ING: quando l’organizzare genera conflitto

Premessa

Conflitto organizzativo. Spesso il primo, il sostantivo, evoca ai più una qualche grana da risolvere. Il secondo, l’aggettivo (organizzativo), richiama e invoca poi la voce esperta, di addetti ai lavori che se ne intendano, insomma, su come sbrogliare una qualche matassa sociale. Se da qualche parte vige un conflitto, subito salta alla mente l’immagine di un soldato o, magari, di uno psicoanalista. Se – ancora – l’associazione torna ad organizzativo, il pensiero va invece sovente a qualche vate razionale, un tecnico, un ingegnere o un architetto delle cose d’azienda che sappia offrire soluzioni, attraverso i tre grimaldelli istitutivi dell’economia aziendale: efficienza, efficacia ed economicità. Messa così, sembra facile. Meglio evitare ogni conflitto.

In realtà, la questione è meno pacifica se si considera il conflitto non come una patologia, una devianza rispetto a un ordine precostituito, ma una delle tante variabili che, fisiologicamente, rientrano nello spettro dell’agire. Propongo invece di smarcarci dal distinguo tra ciò che è fisiologico e ciò che è patologico e di non incappare nell’automatismo per cui il lemma “organizzazione” deve – sì, deve proprio a tutti i costi – contenere a priori un’idea ottimistica di qualcosa che funziona bene, insomma trattandolo (impropriamente) come aggettivo qualificativo, piuttosto che come semplice sostantivo, quale di fatto esso è. Questo approccio è già acquisito nella migliore manualistica di “Comportamento organizzativo” che si ponga come punto di vista per prospettive in organizzazione plurali, qualora si voglia optare per una epistemologia costruttivista (o costruzionista, Czarniawska, 2014 [2020]): un “oggetto” sociale o naturale che sia – qualunque oggetto – non è per definizione un elemento di verità, ma – invece – una espressione di realtà, appunto da costruire (Berger e Luckmann, 1967 [1969]) attraverso lo sguardo incrociato con gli occhi dell’altro (von Foerster, (1991, [1996]). Per questo si parla di costruttivismo radicale. Questo è un “assunto” (Van Maanen, 1979; Schein, 1984 [1995]; 1985 [1990]; 1987; Gagliardi, 1995) da alcuni condiviso e sdoganato, da altri considerato ancora un po’ ozioso per correttamente leggere (interpretare) e scrivere (costruire e progettare) le organizzazioni (Sicca, 2010). Il tutto dipende, insomma, dalla lente, dal cristallino che di volta in volta si sceglie; in funzione delle categorie sottese o delle teorie di riferimento, talvolta anche degli obiettivi (siano quelli dei ricercatori o dei consulenti) che si intendano raggiungere.

Questo approccio ha un momento chiave nella storia del pensiero organizzativo (Bonazzi, 2016) laddove si adotti l’espressione organizing (Weick, 1969; 1979 [1993]), dove quell’ing indica il farsi, un modo cioè per comprendere la dimensione processuale dell’organizzare, le attività organizzantisi (benedetto gerundio, crea sempre qualche inceppo!) che richiedono necessariamente un angolo visuale diverso da quello prometeico del soggetto, dando spazio invece all’oggetto – anzi agli oggetti – cui si diceva appena più su.

Questa premessa costruttivistica – nata come discontinua rispetto al pensiero prevalente attestato sulla tradizione dell’economia neoclassica caratterizzata dalla simulazione del decisore onnisciente dotato di razionalità assoluta in condizioni di equilibrio economico generale – è oramai seguita da molti studiosi e conserva una notevole potenza interpretativa. Eppure porta ancora con sé il peso, cioè il rischio, di non poche conseguenze da tenere a bada, di cui vorrei trattarne e intrecciarne almeno due di vecchia data, perché se ripensate (anche con l’ausilio di alcuni esempi) possono rendere evidenti alcune fonti del conflitto organizzativo stesso, ancora negli anni a venire, in questa fase storica a cavallo tra un impianto di politica economica europea restrittiva (probabilmente lasciato alle spalle almeno per un po’) e prospettive di ripresa post-pandemica:

  • quando si assiste all’inversione del rapporto tra mezzi e fini (paragrafo 2);
  • quando ci si voglia cimentare con l’inevitabile tensione tra azione individuale e azione organizzativa (paragrafo 3).

