La (in)sostenibile leggerezza dell’innovazione. Alcuni spunti di riflessioni dalle industrie culturali

Nell’attuale contesto socio-economico, la capacità di innovare prodotti, servizi o processi sembra costituire un fattore sempre più critico per poter competere con successo. L’innovazione costituisce un elemento fondante delle industrie culturali, in quanto da sempre gli attori di questi settori si sono dovuti confrontare con il bisogno di creare qualcosa di nuovo, i suoi rischi e il suo elevato potenziale di conflitto. Come è possibile riuscire a innovare con successo? Quali spunti al dibattito offrono le dinamiche di innovazione tipiche delle industrie culturali? Questo articolo si propone di riflettere su questo tema prendendo spunto da un recente special issue pubblicato sulla rivista Organization Studies.

Le industrie culturali comprendono un insieme ampio e variegato di attori (individui, organizzazioni no-profit e for-profit, associazioni, gruppi informali, ecc.) impegnati in una o più fasi dei processi di ideazione, produzione e distribuzione di prodotti culturali quali, ad esempio, film, quadri, libri, spettacoli dal vivo e mostre. Sebbene non esista una definizione unica in quanto è difficile categorizzare in modo univoco quali organizzazioni operano negli ambiti creativi e culturali e quali invece no, la maggior parte degli studiosi concorda nel considerare industrie culturali tutti quei settori i cui prodotti e/o i servizi erogati hanno un forte valore simbolico e necessitano di un’elevata componente creativa per la loro realizzazione (e.g., Dubini, 2017; Hesmondhalgh, 2007; Pratt e Jeffcutt, 2009). In tal senso, i settori che rientrano in questa definizione sono numerosi e possono andare dall’editoria e le arti visive alle produzioni cinematografiche e televisive, fino alla gioielleria e alla moda.

Cultura ed economia: dalla netta contrapposizione a nuove forme di ibridazione

Per molto tempo le industrie culturali non hanno attirato l’interesse degli studiosi di economia e management poiché ritenute attività non in grado di contribuire alla ricchezza di un paese o di impiegare forme di lavoro produttivo[1]. Negli ultimi decenni, però, esse hanno segnato un deciso cambio di rotta diventando un fenomeno di grande attualità e rilevanza per gli studiosi, i policy maker e il mondo imprenditoriale. Questo avvicinamento tra cultura ed economia è stato facilitato da due principali ordini di motivi. Da un lato, le industrie culturali hanno progressivamente aumentato il loro impatto economico e sociale: ad esempio, è stato stimato che in Europa questi settori danno occupazione a circa il 3% della popolazione e contribuiscono a circa il 4% del PIL complessivo (Nathan, Pratt e Rincon-Azner, 2015). Dall’altro, il mondo produttivo più tradizionale è stato oggetto a partire dagli anni ’90 di profonde trasformazioni economiche che hanno portato alcuni studiosi a parlare di “culturizzazione dell’economia” proprio per la maggiore rilevanza degli elementi estetici, simbolici e identitari nel determinare il valore dei prodotti e servizi (Scott, 2010: 116)[2].

Il progressivo superamento di questa contrapposizione ha offerto potenziali benefici ad entrambi i contesti: i settori culturali, infatti, hanno iniziato a fare propri i principi e le logiche del management, mentre il mondo manageriale ha riscoperto l’importanza della cultura, intesa anche come molteplicità di competenze in grado di aiutare a gestire la complessità dello scenario competitivo contemporaneo (Salvemini, 2011). Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la cultura è diventata un vero e proprio input strategico per le imprese grazie alla sua capacità di produrre e orientare nuovi valori mediante significati. Di conseguenza, si è assistito a una progressiva diffusione di forme di ibridazione tra cultura ed economia come risposta ai bisogni delle imprese di “integrare nella propria catena del valore processi di generazione di significati identitariamente spendibili ed associabili a vario titolo e con varie modalità alla propria cultura di prodotto” (Sacco e Tavano Blessi, 2005: 14).

All’interno di questo complesso processo di contaminazione è interessante approfondire gli spunti offerti in tema di innovazione dalle pratiche e logiche tipiche delle industrie culturali. Le caratteristiche peculiari delle industrie culturali in termini di ridotto ciclo di vita dei prodotti e dei servizi, elevato rischio di insuccesso a causa della forte dipendenza da mode e comportamenti d’acquisto difficilmente prevedibili li rendono contesti di avanguardia per indagare pratiche organizzative che possono essere estese ad altri settori ad alta intensità di innovazione (Lampel, Lant, e Shamsie, 2000). Non è un caso, dunque, che un numero elevato di ricercatori abbia utilizzato i settori culturali come casi di studio su cui testare ed elaborare teorie e modelli di innovazione da estendere successivamente a contesti più tradizionali.

