La gestione della diversità tra illusioni, fantasmi e lanterne magiche

La gestione delle varietà organizzative è tipicamente interpretata come una potenziale fonte generativa di vantaggio competitivo per le aziende. Più raramente si pone l’accento sulle difficoltà operative dell’implementazione delle pratiche in oggetto, che possono produrre, in ambito organizzativo, sentimenti negativi di ansia, incertezza e preoccupazione. Il management non può non confrontarsi con il rischio che i processi di cambiamento orientati alla valorizzazione delle specificità individuali siano percepiti come illusioni ottiche, stimolando i fantasmi dell’ipocrisia, della frustrazione e della resistenza.

La gestione delle varietà tra valorizzazione e illusioni

La varietà socio-demografica e culturale degli individui e dei gruppi nelle organizzazioni non costituisce di per sé un fenomeno recente, perché essa è strettamente interrelata ai processi di internazionalizzazione dei mercati, di evoluzione tecnologica, di sviluppo di nuovi modelli culturali, che, di continuo e sempre più rapidamente, generano e mettono a confronto gruppi di individui “differenti” da altri sotto il profilo della lingua, dell’età, delle conoscenze, delle attitudini, delle motivazioni e delle prospettive di vita (de Vita & Pezzillo Iacono, 2009).

Il riconoscimento delle varietà, la comprensione delle loro evoluzioni e l’analisi delle dinamiche sociali che derivano dalla coesistenza di più identità sociali e culturali, rappresentano, dunque, temi con cui le organizzazioni moderne si confrontano con crescente sensibilità. I motivi dell’interesse sono rinvenibili, da un lato, nel grado di evoluzione e di incisività del dettato normativo nazionale e internazionale in materia di uguaglianza e tutela dei diritti dei lavoratori e degli individui in generale e, dall’altro, nel progressivo affermarsi dell’idea che la più attenta gestione delle persone, delle loro competenze distintive e delle loro aspirazioni e motivazioni possa determinare un’importante fonte di vantaggio competitivo.

I concetti di diversità e di Diversity Management (da ora DM) hanno, pertanto, modificato o, almeno, messo in discussione il modo di pensare e concepire le differenze nelle organizzazioni, rappresentandole (le differenze) come un asset strategico che, se ben gestito, può far acquisire all’impresa un vantaggio competitivo sostenibile. In altri termini, le diversità hanno iniziato ad essere interpretate come potenziale generativo di valore economico per le imprese (Pezzillo Iacono, 2012).

I vantaggi del DM, secondo questa prospettiva, sono molteplici e di varia natura: migliorare il clima aziendale, favorire la retention del personale, attrarre talenti, motivare le risorse umane, stimolare l’innovazione e la creatività, migliorare la qualità dei processi di apprendimento organizzativo e dei processi decisionali collettivi.

Dal punto di vista della progettazione organizzativa, lo studio del fenomeno, che di per sé esiste sia quando ha radici puramente naturali ed oggettive, sia quando è frutto di processi e costruzioni sociali, può essere improntato alla ricerca di forme di contrasto – ovvero volte all’annullamento delle differenze, oppure al riportare le cose come se le differenze non esistessero – ma anche (seppur in misura ancora limitata) ad approcci di tipo radicalmente diverso (valorizzazione), volti cioè non a negare (ipocritamente) le differenze, ma ad affrontarle nel loro duplice aspetto negativo e positivo, riconoscerle e comprenderne i potenziali contributi costruttivi (Pezzillo Iacono, 2014).

