L’efficacia della retorica e l’effetto boomerang, paradossi del diversity management? Il dibattito negli studi organizzativi

La diversità rappresenta un tema di grande interesse nell’ambito del dibattito organizzativo. Numerose infatti sono le iniziative per la gestione della diversità intraprese da aziende di successo, con un’ampia visibilità sullo scenario economico nazionale ed internazionale. Anche la grande quantità di studi e ricerche sul tema sottolineano l’attualità di un fenomeno che rischia di essere affrontato sempre più come moda manageriale piuttosto che come una reale esigenza dell’organizzazione.

La diversità è spesso diffusamente rappresentata con un’accezione positiva, con toni entusiastici che ne enfatizzano i benefici per l’organizzazione (es. in termini di maggiore creatività ed innovazione e migliore capacità di gestione del cambiamento organizzativo), privilegiando spesso un approccio di analisi di tipo prescrittivo, che tende a semplificare il problema e a decontestualizzarlo dal più ampio scenario socio-politico e culturale nel quale si colloca.

Gli sviluppi recenti della normativa sulle pari opportunità e l’intensificarsi dei flussi migratori degli ultimi anni hanno sollevato nuove e rilevanti criticità per le aziende, derivanti dalla coesistenza di persone diverse in termini di genere, culture nazionali, età, orientamenti sessuali, condizioni sociale, stili di vita, formazione, etc. Si è reso quindi necessario per studiosi e manager un approccio pù rigoroso e sistemico nello studio della diversità, con una maggiore attenzione alle implicazioni per i processi organizzativi (difficoltà di comunicazione, conflitti di ruolo e tra i lavoratori, dinamiche di gruppo, organizzazione del lavoro, etc.) e a dimensioni della diversità spesso trascurate  (es. età, razza e cultura, orientamento sessuale, abilità, etc.).

Il paradigma prescrittivo del diversity management sembra imporre al management e all’accademia l’obiettivo di individuare azioni e politiche per progettare un’organizzazione “libera da pregiudizi”, in modo ovviamente da aumentare il benessere organizzativo e di conseguenza la capacità di imprese, aziende, enti di raggiungere i propri obiettivi, prevalentemente economici e di creazione del valore. Numerosi studi, da molti anni, infatti hanno ampiamente dimostrato che un’organizzazione composta da persone eterogenee consegue migliori risultati nei processi decisionali, nel problem solving, in termini di creatività, innovazione e flessibilità.

Sembrerebbe dunque che gestire seriamente e “tutelare” la diversity nelle organizzazioni sia utile e fisiologicamente conveniente per le imprese e per il management. Si rimane invece sorpresi nello scoprire che gran parte dei programmi messi in atto a tale scopo finisce per essere fallimentare (confronta Frank Dobbin, Alexandra Kalev, “Why Diversity Programs Fail”, HBR, July–August 2016). Probabilmente vi sono due questioni di fondo che dal punto di vista della ricerca sono particolarmente interessanti perché in grado di condizionare, ad un livello di analisi meta incentrato sulle determinanti della teorie dell’azione organizzativa, un dibattito sulla diversity.

In primo luogo, non va dimenticato che le grandi corporation, soprattutto negli Stati Uniti, hanno cominciato ad occuparsi della diversità dopo aver perso alcune famose cause basate su ingenti richiesti di risarcimento danni per discriminazione. Apparentemente dunque tutto un insieme di misure e di azioni appaiono protocolli di riduzione del rischio connesso all’emergere di comportamenti potenzialmente sanzionabili. L’obiettivo di alcune politiche aziendali di gestione della diversity dunque appare non di ridurre effettivamente pregiudizi e modificare comportamenti, intervertendo dunque sulla teoria dell’azione organizzativa “in uso” nelle imprese, invece esse si pongono l’obiettivo di enunciare e rendere la teoria dell’azione organizzativa “dichiarata” conforme a standard normativi o sociali, in modo da ridurre responsabilità, contenziosi e rischi per l’azienda e il suo management. Paradossalmente tali politiche si presentano come retoriche ma proprio in questa loro caratteristica, apparentemente sintomatica di fallimento, invece sono un successo in quanto dal punto di vista di una razionalità di tipo legale elaborano un “ombrello” di protocolli protettivi volta ad evitare cause e dunque perdite finanziarie per l’azienda e il management.

In secondo luogo però, una posizione di ricerca che indagasse su come modificare la teorie dall’azione “in uso” in termini di diversity, vale a dire che si ponesse il problema di come modificare effettivamente i comportamenti per eliminare pregiudizi e discriminazioni, dovrebbe fare i conti con un meta problema di tipo classificatorio. Anche qui paradossalmente nel momento in cui si indaga, ad esempio, su come modificare i pregiudizi di genere, di religione, di etnia, di età si sta già implicitamente assumendo che queste siano categorie in grado di definire ed identificare le persone. E’ invece evidente che questa percezione sconta un “peccato originale”, secondo il quale si tende a vedere la realtà mediante dicotomie nette “buoni e cattivi” ma anche appunto “maschi e femmine”, “giovani e anziani”, “maggioranza e minoranza”. Ovviamente il mondo è estremamente più complesso. Nessuna persona è solo nera o bianca, cristiana o mussulmana, con o senza permesso di soggiorno, ecc. (confronta Ashleigh Shelby Rosette, Leigh Plunkett Tost, “Perceiving Social Inequity”, Psychological Science August 2013 vol. 24 no. 8). Ecco dunque il secondo paradosso, “l’effetto boomerang”: si rischia che siano proprio le politiche sulla diversità a rinforzare mappe cognitive condivise che, suscitando magari controreazioni, finiscono per esasperare le separazioni piuttosto che ridurle (confronta “Women and Minorities Are Penalized for Promoting Diversity”, di Stefanie K. JohnsonDavid R. Hekman, HBR, March 23, 2016).

