La Chimera dell’organizzazione perfetta: archetipi, ibridi e metafore per la progettazione e il cambiamento organizzativo

Estratto dal cap. 12 del volume Richard M. Burton, Børge Obel, Dorthe Døjbak Håkonsson, Marcello Martinez (2020). Organizational design. TORINO: Giappichelli, ISBN: 9788892135116

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L’utopia del modello organizzativo perfetto

Nel mondo reale, le aziende con assetti organizzativi “perfetti” non esistono. L’organizzazione perfetta è una utopia (Graeber 2016), nel senso che è compito del manager individuare continuamente le differenze rispetto ai modelli ideali e decidere se e come avviare azioni di cambiamento e miglioramento.

Per questo, molti modelli ideal-tipici devono più correttamente essere interpretati come archetipi. La parola archétipo deriva dal greco antico ὰρχέτῦπος e significa immagine (modello, marchio, esemplare, tipo) “originale”. Anche l’archetipo è un elemento vuoto, formale, nient’altro che una facultas praeformandi, una possibilità data a priori di una forma di rappresentazione […] esso può essere in linea di principio determinato e possiede un nucleo di significato invariabile: questo però determina il suo modo di manifestarsi in teoria, mai in concreto” (Jung, 1982). Questo termine torna utile per “rappresentare” un tipo di assetto organizzativo, indicativo delle tipologie di forme che, per grandi linee, presentano caratteristiche organizzative ricorrenti in molte evidenze empiriche. Ad esempio, Greenwood e Suddaby (2006, p. 30) definiscono un assetto organizzativo come “una configurazione archetipica di strutture e pratiche cui viene data coerenza dai valori sottostanti considerati appropriati in un contesto istituzionale”. Contrariamente ad uno stereotipo, che è in effetti un pregiudizio, cioè un giudizio dato prima di conoscere un oggetto, una persona, un’organizzazione, utilizzare un archetipo significa avviare un percorso ermeneutico di comprensione e rappresentazione. Nel mondo reale, nelle aziende, non esistono modelli e/o assetti organizzativi “puri”, esistono invece degli assetti confusi e “pasticciati”. Utilizzare i modelli organizzativi ideal-tipici come archetipi significa dunque stabilire un termine di confronto non per identificare necessariamente l’assetto To be come un modello da adottare acriticamente, ma per comprendere nel dettaglio i principali problemi dell’assetto reale di un’azienda e decidere quali e quante soluzioni organizzative da adottare per correggerli. Nei fatti, il confronto con gli archetipi serve a definire e comprendere il funzionamento degli assetti reali che si presentano come ibridi da analizzare e valutare anche mediante il ricorso alle metafore.

Gli assetti organizzativi ibridi

Nel mondo reale gli assetti organizzativi si presentano dunque come “ibridi”. Raramente cioè combaciano con gli ideal-tipi. Le organizzazioni perfette non esistono, né esistono due organizzazioni uguali. Teoricamente si potrebbe immaginare che due imprese di uno stesso settore, magari di produzione di pasta, o due aziende ospedaliere di una stessa regione, siano simili in termini di affinità dei prodotti o dei servizi erogati o finanche di normative di riferimento, quali le procedure mirate a garantire la salubrità degli alimenti nel caso delle aziende alimentari, e i protocolli sanitari nel caso degli ospedali. Una identica combinazione dei diversi elementi di un assetto organizzativo, finanche in aziende di uno stesso settore, non solo è improbabile ma addirittura impossibile. Ovviamente similitudini, imitazioni, tecnologie o soluzioni organizzative analoghe possono riscontrarsi e sono spesso rilevate, ma la numerosità e la ricombinazione delle variabili, nonché gli effetti non pianificati che possono derivare dalla interazione fra diversi elementi di un assetto, rendono ciascuna azienda diversa in termini di vantaggi e criticità rilevabili in un determinato momento temporale. In sostanza, l’allomorfismo tra aziende è in genere superiore all’isomorfismo. Basta che cambi un solo elemento, per generare conseguenze inattese sia positive sia negative. Ad esempio, laddove sia nominato in un’azienda sanitaria un nuovo direttore generale con un diverso stile di leadership o una diversa visione strategica, ecco che possono generarsi nuovi e specifici vantaggi o svantaggi in termini di allineamento o disallineamento fra leadership e clima, strategia e relazioni esterne, strategia e macrostruttura, macrostruttura e clima, ecc.