Il recente studio di Christina Schwabenland e Frances Tomlinsonm (2015) pubblicato su Human Relations – una delle riviste internazionali più autorevoli nell’ambito dello HRM –  risulta particolarmente interessante perché guarda alle pratiche di gestione delle diversità in modo, allo stesso tempo, critico e propositivo. Critico in quanto mette in rilievo come la relazione tra progettazione delle politiche di DM, implementazione delle pratiche e benessere organizzativo non costituisce un percorso lineare e non può essere dato per scontato. Diversamente, tali pratiche non è raro che producano nelle organizzazioni sentimenti controversi di incertezza, ansia, paura, e una rischiosa percezione di distanza tra quanto codificato nei mission statement aziendali e nei discorsi manageriali e quanto effettivamente fatto e agito in termini di lotta alla discriminazione e valorizzazione delle individualità. L’articolo in oggetto, però, è anche propositivo: non si sottrae, infatti, dal suggerire, come si vedrà, alcune modalità alternative di sviluppo di azioni di governo delle diversità organizzative.

Gli autori scelgono di interpretare la gestione delle diversità con una metafora, guardando le pratiche di gestione delle differenze come una “fantasmagoria”.

La fantasmagoria, arte teatrale originaria del ‘700 diffusa soprattutto in Inghilterra, consiste essenzialmente in una successione d’illusioni ottiche prodotte da una lanterna (considerata magica a quei tempi): in senso figurato, è un susseguirsi di immagini, suoni, colori, ma anche concetti, idee, dati, elementi che colpiscono i sensi e/o la fantasia e che confondono la mente di chi li osserva.

L’utilizzo di questa metafora, collegata, è bene specificarlo, non alle diversità in quanto tali, ma alle pratiche di DM, consente innanzitutto di porre l’accento sulle differenze tra un approccio tradizionale alla gestione delle diversità, che tipicamente stressa il circolo virtuoso diversità, DM e performance e un approccio più critico (o critical), che pone l’accento sul rischio che il DM si configuri come una sorta di illusione ottica creata ad arte, e finalizzata a consolidare gli interessi dei gruppi  “dominanti” nelle organizzazioni (si veda paragrafo successivo).

La critica alla gestione delle diversità

L’eterogeneità delle risorse umane comporta frammentazione di esigenze, bisogni e valori interni alla collettività organizzata e si riflette direttamente sul governo dei sistemi aziendali.

La diversità, nelle sue molteplici connotazioni, come accennato, è ormai “tradizionalmente” interpretata non solo come un problema per la collettività e per le organizzazioni, ma anche come un’opportunità: dalla varietà dei profili individuali possono, infatti, scaturire anche vantaggi spesso sottovalutati (maggiore disponibilità di risorse alternative, integrazione tra specificità, contributi e arricchimenti delle competenze, più ampi potenziali di flessibilità ecc.).

Tuttavia molti studiosi critici rispetto a questo approccio (possiamo denominarli di matrice critical) hanno messo in evidenza come il DM non solo rappresenta una questione molto problematica dal punto di vista dell’effettiva applicazione dei principi di fondo, ma, paradossalmente, è anche una modo che le organizzazioni impiegano per rendere omogenee e standardizzare le differenze, più che per valorizzarle.

In sostanza, secondo questa prospettiva, la stessa azione di definire e distinguere gruppi organizzativi diversi sarebbe il presupposto di una visione dicotomica dei gruppi: una opposizione binaria del tipo in-group vs. out-group (“chi sta dentro e chi sta fuori”), che rafforza gli stereotipi e consolida il senso dell’altro rispetto, ad esempio, alla categoria dominante “maschio-bianco-sano-eterosessuale”.

Il presupposto stesso della concezione di gestione della diversità sarebbe, dunque, l’assunzione della omogeneità e della mono-culturalità del sistema organizzativo: un sistema che, non mettendo in discussione se stesso, cerca di assimilare le diversità.

Il DM, in quest’ottica, diventa solo un’ulteriore leva di pressione e regolazione delle azioni che contrasta con le finalità dichiarate: una formula organizzativa che non rappresenta un superamento dei principi efficientisti, ma un loro miglioramento ed ampliamento, determinato dalla spinta verso la responsabilizzazione e l’auto-regolazione delle azioni e dei comportamenti a tutti i livelli aziendali (Zanoni et al, 2010). Rispetto a tale visione, il DM è interpretabile come un approccio metodologico ed operativo che, anche attraverso la retorica del linguaggio manageriale (Czarniawska, 1995), cerca di agire sulle premesse delle scelte e dei comportamenti organizzativi, ampliando il controllo dell’organizzazione sui dipendenti. Il management, attraverso le politiche di DM e la retorica del linguaggio, tenderebbe ad agire sulla responsabilizzazione e valorizzazione delle identità individuali (e di gruppo), al fine di disegnare modelli di azione degli attori organizzativi in una logica di auto-disciplina e di auto-controllo.