Quindi due fonti di conflitto (tra altre possibili), che propongo perché sono al contempo speculari e complementari, lente còncava e convessa per la messa a fuoco dello stesso punto: la prima è una questione di carattere universale, inscritta nella storia del pensiero e con un precipitato anche negli studi organizzativi; la seconda, invece, è l’atto costitutivo degli studi organizzativi e risuona in più ampli dominî semantici, con ricadute e prospettive ulteriori e inclusive (paragrafo 4: conclusioni).

Il confitto organizzativo, tra mezzi e fini

Quella della tensione tra mezzi e fini è la storia più vecchia del mondo. Proprio questa tensione, in sé, è per definizione fonte di conflitto. E la viviamo ogni giorno, in ogni gesto quotidiano, anche noi che ci occupiamo di economia-e-management, con trattino, come costrutto unico. Quella tensione si conferma e si manifesta nelle molteplici forme dell’agire, laddove si assuma che l’impresa, l’organizzazione aziendale, sia il regno dell’imperfezione (Martinez, 2020; Burton, Børge, Håkonsson, Martinez, 2020) e, a partire da quest’ultima, occorra tenere sempre a mente l’irrinunciabilità ai tipi ideali (quelli che il mondo antico declina come topoi – τὸποι), temi ricorrenti, che affondano le proprie radici nel concetto di archetipo, definito dal Vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli, come “primo esemplare assoluto”.

Quando un qualunque archetipo (Senge, 2004 [2020]) si fa (ing, appunto) costrutto di conoscenza, si dispone di un apparato concettuale per muoversi nella dinamica del mondo reale. Ciò vale lungo l’intero arco della storia del mondo nella quale siamo immersi anche noi, gente di management: è stato così da quando il pensiero (che nasce dalla pura osservazione – archetipo) si è fatto costrutto di conoscenza, attraverso l’etichetta (organizational label, Czarniawska, 2014 [2020]) della Filosofia. O anche quando il suono (archetipo, ancora una volta) si è fatto costrutto di conoscenza attraverso l’etichetta della Musica (Napolitano, Sicca, 2021). È così per chi si occupa di organizzazione aziendale, di organizzazioni aziendali (al plurale) costruendo il nostro statuto teorico-disciplinare su una serie di archetipi che afferiscono all’economia della mente (Thanopulos, Sicca, 2020): quindi, ad esempio, l’utilità come asset da cui nasce la prima teoria marginalista con il contributo seminale e costola della Filosofia Morale di Adam Smith (1767-1773 [2017]) o con la lezione di David Ricardo (1815) che ancora oggi alimenta il mainstreaming del monetarismo (Friedman, Schwartz, 1867 [1979]) anche in sede di politiche ai tavoli di negoziazione internazionale; o ancora altri archetipi come per esempio la rivalità, l’ostilità o l’alterità (e chi più ne ha ne metta con ciò che abbiamo – tutti – montato di serie), che pure trovano risposte nella costruzione delle leggi (nomos, νόμος) della casa (oikos, οἶκος), in breve in una economia che non si arroghi il diritto alla presunta neutralità scientifica, ma si si metta in gioco come disciplina dotata di soggettività, quindi dotata per definizione di indirizzo politico, di militanza, di valori messi in scala, in ragione di obiettivi di parte (e non di un’altra) che è possibile conseguire con i mezzi a disposizione.

Esempio 1. Mercato e gerarchia nel conflitto tra mezzi e fini

Tra gli archetipi su menzionati, di primario interesse per chi studia organizzazione aziendale sono quelli che si danno (e si fanno) risposte, rispetto alla questione del coordinamento attraverso almeno due polarità tematizzate in seno alla letteratura di industrial organization: mercato e gerarchia (Coase, 1937 [2001]; Williamson, 1980 [1985]; 1981 [1985]). Il coordinamento, insomma, è anch’esso un costrutto di secondo livello rispetto a uno dei tanti “primi esemplari assoluti” già accennati con riferimento all’economia della mente. E noi studiosi nell’osservare i diversi possibili modi di coordinare, possiamo ribadire che quel si è fatto, si fanno, come anche il farsi, il darsi (insomma quell’ing) questa o quella forma può soddisfare questo o quel modello che, proprio in quanto “modello”, orienta anche i termini della relazione tra mezzi e fini e i possibili rischi associati a una loro inversione. Pensiamo, a ulteriore esemplificazione, alle esasperazioni delle forme di mercato o agli eccessi di gerarchia, ma anche al mondo reale connotato da un numero indefinibile di sfumature di grigio: i tanti quasi-mercato come i tanti quasi-gerarchia che negli anni futuri potranno manifestarsi anche con nuove modalità.

