Il Luogo del Conflitto nelle Organizzazioni

 L’articolo propone una lettura ed una interpretazione del tema del conflitto organizzativo (C.O.) facendo riferimento ai modelli P/E fit di origine Lewiniana. Il contributo si propone di individuare fattori sia oggettivi sia soggettivi come co-protagonisti del manifestarsi di una situazione di C.O. Inoltre da quegli stessi modelli si tenta di ricavare alcune indicazioni di analisi applicativa, ancorando le digressioni teoriche alla sfida della praticabilità. Dalla diagnosi all’intervento di prevenzione del C.O. nell’attualità emergono alcune specifiche e forse irrisolvibili criticità.

This paper proposes a reading and interpretation of the organizational conflict topic (O.C.) referring to the Lewinian origin P/E fit models. It tries to identify both objective and subjective factors as co-protagonists of an O.C. occurrence. Furthermore, from those same models we try to derive some indications of applicative analysis. In other words, the paper tries to anchor theoretical digressions to the challenge of practicability: from diagnosis to the preventive intervention of the O.C. in the current context/environment, highlighting some specific and perhaps unsolvable critical issues. 

Conflitto organizzativo e teoria P/E fit

Nell’entrare nel merito del tema del conflitto organizzativo, nella consapevolezza delle plurime e ricche interpretazioni che da più parti sono state offerte, riteniamo proficuo partire da una precisa opzione, opzione che ci appartiene e ci connota come matrice personale e come sensibilità scientifica. Infatti per potere declinare efficacemente il tema, riteniamo necessario collocarlo nel suo contesto, per rispondere alla domanda del “locus”, del dove cioè il Conflitto Organizzativo (da ora C.O.) si venga a manifestare. Le indagini che appartengono alla dimensione dell’analisi dell’adattamento tra individuo e ambiente organizzativo P/E fit, fanno al caso nostro. Il modello principale al quale vogliamo riferirci è quello della “Teoria del Campo” “Field Theory” e della “Ricerca Azione” (R/A) di Kurt Zadek Lewin (1946;1951). Questo geniale studioso tedesco/americano, come sostiene J. Turner (2015), ha avuto un ruolo rilevante nelle indagini sul cambiamento e sullo sviluppo organizzativo.

Uno degli allievi più brillanti di Lewin, John R. P. French, Jr. insieme a Coch (1948), pubblicò nel medesimo quadro teorico, uno studio basilare e paradigmatico sul fronte del cambiamento dell’organizzazione del lavoro e delle resistenze a tale cambiamento.

Troviamo ancora un French (Wendell French, insieme a Cecil Bell, 1999) a sviluppare ulteriormente l’area di ricerca, sempre, peraltro, ispirandosi ai contributi della R/A Lewiniana.

Intendiamo pertanto fruire dell’eleganza del modello in relazione al tema del C.O., riossigenandone le parti più succose e cercando di dimostrare come tale teoria possa ancora proporre qualche interessante spunto.

Affrontiamo quindi l’argomento del C.O. ricorrendo alla Field Theory di scuola Lewiniana, intendendo, in tal modo, interpretare il C.O. come espressione critica di un certo tipo di comportamento organizzativo (o.B.). Il Conflitto, in questa prospettiva, viene letto quale esito della composizione di quattro principali elementi (di cui daremo conto in seguito) appartenenti alla (nota?) equazione: oB= f(P x wE). Secondo questa equazione il comportamento organizzativo (oB), è la risultante delle relazioni tra la Persona (sottesa da rappresentazioni, atteggiamenti, attese, motivazioni) e l’ambiente lavorativo (work Environment) anche in termini di efficienza ed efficacia. Da questo momento quando parleremo di C.O. lo indicheremo come manifestazione specifica di o.B. (comportamento organizzativo).

Quali le componenti del Conflitto Organizzativo?