La differenza nei due approcci – critico e tradizionale – sta, tra le altre cose, nella finalità con cui è utilizzato lo strumento della retorica dell’uguaglianza e dell’inclusione: retorica come leva per creare illusione di cambiamento nell’approccio critico, approccio teso a facilitare e supportare il cambiamento nell’approccio tradizionale.

Le due posizioni sono del tutto incompatibili? Probabilmente no. Ad esempio: esistono dei rischi – per il management e per l’organizzazione – collegati alla percezione da parte dei dipendenti di una distonia tra un dichiarato orientato alla valorizzazione delle identità individuali ed un agito teso alla standardizzazione e/o semplicemente a supportare deficit di competenze (soprattutto nel lungo periodo)? C’è il rischio che la distanza tra cambiamenti annunciati e azioni realizzate determini disillusione e insoddisfazione e, dunque, comportamenti potenzialmente non coerenti con obiettivi di efficacia e di efficienza organizzativa?

Questa distanza rappresenta pertanto una questione rilevante non solo dal punto di vista accademico, ma anche dal punto di vista dei manager delle risorse umane (e per i diversity manager in particolare).

La ricerca

La ricerca svolta da Schwabenland e Tomlinsonm (2015) si è focalizzata su un gruppo di managers e pratictioners (diversity/equality managers, Chief Executive Officers, e project managers) che lavorano in organizzazioni del terzo settore (organizzazioni non profit e di volontariato). La scelta del settore appare “contestuale” rispetto al tema trattato, proprio perché le questioni della giustizia sociale e della lotta alla discriminazione rappresentano la mission stessa di molte di quelle organizzazioni.

In particolare, oggetto di analisi è stato un action research group formato, come detto, da manager e praticioners: si tratta di un modo di concepire la ricerca sociale che si pone l’obiettivo non solo di approfondire determinate conoscenze teoriche, ma anche di analizzare una pratica sociale con lo scopo di introdurne dei cambiamenti migliorativi.

Gli autori sottolineano come, già loro precedenti studi, avevano mostrato che anche in organizzazioni in cui la ricerca di forme di empowermewnt di tutti i dipendenti (comprese le “minoranze”) rappresenta una chiave strategica dello HRM, le pratiche di gestione della diversità, spesso rappresentano per gli attori che le sperimentano un motivo di forte “problematicità, dubbi e dilemmi”, legati soprattutto alle difficoltà e alle modalità effettive di applicazione sul campo dei concetti di eguaglianza, lotta alla discriminazione e valorizzazione delle specificità (Tomlinson & Schwabenland, 2010).

Gli autori mettono in rilievo, ad esempio, che l’azione di monitorare la demografia aziendale, in modo da garantire la presenza di “minoranze” o formare gruppi di progetto “eterogenei”, non è sempre considerata positiva, ma riflette le caratteristiche socio-culturali del contesto organizzativo. In molti paesi Europei, infatti, a differenza di quel che accade in UK, la diversity monitoring (analisi della demografia aziendale), non è considerata una “buona pratica”. In Francia, Olanda e Svezia ci sono molte resistenze nella sua applicazione. In Germania, dove non ci sono dati ufficiali sulla discriminazione delle minoranze nei contesti aziendali, la raccolta di dati statistici legati all’etnia è addirittura illegale, riflettendo la consolidata consapevolezza di quel paese che tali informazioni possono essere utilizzate anche in modo distorto e strumentale.