Tra i numerosi studi condotti sul tema, va annoverato anche il recente special issue pubblicato nel giugno 2016 da Organization Studies e curato dai guest editors Candace Jones della University of Edinburgh, Silviya Svejenova e Jesper Strandgaard Pedersen della Copenhagen Business School, e Barbara Townley della University of St Andrews. I cinque articoli che compongono il numero speciale (selezionati su un totale di 45 articoli ricevuti) affrontano il tema dell’innovazione nelle industrie culturali attraverso le lenti di diverse prospettive teoriche e lo studio di cinque contesti artistici e geografici molto diversi tra loro: un’azienda svizzera produttrice di profumi di alta gamma, il coreografo italiano di danza contemporanea più noto a livello internazionale, gli chef stellati Michelin, l’emergente industria della moda indiana, e il caso del Sundance Film Festival creato da Robert Redford.

Come riuscire a superare le difficoltà e rischi tipici dell’innovazione

I cinque manoscritti approfondiscono il tema dell’innovazione focalizzandosi sulle sue dinamiche e, in particolare, sui fattori in grado di facilitare l’affermazione di un’idea innovativa nel field di riferimento. Tipico dell’innovazione, infatti, non è solo l’elevato grado di rischiosità e incertezza, ma anche il forte potenziale di “conflitto” che è insito in ogni idea innovativa che per definizione implica una deviazione rispetto agli standard e alle pratiche consolidate e, di conseguenza, una rottura degli equilibri (di mercato, di potere, di consenso, ecc.) presenti all’interno di un’organizzazione o di un mercato (Baer, 2012). I settori culturali ben rappresentano questo aspetto in quanto sono numerosi sono gli esempi di artisti o di opere che sono state rifiutate dalle diverse audience di riferimento (pubblico, critici e pari) e riscoperte solo dopo parecchi anni[3]. Nei settori culturali, dunque, la sfida fondamentale in tema di innovazione è quella di riuscire a bilanciare due richieste, apparentemente inconciliabili, espresse dalle diverse audience: quella della novità e quella della familiarità. In altri termini, per riuscire a realizzare innovazioni di successo occorre creare qualcosa di nuovo e di originale ma che al tempo stesso non sia eccessivamente fuori dai canoni accettati, pena la sua esclusione e marginalità (Lampel et al., 2000; Sgourev, 2013).

Per capire come affrontare questa sfida, gli articoli dello special issue partono dalla classificazione proposta da Becker (1982) secondo la quale nei settori culturali operano tre principali categorie di attori: i mainstreams, i mavericks e i misfits. I primi sono costituiti dai cosiddetti integrated professionals, cioè da quei soggetti che rappresentano l’establishment di un settore culturale e che, proprio per l’avere i propri prodotti accettati e apprezzati dalle diverse audience, difficilmente si impegnano in innovazioni che non siano di tipo incrementale. I mavericks sono invece gli agenti dei cambiamenti più profondi, in quanto si sentono limitati dalle convenzioni esistenti e, dunque, le sfidano apertamente realizzando prodotti fortemente innovativi. I mavericks inoltre riescono a legittimare le proprie proposte innovative sfuggendo al pericolo della marginalità alla quale, invece, sono “condannati” i misfits. Questi ultimi, infatti, non riescono a fare accettare le proprie opere anche se in alcuni casi possono avere un’elevata qualità. Gli articoli dello special issue approfondiscono questa classificazione investigando le dinamiche e le pratiche che i diversi attori (singoli artisti, organizzazioni, ecc.) possono attuare per gestire la tensione tra originalità e familiarità e spostarsi da una categoria all’altra (oppure continuare a restare in quella in cui già si trovano rinnovando però la propria produzione culturale). Il risultato è una visione complessa dell’innovazione che riesce a rendere conto delle dinamiche e anche delle contraddizioni che la contraddistinguono, soprattutto con riferimento alla tensione continua tra desiderio di innovazione radicale e bisogno di essere accettati.

Tra le pratiche discusse nello special issue, è di particolare interesse quella del cosiddetto “lavoro relazionale” (Bandelj, 2012). In linea con l’idea che l’innovazione nel mondo delle arti sia il risultato di processi collaborativi e non il frutto dell’azione di geni solitari, lo special issue evidenzia l’importanza dei processi relazionali che devono essere attuati dagli attori che desiderano innovare. In altri termini, l’innovazione viene vista come il risultato di un’attività sistematica di attivazione e gestione di relazioni collaborative con i diversi soggetti che operano nei settori culturali (non solo il proprio): artisti, organizzazioni oppure altre forme più loosely coupled quali, ad esempio, i circoli e i movimenti artistici. In questa prospettiva, svolgono un ruolo di primaria importanza anche gli eventi (festival, fiere, ecc.) e i luoghi (gallerie, ritrovi informali, ecc.) che possono diventare catalizzatori e facilitatori di tali relazioni. Lo special issue, dunque, suggerisce di superare il rapporto innovazione-forza dei legami, tema tradizionalmente investigato negli studi condotti su questo argomento (e.g., Delmestri, Montanari e Usai, 2005; Cattani e Ferriani, 2008). Il lavoro relazionale necessario ai fini innovativi, infatti, implica una continua alternanza tra diversi tipi di legami (forti e deboli, orizzontali e verticali) a seconda dei particolari momenti della carriera in cui si trova un soggetto, delle sue esigenze artistiche o del tipo di audience dalla quale vuole ottenere il riconoscimento.