Esempio 2. La burocrazia, nel conflitto tra mezzi e fini

Un altro esempio ci viene dal contributo di Max Weber nella sua ciclopica opera (1922 [2019]): la burocrazia dello Stato razionale e legale nei paesi occidentali, nati dal diverso sviluppo delle religioni e di alcune peculiari forme di Protestantesimo ascetico, assume oggi – anche nelle espressioni di senso comune – una accezione negativa, quasi una brutta parola. Quella pianificazione a tavolino (bureau, ufficio) dei mezzi, in ogni dettaglio, per raggiungere uno scopo, rende quest’ultimo (specie in presenza di condizioni di sviluppo dimensionale, Penrose, 1959 [1973]; Chandler, 1962 [1967]) esso stesso un mezzo (e viceversa), perdendo il senso iniziale dello scopo. Analogamente, sta accadendo qualcosa del genere da una manciata di anni, al di fuori dei contesti considerati tradizionalmente aziendali: nelle comunità, nelle articolazioni dello Stato democratico (Regioni e Comuni) e in molte strutture concepite (e a lungo vissute) con la funzione di mediazione sociale (Sicca, 2016; 2020; Nolfe, Sicca, 2020). Una per tutte, per esempio, proprio l’Università (Sicca, Borrelli, Napolitano, 2021) e in via più ampia – à la Dewey – la comunità di produzione della conoscenza, talvolta non trattata sempre solo “come un fine, e mai come un mezzo”, per riprendere l’imperativo di Immanuel Kant, punto di riferimento anche dell’etica deontologica moderna. Imperativo che appare tradito laddove prevalga l’aziendal-ismo, in via diffusiva. Aziendal-ismo, ovvero un qualcosa che, come ogni ismo, è espressione di una dittatura, sia di pensiero o di pratiche, specie se si sostituisce a una cultura aziendale, ovvero a un aziendal-esimo, che come ogni esimo, può e potrebbe restare nel suo significato più laico di un suffisso [(derivato da -esimu(m)], usato per formare gli aggettivi numerali ordinali successivi a decimo. Quindi destinati a durare nel lungo termine senza esitare in ribaltamento tra mezzi e fini, nella trappola del breve, che è alla radice del conflitto stesso. Perché, in fondo, è proprio questo il problema. Quando il mezzo diventa fine, si fa procedura. Appunto, dura! Nel senso contrario di morbido, quindi rigido, anelastico, poco flessibile. Nonostante il rischio che l’organizzazione stessa non perduri: è questo il punto chiave della lettura weberiana, evidente nella sclerosi (si pensi alle Chiese e ai Partiti politici) associabile a tutte le dinamiche di istituzionalizzazione.

Esempio 3. Big data nel conflitto tra mezzi e fini

La gestione dei big data insiste su come un salto di paradigma tecnologico, come quello che abbiamo vissuto al tramonto dello scorso secolo, imponga uno sguardo in avanti in questo inizio di millennio caratterizzato da tecnologie per la creazione di valore e di conoscenza: sotto i nostri polpastrelli e in tasca, e anche lontano da noi (con l’imminente ingresso diffusivo del 5G e dell’internet of everything nelle nostre vite) questa esperienza rinnova un antico interrogativo su come la “scienza dei dati” possa consentire di analizzare, estrapolare e mettere in relazione mezzi strutturati e non strutturati allo scopo di scoprire i legami tra fenomeni diversi. Le correlazioni (tra qualunque cosa) diventano spesso un fine in sé, con evidenti forzature epistemologiche (ad esempio approcci comportamentisti o data-realisti, come se i dati parlassero da soli), tese a legittimare le metodiche di previsione su eventi futuri. E dai tempi della maga o dello stregone, passando per l’affermazione della Scienza nel mondo moderno fino alle più raffinate tecniche di forecasting, quando si ha a che fare con il futuro, occorre andare cauti, mediare tra ansie archetipiche e altrettante aspirazioni e pulsioni, un piede dietro l’altro, facendo attenzione a non inciampare proprio nella dialettica tra mezzi e fini.