Gli elementi che andremo ad analizzare offrono il grande vantaggio di poter contemperare nell’analisi del C.O. sia situazioni oggettive, cioè variabili appartenenti alla “datità” delle organizzazioni, sia fattori soggettivi, cioè variabili appartenenti alla vita personale. Il manifestarsi della situazione conflittuale, infatti, secondo questo approccio, è collocabile in una dialettica continua, costante e dinamica, tra le richieste dell’organizzazione (comprese le richieste ergonomiche del lavoro) da un lato e, dall’altro, le rappresentazioni soggettive (gli elementi legati alle competenze, agli atteggiamenti, alle attese, alla cultura organizzativa, al contratto sociale, etc.), che accompagnano l’azione dinamica e quotidiana dell’agire lavorativo. Essa si avvale del confronto e dello scontro in un processo continuo di reciproco adattamento tra l’organizzazione, da intendersi come istanze (demand), di un’azienda, impresa, ente, posto di lavoro, ecc. e l’individuo. Nell’organizzazione la Persona viene descritta sia come singolarità che come elemento di un assetto sia micro (collettivo) che macro (collettivo).

A tal proposito, ci viene in mente la visione che Warren Bennis (1969; 1999) offre nella lettura dei rapporti tra organizzazione e lavoratore, infatti, in una delle sue varie e preziose metafore, mette in luce che “non possono esistere umani senza organizzazioni e non esistono organizzazioni senza umani”. In questa sua sottolineatura, si evidenzia il fatto che gli umani sono principalmente animali organizzativi, i quali, nell’azione di concertazione collettiva, si avvalgono di artefatti sociali che chiamiamo comunemente organizzazioni, e nel contempo sottolinea che qualsiasi organizzazione appartenente alla nostra società non può che essere popolata da umani.

Certo qualcuno potrebbe giustamente sottolineare che lo scenario appena accennato si riferisce ad una lettura che potrebbe rivelarsi superata. Che cosa intendiamo dire? Intendiamo dire che le prospettive nelle quali sembrano muoversi le organizzazioni alla luce del fenomeno dell’impatto delle tecnologie e della raffinazione dell’intelligenza robotica (intelligenze artificiali, macchine che apprendono, computer quantistici, insomma il mondo della calcolabilità e degli algoritmi), ci potrebbero proiettare in un mondo in cui la presenza umana diventerebbe estremamente rarefatta e allo stesso tempo sempre più virtuale. Per necessità di sintesi, e per non deviare dal tema oggetto di questa breve disanima, sorvoliamo per il momento su tutti gli scenari connessi alla modifica dell’organizzazione del lavoro sottesa all’uso delle tecnologie, e atteniamoci ad un mondo organizzativo ancora popolato principalmente da umani. Tornando al cuore del nostro argomento: come vengono ad interfacciarsi le variabili/elementi in gioco che partecipano alla nascita del C.O.? Anzitutto dobbiamo far riferimento ai comportamenti reali che emergono nella continua negoziazione dinamica di cui parlavamo sopra. La dialettica tra dimensione soggettiva e dimensione oggettiva è riconoscibile proprio in un Personal Environment fit (French, Caplan & Van Harrison, 1982). In ottemperanza a questo modello (vedasi figura n.1) andremo a considerare i seguenti elementi:

  1. Le richieste oggettive della posizione di lavoro: in altri termini ciò che un operatore, un impiegato, un lavoratore di una qualsiasi categoria è tenuto a fare. Cioè il motivo per il quale è stato assunto: le competenze richieste, le abilità, le attitudini, gli atteggiamenti che hanno portato l’azienda a considerarlo il candidato idoneo a svolgere un certo compito.
  2. Le caratteristiche oggettive della persona: cioè i livelli di professionalità realmente posseduti dall’individuo, la sua esperienza, competenza, il curriculum, la formazione, ma anche talenti, meriti, ecc.
  3. La rappresentazione soggettiva di (1), cioè delle richieste oggettive della posizione di lavoro.
  4. La rappresentazione soggettiva di (2), cioè delle caratteristiche oggettive della persona.

Le prime due dimensioni citate, ovvero, le richieste della mansione (1) e la dotazione della persona (2), potranno generare vari livelli di equilibrio e corrispondenza tra loro, in relazione con quanto più l’una sarà in rapporto attivo e adattivo rispetto all’altra. Lo stesso avverrà per tutte le relazioni possibili 1/3, 2/4, 3/4.

Per spiegarci meglio, ricordiamo un semplice concetto che è quello di imbalance[1] tipico dei modelli P/E Fit e, di conseguenza, prevediamo quattro tipi di adattamento/sbilanciamento (vedasi figura n.1):

  1. Adattamento oggettivo;
  2. Adattamento soggettivo;
  3. Contatto con la realtà (organizzativa/lavorativa);
  4. Appropriatezza dell’auto-percezione.