Proprio per questo, gli archetipi organizzativi non rappresentano un’ontologia descrittiva, cioè uno sforzo di classificazione della realtà. Nelle aziende reali non si troveranno mai questi tipi ideali. Le aziende reali presentano invece degli assetti organizzativi ibridi, combinazioni incomplete degli ideal-tipi. Le motivazioni sono molteplici. Fra le più rilevanti se ne segnalano cinque.

In primo luogo, le aziende sono sempre in cambiamento e hanno confini permeabili: le persone vanno e vengono (arrivano neoassunti, alcuni vanno in pensione, altri si trasferiscono, ecc.); si effettuano investimenti in nuovi impianti, stabilimenti, tecnologie che cambiamo la microstruttura del lavoro; nuovi clienti richiedono nuovi prodotti e servizi; i concorrenti introducono sul mercato prodotti e servizi innovativi; alcuni fornitori possono scomparire, ecc.; tutto questo genera potenzialmente nuove tensione nell’assetto organizzativo.

In secondo luogo, le aziende possono avere avviato dei progetti di cambiamento dell’assetto organizzativo per cercare di eliminare alcune criticità, ma o questi progetti non si sono conclusi o non hanno avuto successo, per cui l’azienda è rimasta con un assetto To Be “lasciato a metà”.

In terzo luogo, le aziende possono avere deciso di risolvere alcune criticità, ma di non impegnarsi su altre perché il costo del non cambiamento è stato ritenuto inferiore al costo del cambiamento e dunque l’azienda continua ad andare avanti con un assetto ibrido, ritenuto tutto sommato soddisfacente.

In quarto luogo, esistono aziende che funzionano male. Si sono manifestati effetti per cui gli assetti organizzativi sono “alla deriva”, nessuno ha valutato realmente le esigenze di cambiamento, oppure si sono accumulati errori dopo errori, i vertici si sono succeduti, le aziende sono entrate in crisi. È evidente che in queste situazioni gli assetti saranno rilevati come inadeguati, se non obsoleti e addirittura d’ostacolo al raggiungimento di performance sufficienti.

Infine, spesso nelle aziende alcune unità organizzative si presentano conformi con un assetto, mentre altre seguono altri modelli. In una azienda con un assetto tendente alla forma multidivisionale tipicamente, all’interno di ciascuna divisione possono trovarsi diverse combinazioni di elementi; per cui in una divisione prevarrà un orientamento verso una forma Semplice, in un’altra invece verso una forma funzionale. Ma lo stesso può rilevarsi anche all’interno di una forma funzionale: in una unità (ad esempio “produzione”) si adotterà un assetto basato su una forte specializzazione, in un’altra (ad esempio “ricerca e sviluppo”) un assetto a forma reticolare, e così via.

Assetti organizzativi e metafore

Come affrontare, dunque, l’assessment di assetti organizzativi ibridi, incompleti, lasciati a metà? Come detto il confronto con gli archetipi consente di fare emergere le differenze ed avviare il processo di analisi e diagnosi. Per potere pervenire a delle adeguate rappresentazioni, in coerenza con un approccio olistico multi-contingente, dell’assetto As Is ma anche dell’assetto To Be, mantenendo la specificità e l’unicità che entrambi assumono all’interno di una specifica azienda, è possibile ricorrere all’“approccio per metafore”.

