Performance Management: modernità o utopia?

La gestione delle performance costituisce un tema di interesse per studiosi e professionisti dell’organizzazione. La valorizzazione dei risultati rispetto agli obiettivi risponde, infatti, ai più moderni principi di management. Tuttavia, la pratica del Performance Management, e il contrasto dei suoi effetti distortivi, (burocratizzazione della misurazione e la conflittualità), pongono ancora molti interrogativi e sfide. Un recente lavoro di Grey, Micheli e Pavlov (2015) discute questi temi attraverso un intrigante metodo narrativo ispirato allo storytelling.

1. Introduzione

Al termine “performance” possono essere assegnati almeno tre distinti significati: a) risultato ottenuto, b) processo costruito per raggiungerlo e c) modalità con le quali le azioni di un’organizzazione vengono percepite al suo interno e nel suo contesto operativo di riferimento.

In relazione a quest’ultima accezione, si rileva che i molti stakeholders con cui le imprese costruiscono relazioni sono fortemente interessati alle loro performance e ad una loro puntuale rendicontazione sotto diverse prospettive (capacità di generare utili e/o liquidità, capacità occupazionale, sostenibilità ambientale, qualità, legittimazione sociale, ecc.). Allo stesso tempo, i soggetti protagonisti dei fatti aziendali salienti (collaboratori interni ed esterni all’impresa), hanno un interesse altrettanto significativo, se non superiore, alla corretta valorizzazione delle performance lavorative individuali e collettive.

Un sistema di gestione delle performance o Performance Management (PM) può essere inteso come un processo volto a creare un’idea condivisa di che cosa si voglia ottenere (e come) e a gestire il personale in modo tale da aumentare le probabilità di ottenere i risultati desiderati” Aguinis (2009) lo definisce, invece, come “un continuo processo di identificazione, misurazione e sviluppo delle performance di individui e gruppi e di allineamento di tali performance con gli obiettivi strategici dell’organizzazione”.

In effetti, il PM va declinato attraverso le variabili chiave della strategia aziendale e allineato a questa; la performance, infatti, è il risultato mai definitivo di un sistema dinamico, in cui le competenze individuali e i ruoli agiti sono legati da un insieme di procedure e politiche in grado di alimentare, rinnovare e trasformare le capability organizzative. Progettare un sistema di PM, quindi, trova la sua ragione d’essere nel “governo” della complessità di un’impresa e nella propulsione motivazionale che, potenzialmente, il processo in sé può generare a beneficio dei suoi collaboratori.

Seguendo questo indirizzo, un Performance Management System (PMS) mira al raccordo di sistemi manageriali di governo delle aziende a supporto delle funzioni di programmazione, controllo e valutazione dei risultati (output e outcomes) e, allo stesso tempo, se idoneamente strutturato, contribuisce ad alimentare percorsi di cambiamento degli assetti, dei processi operativi, dei sistemi direzionali, della cultura organizzativa.

A fronte di tutti gli effetti positivi attesi della pratica di un PMS, tuttavia, la realtà delle organizzazioni restituisce uno scenario pieno di contraddizioni, in cui spesso la valutazione delle performance si trasforma in un costoso rituale pieno di “errori” ed “ingiustizie”, cui sembra contribuire più di tutto la fase della misurazione delle performance.

Un recente lavoro di Gray, Micheli e Pavlov pubblicato alla fine del 2015 approfondisce alcuni aspetti relativi al ruolo della misurazione nel più ampio processo di PM e ai “punti di rottura” che essa può determinare in tali sistemi qualora sia svolta in modo non coerente alle loro finalità più generali.

2. L’evoluzione del controllo organizzativo e dei PMS

L’ampia letteratura esistente sul PM indaga le diverse potenzialità di tale sistema manageriale come strumento per:

  • Il controllo strategico;
  • La motivazione dei lavoratori;
  • La valorizzazione delle loro competenze e dei loro meriti;
  • Il supporto ai processi di Knowledge Creation e Knowledge Sharing.

Sempre più frequentemente, le organizzazioni devono adattarsi a rapidi e imprevisti cambiamenti dello scenario competitivo e, allo stesso tempo, definire tool e procedure che consentano loro di tenere le proprie operazioni sotto controllo. In tal senso è utile indagare il legame esistente tra controllo, performance ed apprendimento, evidenziando le condizioni sotto le quali un tipico sistema di controllo può effettivamente trasformarsi in strumento di apprendimento organizzativo.