Facciamo qualche esempio: nelle letture normativiste ancora oggi egemoni, tipo “l’uomo giusto al posto giusto”, un grande adattamento oggettivo (A), vale a dire un elevato controllo (mastering) da parte dell’attore sul mezzo e sull’attività, dovrebbe garantire il successo sul lavoro, benessere e massima efficienza. Per dirlo più semplicemente: chi dovrebbe star meglio di uno che è stato assunto per fare il lavoro che sa perfettamente fare? E quale organizzazione non si considererebbe la più fortunata nell’avere persone giuste al posto giusto?

Si potrebbe infatti astrattamente assumere che in assenza o quasi di imbalance, il conflitto dovrebbe essere minimo. Certo lo sarà per le scienze normative[2]. Non lo è per le discipline dell’organizzazione reale e dei comportamenti. Infatti, va tenuto in forte considerazione, e questo è il valore aggiunto della “Teoria del Campo”, che sulle conflittualità potenziali, incide sia la relazione tra la dotazione oggettiva sia le richieste oggettive: ma, entrambe, sono soggettivamente interpretate.

Per chiarirci, in una certa situazione ci sarà adattamento o differenza di equilibrio (imbalance) tra la richiesta oggettiva avanzata dall’ambiente (mansione) e le capacità di ciascun lavoratore (sulla base della sua dotazione professionale). Le varie richieste vengono però, valutate in modo diverso da diversi individui (indipendentemente dalla loro capacità o dotazione professionale). Perché ogni individuo (ripetiamo), separatamente dalla sua capacità o dotazione professionale, percepisce e valuta in modo personale e soggettivo tali richieste! Pertanto, alcune richieste le riterrà legittime, altre assolutamente improprie, altre ancora ingiuste, oppure scorrette. Richieste che minano un adeguato riconoscimento del suo ruolo, in riferimento alle sue attese, al contratto sociale fatto in fase di reclutamento (“intanto le attribuiamo questo ruolo, ma vedrà poi che più avanti…”), ecc. La coerenza, la sovrapponibilità, la mancanza di un imbalance tra le richieste e la rappresentazione delle richieste (C: contatto con la realtà) andrà a mostrare ad esempio quale sia il livello di commitment (Allen & Meyer,1990), involvement (Davis,1996) e senso di appartenenza di quell’individuo nella sua organizzazione. Il suo adattamento varierà ancora in relazione al senso di giustizia (Colquit et al., 2001), al rapporto tra valore (sempre soggettivo) delle richieste e ai mezzi a disposizione per riuscire ad ottemperare a tali richieste (Teoria dell’Attesa – Vroom, 1964).

È facilmente sostenibile (anche se ovviamente non esaustivo) il fatto che le rappresentazioni soggettive sopra evocate danno il segno del senso di cittadinanza più o meno “piena e consapevole” del lavoratore rispetto all’organizzazione. Tale senso di cittadinanza diventa indicatore di presenza o meno, di potenziale conflittuale. Esattamente come una buona pressione sistolica e diastolica, o una ridotta quantità di colesterolo a bassa densità, sono indicatori attendibili di una buona situazione cardiovascolare.

Quindi: ad esempio, quanto più elevata sarà la distanza (imbalance appunto) tra la realtà formale, normativa, oggettiva e la rappresentazione soggettiva della medesima, tanto più elevato sarà il conflitto.

Per fare un altro esempio, dell’incidenza del soggettivo, possiamo descrivere ciò che potrebbe accadere alla dimensione (B) della dotazione personale (oggettiva): cioè quello che indichiamo come abilità, attitudini, professionalità, esperienza accumulata, ecc. possedute da un individuo. Tale dotazione oggettiva è soggettivamente rappresentata (D). L’attore lavorativo del suo valore e delle sue capacità potrebbe avere o meno una, corretta e adeguata (appropriata) rappresentazione.

È del tutto evidente che questa intrusione del soggettivo (la percezione delle proprie qualità personali) giocherà un ruolo fondamentale, al punto di incidere profondamente sul comportamento organizzativo manifesto. Non sempre infatti, quello che “si è” è coerente con quello che “si ritiene di essere”. Non ci si illuda cioè che quello che percepiscono le persone di loro stesse, non incida sull’efficienza operativa. Sovra o sotto-stima, sono reali fonti di conflitto organizzativo (dotazione reale vs dotazione percepita) e di efficienza o inefficienza lavorativa/organizzativa.