Quando ci si voglia cimentare con l’inevitabile tensione tra azione individuale e azione organizzativa

Dal nostro punto di osservazione di studiosi di organizzazione, quindi da un’altra delle nostre possibili prospettive in organizzazione, il punto di caduta delle questioni sin qua sollevate è circoscrivibile, almeno in parte, alla questione dell’azione che da individuale si fa cooperativa (Barnard, (1938 [1948]), alle fondamenta della nostra disciplina. Questione in cui ciascuno di noi mette in gioco una cessione di soggettività a vantaggio di una oggettualità di cui pure abbiamo tutti bisogno. E proprio qua si staglia il conflitto: si tratta di una necessaria abdicazione perché delle organizzazioni – in quanto spazi con pareti anche molto dilatate rispetto alla fabbrica fordista – necessitiamo per pensare, quindi agire (Sicca, 2016; 2020; Nolfe, Sicca, 2020). L’assenza di pareti (reali o figurate) porterebbe tutti noi e ciascuno al naufragio: è questa una lezione che ci consegna il Tavistock Institute di Londra che fece incontrare la tradizione psicoanalitica (di matrice freudiana e sull’abbrivio dell’opera di Bion, 1962a; 1962b [2009]), in dialogo con la letteratura manageriale, tematizzando l’impossibilità a gestire le plurali forme di ansia che dal mondo infantile transitano nella soggettività adulta di lavoratori, manager e professionisti d’impresa. Questa impostazione è, con diverse e talvolta ortogonali modalità di argomentazione, sempre presente sia nel campo della ricerca quantitativa, sia per chi svolge ricerca qualitativa (Corbetta, 2014). Nessuno si senta escluso, anche laddove ci sia dia un côté riduzionistico, attivando quella sospensione del giudizio che, per definizione, è un esercizio di pensiero, destinato a restare tale. Ed è così anche laddove si faccia scattare la tradizionale clausola del ceteribus paribus, da sempre presente nei processi di costruzione della teoria economica.

Per convergere e concordare, così come per confliggere, per tutti e per ciascuno (rampanti imprenditori e mezze maniche, manager d’assalto, studiosi defilati, burocrati, studenti o docenti e così via) servono scrittori, sceneggiature, autori. Trame su cui ordire e rappresentare, così, la nostra azione: quella personale che intreccia ogni interazione (Goffman, 1959 [1969]). In breve, il conflitto tra soggetto organizzante e oggetto organizzato è nelle corde, scaturisce dalle storie (Czarniawska, 2004 [2018]) che scriviamo (o altri scrivono per noi), da quelle che ci raccontiamo, oppure raccontiamo: il nostro lavoro di ricerca è così, in ultima analisi, un gesto di traslazione e traduzione di narrazioni che dicono proprio della dialettica tra individuale e collegiale, quindi un modo altro di interpretare e “dire quasi la stessa cosa“ (Eco, 2003).

Esempio 1. Il confitto tra persone e risorse umane

Quando si dice di cose aziendali pensiamo a noi stessi, ai capi, ai nostri collaboratori, agli stakeholder in senso lato, non considerando mai (se non in via strumentale agli obiettivi aziendali) le “persone”, mentre diciamo invece di “risorse umane”, perché tutti, ciascuno nella propria organizzazione di riferimento, siamo oggetto di investimento sul quale vi è una attesa di ritorno, con tanto di analisi del ROI, acronimo di Return on Investiment (Sicca, 2013; Costa, Gianecchini, 2019).