Secondo Mary Jo Hatch (2018), per lo studio degli assetti organizzativi occorre distinguere una prospettiva modernista, da una postmodernista. Un approccio modernista si concentra sull’organizzazione come se fosse un’entità oggettiva e adotta un approccio positivista per generare conoscenza. Un’analisi dell’organizzazione di tipo modernista si concentra su come aumentare l’efficienza, l’efficacia e altri indicatori oggettivi di performance attraverso l’applicazione di metodi che impattano prevalentemente sui processi, sulle procedure, sui compiti, sulle strutture e sui sistemi di controllo formali.

La prospettiva postmodernista invece privilegia un approccio simbolico-interpretativo: invece di trattare le organizzazioni come oggetti da misurare e analizzare, le rappresenta come insiemi di significati che vengono creati, apprezzati e condivisi. Il postmodernismo sfida pertanto le categorie chiuse di tipo ontologico e si propone di sfocare i confini fra ideal-tipi, rimanendo invece “affascinato” dagli ibridi da analizzare utilizzando contemporaneamente più prospettive, ossia più dimensioni e livelli di analisi, in conformità dunque ad un approccio olistico e iterativo come quello del modello della progettazione a diamante. Proprio l’allomorfismo organizzativo è dimostrato dalla presenza nel mondo reale di tanti assetti ibridi, diversi l’uno dell’altro. Dunque, gli stessi manager o consulenti, impegnati nell’analisi e diagnosi dell’adeguatezza dell’assetto As Is e nella progettazione di un assetto To Be, se utilizzano più prospettive contemporaneamente, sono in grado di cogliere meglio le particolari interazioni fra tutti gli elementi di un assetto organizzativo “ibrido”. Si perviene dunque ad una loro rappresentazione non in chiave ontologica, ma invece simbolica ed evocativa, utilizzando approcci ispirati alle arti e agli studi umanistici, come quello delle metafore generative ed evocative. L’influente libro di Gareth Morgan, Images of Organization (1997) è stato uno dei primi libri a richiamare l’attenzione sulla necessità di studiare le organizzazioni da diverse prospettive ed ha proposto che le teorie organizzative si debbano basare su metafore.

Ma cosa è una metafora? Secondo Mary Jo Hacth (2018) “una metafora generativa consente di capire una certa esperienza in riferimento ad un’altra: la metafora suggerisce un collegamento o una identità tra due esperienze che normalmente non verrebbe rilevata. Se si conosce almeno una delle due parti della metafora si può imparare qualcosa dell’altra. Pertanto, la metafora ci incoraggia a esplorare i parallelismi tra un certo oggetto di interesse e qualcosa che ci è più familiare e che quantomeno conosciamo sotto una luce diversa”.

Ricorda Gareth Morgan (1997): “uno degli aspetti interessanti della metafora è che produce sempre rappresentazioni parziali. Nel mentre evidenzia certe interpretazioni tende a respingere nel sottofondo altre possibili spiegazioni. In sostanza, le metafore danno sempre luogo a delle distorsioni. Ovviamente quanto si ricorre alla metafora si fa uso di immagini evocative e si creano delle falsità costruttive. Se si desse un senso letterale alla metafora, si avrebbero dei veri e propri assurdi”.

Nell’approccio simbolico-interpretativo, rappresentando con una metafora un assetto organizzativo ibrido e confrontandolo direttamente o indirettamente con un archetipo, è possibile scoprirne con maggiore immediatezza criticità e vantaggi e individuare quindi nuove possibili soluzioni organizzative e percorsi di cambiamento.

Riferimenti bibliografici

Graeber D., (2016). Burocrazia. Milano: Il Saggiatore.

Greenwood R., Suddaby R. (2006). “Institutional entrepreneurship in mature fields: The Big Five accounting firms”, Academy of. Management Journal. (49) 27-48.

Hatch M.J. (2018). Organization Theory Modern, Symbolic, and Postmodern Perspectives, Fourth Edition, Oxford University Press.

Jung C.G. (1982). Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Torino: Bollati Boringhieri.

Morgan G. (1986). Images of Organization. Thousand Oaks, CA: Sage.

 

 

Autori

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Università della Campania Luigi Vanvitelli

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