I risultati e le considerazioni che emergono dallo special issue hanno implicazioni anche per le imprese che operano in altri settori. In particolare, l’importanza del lavoro relazionale è coerente con alcuni modelli recenti che suggeriscono un approccio sistemico all’innovazione (per una review, si veda ad esempio Lichtenthaler, 2011). Secondo questa prospettiva, la maggiore complessità dell’attuale contesto socio-economico implica che le conoscenze necessarie per realizzare innovazioni di successo non possano risiedere solo all’interno di una singola organizzazione, ma siano sempre più diffuse nell’ambiente circostante: il cosiddetto ecosistema di riferimento. In particolare, risulta di particolare rilevanza il patrimonio cognitivo di un ecosistema, cioè l’insieme dei saperi e delle conoscenze possedute dai diversi attori che vi operano. Per poter attivare innovazioni di successo, dunque, è importante che le imprese sviluppino relazioni (formali e informali) con i diversi attori che operano in un ecosistema (clienti, fornitori, università, ma anche altre imprese). Coerentemente con i risultati emersi negli articoli pubblicati nello special issue, questo lavoro relazionale può svolgere un ruolo fondamentale nell’attivare dinamiche di contaminazione in grado di mettere “in circolo” i saperi dell’ecosistema realizzando processi di ibridazione e scambi di informazioni e idee.

Riferimenti bibliografici

Baer, M. (2012). Putting creativity to work: The implementation of creative ideas in organizations. Academy of Management Journal, 55(5): 1102-1119.

Bandelj, N. (2012). Relational work and economic sociology. Politics & Society, 40: 175-201.

Becker H. (1982), Art Worlds, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press (trad. it. I mondi dell’arte, Bologna, il Mulino, 2004).

Cattani, G., & Ferriani, S. (2008). A core/periphery perspective on individual creative performance: Social networks and cinematic achievements in the Hollywood film industry. Organization Science, 19: 824–844.

Delmestri G., Montanari F., Usai, A. (2005). Reputation and strength of ties in predicting commercial success and artistic merit of independents in the feature film industry. Journal of Management Studies, 42(5): 975-1002.

Dubini, P. (2017) Le aziende che operano nelle arti e nella cultura e i loro assetti istituzionali. In Dubini, P., Montanari F., Cirrincione, A. (2017). Management delle aziende culturali. Egea, Milano.

Hesmondhalgh D. (2007). The Cultural Industries. Londra, SAGE.

Lampel, J., Lant, T., Shamsie, J. (2000). Balancing act: Learning from organizing practices in cultural industries. Organization Science, 11: 263–269.

Lichtenthaler, U. (2011). Open innovation: Past research, current debates, and future directions. Academy of Management Perspectives25(1): 75-93.

Nathan, M., Pratt, A., Rincon-Azner, A. (2015). Creative economy employment in the EU and UK: A comparative analysis. Londra, Nesta.

Pratt, A., Jeffcutt, P. (2009). Creativity, Innovation and the Cultural Economy. Londra, Routledge.

Sacco, P.L., Tavano Blessi, G. (2005). Distretti culturali evoluti e valorizzazione del territorio. Global & Local Economic Review, 8(1): 7-41.

Salvemini S. (2011), “Cultura e economia: un collegamento sempre più indispensabile”. In A. Carù e S. Salvemini (a cura di), Management delle istituzioni artistiche e culturali, pp. 10-25, EGEA, Milano.

Scott, A.J. (2010) Cultural economy and the creative field of the city. Geografiska Annaler: Series B, Human Geography, 92 (2): 115–130.

Sgourev, S. (2013) How Paris gave rise to Cubism (and Picasso): Ambiguity and fragmentation in radical innovation. Organization Science, 24: 1601-1617.

 

 

[1] Interessante è quanto Alfred Marshall osservava nel suo libro Principi di economia: “È impossibile dare un valore ad oggetti come i quadri dei grandi maestri […] poiché essi sono unici nel loro genere, non avendo nessun equivalente, né concorrente […] Il prezzo di equilibrio della vendita comprende molto la casualità; tuttavia uno spirito curioso potrebbe ottenere non poca soddisfazione da uno studio minuzioso del fenomeno”.

[2] Per una lettura critica di questi fenomeni si rimanda al libro di Giovanni Masino Le imprese oltre il fordismo.

[3] Esemplificativo in tal senso è il quadro Le damigelle di Avignone dipinto da Picasso nel 1907 e che fu aspramente criticato da critici ed esponenti del mondo culturale della rive gauche parigina, per essere riscoperto parecchi anni dopo quando il neo costituito MOMA di New York lo acquistò tra le prime opere della sue collezione considerandolo una pietra miliare della pittura del ‘900.

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Università degli studi di Modena e Reggio Emilia

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