Un’altra questione densa di ambiguità è quella legata ai criteri e alle etichette scelte per segmentare (e quindi categorizzare) il personale. Le persone, infatti, potrebbero considerare tali “etichette” (uomo/donna cristiano/mussulmano, bianco/nero, sano/portatore di disabilità, favorevole al cambiamento/resistente, ecc.) molto distanti dalla rappresentazione che hanno di se stesse, o comunque dalla rappresentazione che desidererebbero avere. Questa distonia, da un lato, può potenzialmente produrre effetti di dis-empowering (riduzione del potere di controllo e responsabilità) piuttosto che di empowering; oltre che di ostilità e deterioramento del clima organizzativo; dall’altro lato, può generare sentimenti di ansia e preoccupazione in chi è chiamato a programmare e realizzare tali azioni; perché valutate non appropriate, intrusive e controproducenti, o comunque considerate al limite tra la sfera professionale e quella strettamente personale.

Secondo quanto affermato da un manager delle risorse umane durante un incontro con gli autori dello studio: “… Uguaglianza e diversità … Probabilmente riesco a fornire una definizione teorica dei due concetti, ma in realtà non sono in grado di capire cosa realmente siano, cosa dovrebbero rappresentare per l’organizzazione in cui lavoro e come riuscire a promuoverle senza provocare reazioni negative nelle persone … Quello che so è che non facciamo abbastanza in questa area”. In queste parole, l’incertezza legata all’effettiva concettualizzazione di DM è associata all’ansia relativa al “non fare abbastanza” in una area critica dal punto di vista sia etico, sia organizzativo in senso stretto.

Il problema dell’incertezza, manifestata dai manager del gruppo oggetto della ricerca, nell’identificazione di quali dovessero essere i confini effettivi delle pratiche di DM, non è una questione rilevante solo dal punto di vista teorico, ma ha a che fare con il modo stesso in cui si giudica il successo di quelle pratiche; in altre parole, ha a che fare con il confine tra “equality” e apparenza, tra valorizzazione e Illusione.

Un aspetto che emerge con forza nei discorsi dei manager è il gap tra il benchmarking delle pratiche di gestione della diversità –  che presuppone una logica di compliance a pratiche identificate come “ottime e universali” e l’effettiva ricerca di forme di valorizzazione delle differenze, che spesso presuppone, tra l’atro, un forte cambiamento culturale del sistema organizzativo nel suo complesso. Qui sta uno degli elementi propositivi dell’articolo: gli autori suggeriscono che, affinché il DM non sia solo un artificio costruito ad arte per promuovere l’immagine aziendale, sia necessario un alto livello di commitment da parte del top management aziendale; commitment che deve tradursi in una visione del cambiamento dimostrata e comunicata a tutti i livelli organizzativi, non solo attraverso enunciazioni di principio, ma anche attraverso azioni concrete e comportamenti personali.

Dall’analisi emergono diversi “ombre” / “spettri” associate al DM. Il primo di questi fantasmi è quello del “politicamente corretto” e, parallelamente, la paura di dire “la cosa sbagliata”. Tale paura è individuata anche come una dei tratti con cui spiegare il fallimento di molti programmi di gestione delle diversità praticati nelle organizzazioni oggetto di studio. Altri spettri sono legati alla capacità di gestire persone/minoranze differenti da quelle tipicamente categorizzate nel politiche di DM: ad esempio gli over 60 con una forte spinta al cambiamento. In questo caso le due etichette (over in termini di età e propensione al cambiamento) si uniscono in una crasi che non rientra tipicamente nelle fattispecie contemplate dai programmi di DM. Un altro fantasma che emerge è la visione dei pratictioners del DM come “entità sovra-naturali” (in particolare nel volontariato UK): gli autori evidenziano il confine sottile e contraddittorio insito nel ruolo di questi soggetti che da un lato sono impegnati nella sfida contro le discriminazioni e  nella ricerca di forme di equità e dall’atro sono manager che rispondono a logiche organizzative di risultato. I pratictioners intervistati si posizionano come strenui difensori della giustizia sociale, in quanto “combattono contro le contraddizioni implicite nelle azioni di DM” e al tempo stesso sentono la pressione di sistemi di valutazione dell’efficacia di quelle politiche. E una delle domande che si pongono con più frequenza è la seguente: quali indicatori  sono più appropriati per misurare l’efficacia delle pratiche di DM? La difficoltà di poter definire dei criteri chiari di monitoraggio e misurazione dei costi/benefici a breve/medio termine è considerato, probabilmente, uno degli ostacoli più forti alla concezione e applicazione di politiche di gestione delle diversità.