Ci venga perdonata la banalizzazione, immaginiamo una situazione di tipo calcistico: un centravanti che sia dotato di indiscutibili talenti di cui è consapevole (non ultimo grazie al cospicuo ingaggio ottenuto); immaginiamo ancora che tali indiscutibili doti si manifestino sempre in fase di preparazione e allenamento. Il mister dal suo canto, conosce ed è conscio del fatto che lo stesso centravanti in situazioni di scontro reale non ha una tenuta adeguata alle necessità competitive. È scontato che l’imbalance tra le attese del calciatore rispetto alle conoscenze che di lui ha il mister non potranno che generare un conflitto tra lui e l’allenatore, tra lui e lo spogliatoio. Sarà lo stesso “umore dello spogliatoio” che darà un feedback micro-collettivo (clima organizzativo) al valore agonistico reale di quello stesso calciatore. Pertanto, la percezione soggettiva della dotazione calcistica del nostro centravanti, sarà fortemente influenzata anche dalla risposta che egli riceverà attraverso i rapporti interpersonali con i colleghi di squadra e con l’allenatore.

È acclarabile che la quantità e qualità del lavoro, la presenza o meno di una situazione di sbilanciamento, (imbalance) sono immediatamente riferibili alla congruenza tra la richiesta avanzata dall’ambiente, la dotazione reale, la risposta soggettiva dell’individuo e la metabolizzazione collettiva che di tali aspetti ne fa l’organizzazione come artefatto sociale.

Figura 1 – Il luogo del Conflitto Organizzativo

Il modello P/E così come suggerito da Caplan e colleghi (1979;1983) e da noi elaborato si presta agevolmente a delle ulteriori, eleganti rappresentazioni e descrizioni del C. O. e di quello che avviene realisticamente in contesti aziendali sottoposti a derive e a torsioni facilitate dalla estensione, dalla complicatezza, diciamo pure dalla confusione che pervade tali realtà.

Facciamo un altro esempio, focalizzandoci su quello che può accadere sul fronte squisitamente soggettivo (dominio del soggettivo). Immaginiamo infatti, una realtà organizzativa nella quale contempliamo l’esistenza o meno, di una imbalance o di un adattamento che si declini esclusivamente sul fronte della rappresentazione individuale (B). Cioè un mondo organizzativo che si sviluppi nell’interfacciarsi delle richieste organizzative soggettivamente lette (2) con una dotazione professionale e personale ancora soggettivamente interpretata (4). Il modello P/E fit, infatti, elegantemente, contempla situazioni nelle quali le persone, gli operatori, gli impiegati, i funzionari vivano in uno stato di grazia o di adattamento soggettivo (B) perfetto: una quasi totale assenza di imbalance. Tale situazione, come cercheremo di dimostrare, porta ad escludere una qualsiasi potenzialità conflittuale, ma con effetti devastanti dal punto di vista dell’efficienza. Una situazione di questa natura prevede che ciò che soggettivamente l’individuo si attende l’organizzazione gli chieda, corrisponda perfettamente alla prestazione professionale e operativa erogata (soggettivamente valutata). Confortato in questo, l’attore, anche dal clima e dalla cultura micro-collettiva del gruppo di lavoro al quale appartiene. Infatti, quello che chiamiamo adattamento soggettivo (B) non è altro che una situazione nella quale dei singoli o dei gruppi omogenei si attendono che una richiesta organizzativa (mansione, ruolo o attività), corrisponda perfettamente a ciò che loro s’immaginano di poter e dover fare.

Ci viene in mente in particolare un libro il “Deserto dei Tartari” di Buzzati, in cui la guarnigione opera in modo ritualistico e routinario nei confronti di un nemico atteso, ma che mai si farà vedere. Si tratta di un adattamento organizzativo soggettivo perfetto, nel quale la dissociazione schizoide tra quello che si immagina richiesto dal compito (aspettare il nemico) corrisponde perfettamente a quello che si fa e si sa fare.