Esempio 2. Dal conflitto bellico: Exit, Voice e Loyalty

Otto-Albert Hirschmann prima di essere l’economista che conosciamo per avere iniziato i suoi studi nel 1932 alla Humboldt di Berlino, per proseguire alla Sorbona, alla London School of Economics, quindi a Trieste, fino a ricoprire varie cattedre a Yale, alla Columbia, ad Harvard e a Princeton, si arruolò come volontario durante la Guerra civile spagnola (naturalmente a supporto della Repubblica), poi, quando la Francia si arrese ai nazisti, sostenne numerosi artisti e intellettuali europei nel trovare riparo negli Stati Uniti, per i quali fu soldato nell’esercito dal 1943 al 1946. Fu uno fra i tanti (un altro per esempio è Edgar Schein, psicologo della cultura organizzativa) che contribuì alla formazione di un linguaggio economico che si afferma con forza quando – con la fine della Seconda Guerra – alcuni alti ufficiali dell’esercito vincitore, andarono ad occupare le cattedre delle principali business school americane. Portando con sé, ma anche negli insegnamenti a noi generazioni che quella guerra non l’abbiamo vissuta, un lessico dove mission, vision, strategia, tattica, target, e chi più ne ha ne metta, scivolano in automatico, quasi senza accorgercene. Hirschman (1970 [1982]) è responsabile di una lezione che ritengo importante in questa riflessione sul conflitto organizzativo, laddove affronta la questione della tensione tra azione individuale e organizzativa, riportando sul tavolo il tema dell’orizzonte temporale cui nell’esempio 2 del precedente paragrafo. Questione già ampiamente trattata da Barnard laddove (forte della sua corrispondenza con Talcott Parsons) riteneva che tutti i sistemi di cooperazione sono sempre (ad eccezione della Chiesa Cattolica Romana) di breve durata: un’azienda, come uno stato nazionale non durano oltre un secolo perché è impossibile colmare lo iato tra il parametro (qualitativo) dell’efficacia e quello (quantitativo) dell’efficienza, da lui tarato proprio sull’HR management (come lo chiamiamo oggi) piuttosto che sulle risorse finanziarie. Hirschman, insomma, con diversa terminologia rispetto a Barnard (che ebbe tutt’altra storia personale connotata da una vita di fattoria, la vendita di pianoforti e gestione di una compagnia da ballo, la mancata laurea ad Harvard e l’ingresso nel 1909 all’American Telephone and Telegraph Company, fino a diventare presidente della New Jersey Bell Telephone Company, della Fondazione Rockefeller, della National Science Foundation) definì tre modalità di coordinamento tra agire individuale e agire organizzativo: l’uscita (Exit) dal mercato, quando il consumatore non è soddisfatto; la lealtà (Loyalty), qualora viga un forte sentimento di appartenenza, così come tematizzato poi da Clark (1972 [1995]) con l’immagine della Saga organizzativa che consente un contenimento delle perdite di quote di mercato; Voice (oggi le chiameremmo chat, che è un chiacchiericcio in cui ciascuno ha diritto a sparare la sua, con non pochi rischi distorsivi, anche al netto delle Fake news) quando i consumatori diventano informatori di chi produce (offerta), fino a potere scongiurare le conseguenza di una “uscita”. Successivamente lo stesso Hirschman (1982), sempre per trattare di dialettica individuo-organizzazione, analizza i meccanismi per cui la “delusione” (deception) del consumatore può tradursi in azione collettiva fino a restituire il testimone alla dimensione individuale (privata) dell’agire umano, punto cruciale che trova poi convergenza nel più recente The Passions and the Interests: Political Arguments for Capitalism Before Its Triumph (Hirschman, 2013), con prefazione di Amartya Sen, Premio Nobel nel 1998 per l’Economia e la postfazione di  Jeremy Adelman, direttore del laboratorio di Storia globale a Princeton.

Esempio 3. Un ulteriore soccorso da big data: possibile inciampo tra agire individuale a organizzativo

Yuval Noah Harari, già membro della Giovane Accademia israeliana delle scienze, dopo essersi specializzato in storia medievale e storia militare, ha conseguito il Dottorato all’Università di Oxford, nel 2002. Nel suo lavoro del 2016 [2017] Homo Deus. Breve storia del futuro, momento centrale di una trilogia del tempo, giunge alla divinazione dell’homo sapiens – nella relazione con i nostri coinquilini del pianeta – grazie alle nuove tecnologie. Fino a profetizzare la sostituzione dell’umanità con un Dio-uomo, appunto un Homo Deus. Quindi capace anche di sconfiggere nuove o ignote forme di vita, quindi anche i virus, per restare su un tema così attuale in questo complicata fase al tramonto del primo ventennio di un nuovo millennio.