Il dibattito dunque è pertanto intenso e con questo numero di Prospettiveinorganizzazione si intende rappresentarne lo sviluppo sia in ambito manageriale che in ambito accademico.

In particolare, i 12 contributi presenti nel quarto numero di ProspettiveinOrganizzazione forniscono una panoramica delle tendenze più attuali nella ricerca scientifica internazionale sul tema del diversity management, focalizzando altresì l’attenzione sulle problematiche più salienti nell’ambito del contesto italiano. La sezione Prospettive di ricerca accoglie 8 contributi che declinano il tema della diversità secondo quattro prospettive di analisi, relative al comportamento organizzativo, alla gestione delle risorse umane, alla teoria e progettazione organizzativa ed alla tecnologia ed innovazione nell’organizzazione.

L’area tematica “Tecnologia ed Innovazione Organizzativa” accoglie i contributi di Agrifoglio e Metallo sul tema de “La diversità nei progetti open source” e di Depaoli e Sorrentino sul tema “Diversità di genere e cultura “brogrammer”: che fare?”. Il primo articolo pone l’accento sulla relazione tra la diversità nella composizione dei gruppi delle comunità virtuali, in termini di cultura nazionale, prestigio e ruolo, e la possibilità di produrre innovazione attraverso la realizzazione di software open source. Il secondo contributo invece approfondisce il tema delle differenze di genere nelle imprese high tech e, considerando i risultati di uno studio condotto su 127 professioniste da Williams e Dempsey (2014), propone una serie di spunti manageriali per il superamento di pregiudizi e discriminazioni di genere.

Nella prospettiva di analisi del comportamento organizzativo sono rappresentati i contributi di Sarti e Torre su “Donne e lavoro: l’attualità di un’antica questione” e Romanelli e Iannotta su “Aprirsi alla disabilità in azienda. Nuove sfide del Disability Management”. Il primo contributo si interroga sulla possibile efficacia dei programmi di Gender Diversity Management partendo da uno stiudio pubblicato da Olsen e colleghi nel 2016, che analizza il contesto statunitense e ed il contesto francese. Romanelli e Iannotta affrontano il tema della disabilità in azienda proponendo uno studio sulle politiche gestionali che possono valorizzare l’impegno ed il contributo dei lavoratori disabili.

Il tema della disabilità viene affrontato anche da Minelli secondo una prospettiva di analisi di gestione delle risorse umane. In particolare, l’autrice analizza come la questione del disability management sia affrontata negli studi e nella pratica manageriale, con un particolare focus sulla situazione in Italia. La sezione della Gestione delle risorse umane accoglie anche il contributo di Profili, Innocenti, Sammarra e Gabrielli dal titolo “Il mio capo è più giovane di me! Implicazioni della diversità di età nel rapporto capo-collaboratore”, nel quale viene affontato il tema attuale della diversità generazionale con attenzione al delicato equilibrio nel rapporto tra capi anagraficamente più giovani e lavoratori subalterni più anziani.

Lo stesso oggetto di analisi è presente in una prospettiva di progettazione organizzativa nel lavoro proposto da Giustiniano, Cuhna e Rego dal titolo “Le luci del tramonto. I manager e l’ageismo”, che propone interessanti spunti manageriale su una organizzazione del lavoro che valorizzi il contributo dei lavoratori anziani. Nella sezione dell’organizational design troviamo inoltre il contributo di De Simone e Pinna dal titolo “Un silenzio che non fa rumore. Diversità sessuali e pratiche discriminatorie”, dove si osserva come l’orientamento sessuale delle persone rappresenti fonte di pregiudizi e di pratiche discriminatorie anche nelle aziende che fondano le proprie politiche gestionali sui principi della inclusione organizzativa.

La sezione Punti di vista presenta 4 contributi dove il tema della diversità di genere viene sviluppato considerandone le criticità a livello manageriale ed imprenditoriale, con attenzione alle iniziative intraprese dalle associazioni professionali ed al ruolo delle istituzioni universitarie. Le Università e le iniziative promosse per favorire l’imprenditorialità femminile rappresentano il tema centrale del contributo di Anna Comacchio che, partendo da un’analisi delle criticità riscontrate nel contesto italiano anche in una logica di comparazione con gli altri contesti europei, offre spunti e suggerimenti importanti per la ricerca scientifica e per la pratica operativa. Matilde Marandola di AIDP Campania propone interessanti osservazioni sugli stereotipi di genere che ancora oggi condizionano la carriera delle donne in azienda, soprattutto di coloro che ricoprono o aspirano a ricoprire posizioni manageriali. Il punto di vista manageriale è anche evidente nel contributo di Marisa Montegiove che si sofferma sulla condizione delle donne manager, descrivendo le iniziative ed i programmi intrapresi da Manageritalia, associazione professionale di cui l’autrice è coordinatrice del gruppo donne. Luigi Maria Sicca propone un’analisi organizzativa nel suo contributo sul diversity management, dove le organizzazioni sono rappresentate come “mediatori sociali” per la regolazione dell’ansia indotta dai problemi attuali causati dalla diversità e dalle difficoltà di inclusione organizzativa.

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Università della Campania Luigi Vanvitelli

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