Un altro esempio (di adattamento scisso) meno raffinato e letterario, che forse si potrebbe fare è quello di un individuo in ospedale psichiatrico che si ritenga Napoleone e data la distorsione della sua rappresentazione del mondo, veda tutti gli infermieri, il personale sanitario che lo assiste come facenti parte dei quadri superiori del suo quartier generale. Il soggetto “Napoleone” darà ordini e prescrizioni e il personale sanitario che lo ha in cura agirà, nella sua mente, esattamente come Napoleone (il povero paziente psichiatrico) si attende. È evidente che in questa scissura tra realtà e realtà rappresentata si viene a radicare un adattamento “psicotico” che comunque può essere rilevato come tale (adattamento B). I sistemi di difesa psicologica e di fronteggiamento (coping) della situazione rappresentata, funzionano riducendo l’imbalance e prevenendo il conflitto.

L’adattamento soggettivo si riferisce quindi anche, a tutte quelle situazioni in cui la deriva di una unità decentrata, remota rispetto alla sua organizzazione di appartenenza e da essa slegata, sia interessata ad un processo di evaporazione rispetto a quelle istanze prescrittive o descrittive che richiamino l’incombenza formale di compiti e di doveri (punto 1 – fig.1). Vengono a mancare, cioè, quelle istanze quotidiane che “bussano alla porta” per ricordare vincoli, ruoli, responsabilità e che sollecitino il mantenimento, la manutenzione delle funzioni e che governi le performance e le attività dovute. Il comportamento organizzativo diventa in tal modo completamente “autoreferenziale”. Viene così a crearsi una specie di nicchia ecologica auto-regolativa che si sedimenta in prassi micro-collettive che legittimano in modo del tutto soggettivo una risposta soggettiva a richieste soggettivamente rappresentate.

Ci viene facile a questo punto immaginare situazioni periferiche non solo da un punto di vista geografico, ma anche organizzativo. Società di servizi sia di natura pubblica che privata che nel tempo hanno sedimentato e incrostato la quotidianità di risposte abnormi a richieste abnormi, le une e le altre soggettivamente rappresentate. Se mai dovesse succedere che la dimensione dell’oggettivo (1) andasse a bussare alla porta, come dicevamo, di tali realtà schizoidi (Jaques,1955) gli attori di queste enclave perfettamente adattate, reagirebbero in modo conflittuale e difensivo. Non scopriamo nulla di nuovo, da Alvin Gouldner (1954) a Robert Merton (1974), fino a Crozier (1969), nelle critiche all’ideal tipo razionale legale Weberiano, hanno messo in adeguato risalto i paradossi della burocrazia, che alimentano situazioni “non conflittuali” come quelle appena formalizzate nel modello P/E. Si noti bene che l’automatismo che attribuisce il fenomeno burocratico al comparto pubblico, viene significativamente scardinato anche grazie a questo medesimo modello di derivazione Lewiniana.

Restando però ancora un attimo sul fronte del pubblico, riteniamo singolare se non drammatico costatare come, nonostante tutte le critiche che vengono da più parte rivolte alla Burocrazia, per risolverne, nell’attuale contingenza, le storture si sia ricorsi ad un eccesso di burocrazia. Si è arrivati così ad ammantare di militaresco con la forza della logistica militare, la risposta vaccinale all’attuale pandemia (Francesco Figliuolo). In totale contrasto con gli auspici della Mazzucato (2014) e ai tentativi delle soluzioni di Crozier. Un totale fallimento delle scienze dell’organizzazione?