Shoshana Zuboff è una studiosa e docente all’Università di Harvard, con una formazione in psicologia sociale e una laurea in Filosofia. Nel 2019 scrive il saggio Il capitalismo della sorveglianza come espressione dello sviluppo di aziende digitali, fino ad associare i modelli di business dei colossi come Amazon, Google e Facebook alle tradizionali (e al tempo stesso rinnovate) forme di quel che il Novecento aveva etichettato come “accumulazione capitalista”.

Entrambi questi lavori, che ho qua richiamato in via estremamente sintetica e strumentale, rimandano alla questione dei big data, questa volta però non come nell’esempio del paragrafo 1 in relazione alla questione del rapporto tra mezzi e fini, ma con riferimento al passaggio dall’agire individuale a quello organizzativo. Lo stesso fenomeno che interessa la realtà di questa contemporaneità che ci è capitata in sorte, può dire di due questioni millenarie diverse e intrecciate. Infatti, il punto di caduta delle libere associazioni tra quei due testi piuttosto recenti (2016 e 2019) è l’antica questione, ancora una volta archetipica, per cui l’individuo, ma in via generale e più ampia qualunque espressione della “soggettività” è unica possibile portatrice sia di istanze, esigenze e bisogni; sia dell’innovazione. Non vi è innovazione in assenza di soggettività. E quest’ultima, anche in contesti post-umani (Knorr Cetina, 1997; 2006 [2010]) passa necessariamente per la dimensione individuale dell’agire. O, almeno, non può non tenerne conto. Tra idiosincrasia, insomma, e senso del contributo (Faldetta, 2021). Ed entro tale morsa, dalla quale probabilmente è impossibile liberarsi, torna feconda ancora una volta la lunga operosità di Barbara Czarniawska (2014 [2020]), quando trattando delle riforme dall’alto ci porge l’immagine della vita organizzativa come una realtà complessa e mutevole additando criticamente la pianificazione del cambiamento organizzativo, quindi una concezione arcaico-patriarcale della leadership e del management. Una denuncia a favore del riconoscimento di eccezioni, imprevisti, dello straordinario e anche del paradosso (Cunha, Giustiniano, Rego, Stewart 2017), che sanno assurgere a lente di ingrandimento, a microscopio in grado di rendere visibili (e includere nel discorso) questioni fondamentali, tenute in ombra in tempi e organizzazioni considerate ordinarie o normali (Sicca, 2000). Vai poi a capire quali sono quelle anormali o anomale.

Conclusioni

Ho proposto la questione del conflitto organizzativo come gesto linguistico, nella convinzione che proprio il linguaggio sia la sede migliore per cogliere alcune dimensioni caratterizzanti la ricerca organizzativa. Ho quindi spostato l’attenzione su due forme di conflitto, sul crinale tra uso delle lingue, costruzione del linguaggio e possibili prassi organizzative in termini di divisione del lavoro e di coordinamento: il conflitto relativo alla millenaria questione della spirale entro cui si avvitano mezzi e fini (par.2); e le frizioni tra agire individuale e organizzativo (par. 3). Mi è venuto in soccorso quell’ing, presente nell’organizing di Karl Weick e dei tanti studiosi che a lui hanno fatto e fanno ancora oggi riferimento, nella cornice di una epistemologia costruttivista, o costruzionista, storicamente considerata alternativa al mainstream dell’industrial organization caratterizzata dalla eco della razionalità di marca neoclassica. Ho quindi proposto di approfondire la cessione di potere che nasce dalla delega del soggetto (la persona) all’oggetto (la risorsa umana), a partire dalla constatazione di uno stato di vulnerabilità strutturale e non eludibile che attraversa le persone che popolano le organizzazioni per la maggior parte della nostra vita adulta. Proprio su quest’ultimo punto vorrei allora, a finale, proporre una traccia per il futuro, non certo risolutiva delle forme di conflitto illustrate, ma espressiva di possibilità – penso utili – per smarcarsi da trappole che oramai accompagnano i nostri studi e i nostri studenti da un tempo, che – ci ricorderebbe Chester Barnard – è un po’ troppo lungo! Una proposta centrata sulla “inclusione” come costrutto, praticabile sia in sede di ricerca che di prassi aziendali, quindi anche in termini di costruzione del linguaggio e sua decostruzione quando in esso si annidano le fonti del conflitto, tra cessione di soggettività e accoglienza della vulnerabilità.