Conclusioni

La gestione della diversità della forza lavoro comprende una pluralità di strumenti differenti: dalla formazione – finalizzata allo sviluppo di capacità di lavorare in gruppo, linguistiche, di comunicazione, di gestione del conflitto, di sviluppo della creatività, ecc. – ad interventi one-to-one per lo sviluppo organizzativo (mentoring e coaching); dalla strutturazione di sistemi ad hoc di valutazione manageriale a forme mirate di reclutamento e selezione del personale; dalla compliance normativa a forme proattive di riprogettazione spazio-temporale del lavoro (smart-working, work and life balance).

La letteratura tradizionale e le best practices esibite dalle società di consulenza presentano queste pratiche come relativamente semplici da implementare, con una scarsa enfasi sugli aspetti emozionali e sulla possibilità che si sviluppino incertezze, dubbi e forme di resistenza in ambito organizzativo.

L’incertezza si insinua nella percezione della distanza fra quanto dichiarato dai programmi e quanto effettivamente agito dai responsabili della gestione risorse umane nel governo delle varietà organizzative. Tale distanza può essere il frutto di una scelta consapevole, orientata solo a promuovere l’immagine aziendale, ma può anche svilupparsi per l’effettiva difficoltà di implementazione di alcune di quelle pratiche.

La metafora della fantasmagoria coglie il “lato oscuro” del DM, le sue contraddizioni e ambiguità, insinuando nella gestione delle varietà il rischio di costruire una sorta di illusione ottica prodotta da una lanterna magica nelle mani del management.

La lanterna è rappresentata dai discorsi (retorica) manageriali – in moti casi ispirati ad una logica del “politicamente corretto” – e le pratiche organizzative, che troppo spesso tendono, più o meno consapevolmente, a standardizzare e uniformare secondo una logica della “normalità”, invece che valorizzare le differenze. È in questa distonia che si possono nascondere i fantasmi dell’ipocrisia, della frustrazione e della resistenza.

Bibliografia

Czarniawska, B. (1995), Rhetoric and modern organizations. Culture and Organizations, 1(2), 147-152.

de Vita, P., Pezzillo Iacono, M. (2009) Il Diversity Management, in: Knights, D., Willmott, H. (a cura di), Comportamento Organizzativo. Organizzazione aziendale e Management, ISEDI, Torino

Pezzillo Iacono, M., Esposito V. & Mercurio R. (2012). Controllo manageriale e regolazione dell’identità organizzativa: la prospettiva dei Critical Management Studies, Management Control, 1, 7-26.

Pezzillo Iacono, M., Esposito, V., Silvestri, L., Martinez, M. & Moschera, L. (2014). Exploring national diversity and identity regulation. Managerial discourses and material practices in a transnational company, European Journal of Cross-Cultural Competence and Management, 3(2), 118-135.

Schwabenland, C., & Tomlinson, F. (2015). Shadows and light: Diversity management as phantasmagoria. Human Relations, 68(12), 1913-1936.

Tomlinson, F. & Schwabenland, C. (2010). Reconciling competing discourses of diversity? The UKnon-profit sector between social justice and the business case. Organization 17(1), 101–121.

Zanoni, P., Janssens. M., Benschop, Y. & Nkomo, S (2010). Unpacking diversity, grasping inequality: Rethinking difference through critical perspectives. Organization 17(1), 9–29.

 

 

 

 

 

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Università della Campania Luigi Vanvitelli

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