L’area del conflitto e le soluzioni razionalistiche

Dal punto di vista del tema oggetto di questo nostro contributo, ne ricaviamo alcune indicazioni. In riferimento al modello già illustrato, emerge il fatto che lo spazio del conflitto organizzativo è determinato dalla imbalance o viceversa dal suo opposto equilibrio/adattamento (fit) tra le dimensioni del soggettivo e le dimensioni dell’oggettivo. Fonte potenziale di conflitto sarà quindi ogni squilibrio tra richieste oggettive e potenzialità di risposta oggettiva ma anche tra richieste percepite e percezione della possibilità di risposta soggettiva. Quest’ultima fondata sulla “appropriatezza della auto-percezione” (D), della propria condizione professionale o dei propri talenti. Tutte le discrepanze tra queste dimensioni avranno come effetto una riduzione del fit e un conseguente conflitto organizzativo (o meglio più conflitti compresi quelli fisiologici e propulsivi per l’organizzazione)[3]. L’interesse del modello dal punto di vista della teoria ma, soprattutto della pratica organizzativa[4], è quello di offrire un sistema di descrizione delle caratteristiche di un contesto organizzativo potenzialmente conflittuale ed è in grado di dettagliare ciascuna delle parti o degli aspetti (vedasi fig.1) confrontandoli con gli altri, inoltre permette l’individuazione di punti critici sui quali intervenire. Infatti tale modello come abbiamo già cercato di dire, non si limita semplicemente alla fase di descrizione teorica, ma prefigura elementi intrinseci di “ricerca azione” tipici dei modelli di derivazione Lewiniana e tali da consentire di arrivare da una fase di diagnosi organizzativa ad una fase di prognosi e di terapia. Il medesimo modello permette inoltre, ad esempio, di definire realtà organizzative a “prognosi infausta” sul piano della concreta possibilità di essere sensibili ad interventi di innovazione o di miglioramento consentendo di rilevare come le uniche azioni possibili si configurino come “cure palliative”. Questo modo di interpretare le incrostazioni di C.O. rende comprensibili (non giustificabili sia chiaro) alcune scelte politico economiche che sono state portate a compimento in questi ultimi anni (Moschera, 2008).

Esse corrispondono alla constatazione che alcuni modelli di pratica organizzativa hanno conflitti completamente cronicizzati che si sono incistati con prognosi infausta e questo non riguarda solamente la pubblica amministrazione anche se ad essa che per automatismo narrativo ci viene da pensare. La dialettica tra fluidità e rigidità, tra Scilla e Cariddi (Martinez, 2020), ha prima fatto prevalere Scilla e poi ha abbandonato i sistemi razionali legali (burocrazie appunto) al loro irrisolvibile destino. Da cui la scelta strategica in alcuni comparti dei sistemi regionali o nazionali di implementare o la soluzione privatistica, come soluzione a maggior efficienza o riducendo il conflitto organizzativo laddove ci fosse, iniettando “adattamento soggettivo”. Così appare che la soluzione: privato versus pubblico, sia proprio la risultante della constatazione che alcuni conflitti organizzativi siano (nella mente dei legislatori) assolutamente irrisolvibili.

Questo è valso soprattutto in alcune regioni per quanto concerne la gestione della sanità e ne abbiamo visto di recente gli effetti devastanti grazie proprio alle scelte di aver, illusoriamente, privilegiato il privato come potenzialmente più efficiente del pubblico. Noi siamo convinti, come la già citata Mazzucato, che nel pubblico vi siano ampi margini di rinnovamento. Questo evitando però di applicare tutti quei modelli appartenenti a passati razionalisti che non funzionano. Allo stesso trattamento, infatti, ad esempio, si è voluto sottoporre l’università pubblica con l’illusoria convinzione di poter fare meglio nel privato ciò che nel pubblico sembra non si riesca più a fare. Salvo che non si immagini anche di militarizzare l’università esattamente come si è fatto per la distribuzione dei vaccini.

Il dibattito in merito è assolutamente attuale, si pensi al PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza) per l’università e alla constatazione fatta dalla senatrice a vita Elena Cattaneo del tentativo di sostenere l’università affiancandola con vari centri di ricerca eccellenti dimenticandosi di finanziare gli ottimi dipartimenti di università pubblica che già esistono.

Di recente sui giornali nazionali, ad esempio, nel dibattito sull’incapacità dei sistemi burocratici europei di gestire l’emergenza pandemica si è constatato che l’errore è costituito dal miraggio che l’efficienza si raggiunga contenendo le discrezionalità delle stratificazioni del sistema decisionale; riducendo cioè i margini di scelta soggettiva e trasformando la macchina organizzativa in una macchina piramidale non discrezionale, Francesco Figliuolo (2021): “Io sono uno che controlla le cose che fa, la chiave è: comando accentrato esecuzione decentrata”.

Attendiamo che la prossima riforma “Gelmini” dopo averci regalato la figura del direttore generale, arrivi ad applicare il “sistema Figliuolo” per contenere le discrezionalità dei tanto vituperati “baroni”. Non possiamo in tal senso non evocare un altro aforisma di Warren Bennis, già direttore del Dipartimento di organizzazione dell’MIT, che diceva che spesso si chiede di aumentare la spinta direttiva per ottenere maggiori livelli di efficienza, ma non di più direzione abbisogna un sistema organizzativo, ma di maggior guida.