Intendo qui inclusione come concetto opposto a quello di integrazione. L’inclusione avviene infatti attraverso le sollecitazioni che chi è al centro (con ruoli di governo delle pratiche vigenti), riceve da chi abita i margini (Sicca, Valerio, 2021). Sono i margini i luoghi in grado di stimolare una rilettura delle prassi prevalenti e del pensiero ad esse sotteso. È da qua che si sprigionano le fonti del valore. A partire, parafrasando il filosofo José Medina (2006), da quelle voci d’altrove che impongono una ricostruzione degli assetti dominanti (Gramsci, 1948-1951; Bourdieu, Wacquant, 1999 [2005]) che, per definizione e statuto, in quanto tali, necessariamente producono esclusione. Per la necessità di affermare se stessi, le proprie storie, le proprie narrazioni che poi tocca interpretare, tra palco e retropalco – à la Goffman – nella vita quotidiana. Parlare di inclusione si può, dunque, come costrutto ben diverso dalla logica della integrazione che prevede cornici invarianti, mentre viene richiesto a chi è fuori di modificare se stesso per essere, appunto, integrato nel contesto dato. L’inclusione, insomma, come ri-organizzazione e revisione di vocabolari teorici, procedure, istituzioni, fino a potere in alcuni casi rimuovere le cause dell’esclusione (Oliverio, Sicca, Valerio, 2015).

Questo approccio fa dell’inclusione una riserva di caccia e di risorse, con sorprese sempre possibili anche per chi fa ricerca organizzativa. I nostri studi tendono così ad assomigliare agli Scavi di Pompei (secondo sito archeologico più visitato al mondo, dopo il Louvre) riemersi solo di recente (metà del Settecento) dal mondo pre-industriale. Alla stregua degli archeologi che ogni volta che scoprono qualcosa si ritrovano di fronte a nuove potenzialità di scoperta, con tanto di conflitto (ancora una volta) su cosa catalogare e distruggere; o continuare a scavare; anche noi, studiosi di management, ogni volta che scopriamo qualcosa (scopriamo anche solo attraverso la logica della argomentazione, lasciando alle scienze dure quello della dimostrazione), quel qualcosa può essere incluso e recuperato da un qualche contesto a torto considerato marginale: per esempio quei litigiosi problematici che infastidiscono i flussi organizzativi e gli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità. Quel qualcosa, ancora, ci consente proprio di recuperare e includere nuovamente informazioni su noi stessi, informazioni quindi preziose che avevamo ceduto insieme a quote di soggettività, al servizio dell’urgenza di oggettualità. Riaprendo la spirale (ing) sulla dialettica tra mezzi e fini, ma anche la tensione tra individuo e organizzazione. Quindi qualcos’altro da scoprire ancora, dirimendo da un lato vecchi conflitti e, dall’altro, generandone nuovi. Oltre ogni decimale che si produce e riproduce nel tempo … . 

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Questo testo è dedicato alla grata memoria del prof. Renato Mele, la cui cifra distintiva è nella parola “libertà” (Napoli, 1 febbraio 2021). Desidero ringraziare per avere letto e commentato precedenti stesure di questo gerundio: gli amici e colleghi Davide Bizjak, Barbara Czarniawska, Guglielmo Faldetta, Luca Giustiniano, Domenico Napolitano, Luca Pareschi, Francesco Piro e Luigi Proserpio. Naturalmente ogni mitragliatrice potrà essere scaricata solo contro di me.

Luigi Maria Sicca: Professore ordinario di Organizzazione aziendale e di Comportamento organizzativo, Direttore scientifico della rete di ricerca internazionale puntOorg, è membro del Consiglio direttivo del Centro Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti (SInAPSi) e del Comitato Unico di Garanzia (CUG), Università degli Studi di Napoli Federico II; membro dello Scientific Council dell’European Academy of Management (EURAM) e del C.d.A. della Fondazione Genere Identità Cultura (GIC).

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Università degli Studi di Napoli Federico II

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