemi? La risposta ci sembra chiara.

Tabella 1 - Cambiare la prospettiva con la quale risolvere le problematiche legate al genere (adattato da Williams e Dampsey 2014, p. 10)
Tabella 1 – Cambiare la prospettiva con la quale risolvere le problematiche legate al genere (adattato da Williams e Dampsey 2014, p. 10)

BIBLIOGRAFIA

Banca d’Italia. (2012). Relazione Annuale.

Credit Suisse Research Institute. (2014). The CS Gender 3000: Women in Senior Management, Zurich, Sept. 2014.

Leibbrandt, A., & List, J. A. (2012). Do women avoid salary negotiations? Evidence from a large scale natural field experiment (No. 18511).

Marcus, B. (2016). The Lack Of Diversity In Tech Is A Cultural Issue! Forbes. Retrieved from http://www.forbes.com/sites/bonniemarcus/2015/08/12/the-lack-of-diversity-in-tech-is-a-cultural-issue/#67ae78213577

Williams, J. C. (2014). Hacking Tech ’ s Diversıty Problem. Harvard Business Review, (October).

Williams, J. C., & Dempsey, R. (2014). What works for women. New York: New York University Pres.

World Economic Forum. (2015). The Global Gender Gap Report 2015. World Economic Forum (Vol. 25). doi:10.1177/0192513X04267098

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