 Conclusioni

Il recupero della rappresentazione soggettiva non è certo una novità nel panorama delle letture sul fronte delle teorie organizzative: ad esempio, nel libro per una teoria dell’organizzare di Barbara Czarniawska, si mette in luce come l’attore operi in organizzazioni che non possono ritenersi certamente strutture stabili, prevedibili, razionali, (ma questo lo sapevamo da quel dì), e che il loro valore funzionalistico si infranga contro la constatazione che esistono diverse narrazioni di una organizzazione (wE) che si incarnano nelle azioni dei protagonisti. Azioni diverse, attese diverse, preludono a comportamenti organizzativi (oB) non congruenti, distonici rispetto alla concertazione organizzativa. A volte ben poco riescono ad ottenere le azioni direttive o amministrative (ci guardiamo bene da chiamarle manageriali) in quanto esse restano sottese e irretite da modelli di integrazione astratti, che parlano di organizzazioni che non esistono e di umani frammentati (risorse umane?). La forbice tra atteso e reale, tra dichiarato ed agito è destinata ad allargarsi e questo non può che preludere al conflitto patologico. Il valore aggiunto che noi attribuiamo al modello P/E è la sua capacità di dare riscontro non solamente a elementi appartenenti al dominio del soggettivo, ma anche di evidenziare una giusta narrazione relativizzandola della solidità e a volte minacciosità delle componenti formali e oggettive (economico, aziendali, giuridiche) di una organizzazione. È proprio per questo chi riteniamo la tradizione Lewiniana in grado di offrire una lettura plurale e integrativa della vita organizzativa anche conflittuale. Essa rappresenta la visione di quella continua negoziazione tra il mondo della oggettività e il mondo della soggettività anche collettiva (cioè culturale, narrativa, costruttivista). È in questo ribollire dinamico (conflitto organizzativo appunto) delle mediazioni, delle negoziazioni, delle difese e delle rappresentazioni soggettive e micro collettive, che si gioca la quotidianità del conflitto organizzativo. Lo snodo cruciale è costituito dal fatto che la prospettiva P/E si presta ad una analisi tale da rendere ipotizzabili tattiche organizzative di intervento e di cambiamento secondo la migliore tradizione Lewiniana (Coch & French, 1948). A nostro parere l’organizzazione aziendale attende quella stessa rivoluzione di prospettive che l’economia comportamentale ha contribuito a facilitare nelle discipline economiche, si badi bene non tanto per trovare “la soluzione”, quanto piuttosto per arricchire la consapevolezza delle nostre incapacità. Talvolta appare che molti aziendalisti siano più inclini a progettare le “catene” del lavoro piuttosto che “l’organizzazione” del lavoro. Descrivendo azioni direttive astratte, su persone che non esistono, attori aziendali che appaiono come “ombre del pallido”. Costoro (aziendalisti) attribuiscono a se stessi il successo, laddove casualmente, tali azioni funzionino, e agli altri (attori organizzativi) le responsabilità quando questi stessi modelli, che insistono a chiamare manageriali, non dovessero funzionare. In conclusione il nuovo al quale ci ispiriamo, sta nel vecchio, sta nell’integrare una buona teoria del soggettivo in una buona pratica dell’organizzativo.

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[1] Nel testo intendiamo il concetto adattamento come opposto a quello di imbalance cioè sbilanciamento.

[2] Dalle quali saggiamente stiamo prendendo le distanze, grazie tra gli altri ai lavori dei soliti noti in particolare H. Simon, D. Kanemann fino a R. Thaler.

[3] Siamo costretti a tralasciare perché comporterebbe un impegno ancor più vasto, la constatazione che non tutti i conflitti organizzativi sono patologici. Il diritto di cittadinanza del soggettivo che si corona della dottrina delle risorse umane, sta proprio a significare che molto conflitto non solo non è negativo ma è propulsione fondamentale del valore di dinamicità di un’organizzazione (il confronto patologico vs fisiologico si può agevolmente avvalere per la sua comprensione dell’approccio sistemico) (Favretto et al, 2005).

[4] Ricordiamo che uno degli aforismi più noti di K.Lewin era: “che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria”.

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