In una visione moderna, i PMS possono essere interpretati come sistemi tecnici integrati per raccogliere e fornire informazioni, per agevolare il lavoro dei manager e per supportare i processi decisionali, al fine di conseguire efficacia ed efficienza dell’azione organizzativa, agendo sulla motivazione e sulla valutazione delle prestazioni (Ferreira e Otley, 2009). Ogni PMS, quindi, deve comprendere strumenti formali ed informali di controllo che siano in grado di incidere sia al livello strategico che al livello più squisitamente operativo.

In merito alle diverse funzionalità di un PMS e in estrema sintesi, la costruzione e l’utilizzo di un PMS, in un ambiente organizzativo orientato culturalmente ad una moderna gestione, può, in primo luogo, facilitare un’efficace gestione per obiettivi, fornendo corretti strumenti di monitoraggio e controllo, che consentano di interpretare in modo più esperto le relazioni di causa ed effetto tra decisioni manageriali, azioni organizzative e risultati aziendali e di intervenire più tempestivamente in modo correttivo (PMS come strumento di controllo).

In secondo luogo, la “leggibilità” del processo di definizione di obiettivi e target organizzativi e (a cascata) individuali, in assenza di altri fattori “distorsivi” (conflittualità marcata, mancanza di competenze manageriali, problemi di legittimazione), facilità la comunicazione interna sui programmi aziendali, attiva frequentemente occasioni formali e rituali di coordinamento e confronto sui risultati attesi (Canonico et al., 2015), generando, responsabilizzazione e motivazione dei lavoratori (PMS come strumento di motivazione).

La lettura più profonda delle performance dei singoli e dei gruppi, inoltre, consente di enfatizzare e “premiare” le variabili realmente significative che sono intervenute a determinare una performance positiva (le competenze e i comportamenti agiti), inducendo anche i sistemi premianti ad apprezzare componenti soft variabili della stessa oltre che laprte più oggettivabile dei risultati (PMS come strumento per valorizzare i meriti).

Infine, in una visione più dinamica, la stessa “strumentazione” dei PMs, la loro enfasi sulla necessità di chiarezza dei legami tra obiettivi organizzativi e obiettivi individuali e la necessità di rafforzare i processi cdi comunicazione tra gli attori coinvolti, può, se oculatamente progettato, supportare la condivisione ed anche la genesi di conoscenza preziosa per lo stesso sviluppo dell’organizzazione (PMS come strumento per il Knowledge Management).

L’invito degli studiosi oggi è, dunque, quello di (ri)considerare il PMS in una visione olistica, che permetta la lettura multidimensionale dei processi organizzativi. In questa costruzione un ruolo centrale è palesemente svolto dalle attività di misurazione delle performance che possono nascondere numerose insidie.

3. La misurazione delle performance; un tassello delicato

Come descritto in precedenza, il ruolo principale dei PMS è quello di “connettere le prestazioni individuali e di gruppo alla strategia d’impresa”, attraverso l’osservazione e l’attento monitoraggio dell’engagement e delle competenze delle persone e la progettazione di un ambiente organizzativo che valorizzi e sostenga (per quanto possibile) la crescita congiunta e non confliggente di individuo ed impresa.

Perché questo possa avvenire, però, è fondamentale che siano stati definiti i criteri che consentano di isolare le performance desiderate ed i tool in grado di misurare il più oggettivamente possibile i risultati ottenuti. Il lavoro di Gray et al. (2015) si interroga proprio su quale sia la relazione esistente tra corretta definizione delle performance e misurazione e in che modo le imprese possano servirsi dei sistemi di misurazione come driver del cambiamento.

Facendo riferimento agli studi di Micheli e Mari (2014), è possibile definire un sistema di misurazione delle performance come “un processo formale che mira ad ottenere, analizzare ed esprimere informazioni circa un aspetto del processo, un’attività o una persona”. Seguendo questo approccio, quindi, è necessario essere chiari sugli aspetti oggetto della misurazione e formalizzare gli elementi coinvolti nel processo: la definizione di un criterio per l’utilizzo dei dati e l’individuazione di metodologie per estrarre valore da tali dati sono di fondamentale importanza per il successo dell’intero processo. Se ciò non avvenisse, la raccolta sarebbe realizzata in modo disomogeneo e il rischio di generare disordine organizzativo e disgiunzione di obiettivi sarebbe elevatissimo.

Idealmente, il design di un sistema di misurazione delle performance si sviluppa in tre step successivi (Gray et al., 2015):

  1. La definizione degli obiettivi organizzativi;
  2. La definizione di indicatori di performance individuali;
  3. La costruzione di un’infrastruttura di supporto che consenta la raccolta, l’acquisizione, l’analisi, l’interpretazione e la diffusione dei dati e dei giudizi prodotti.

La progettazione della performance

Uno dei fattori che maggiormente influenza la tensione positiva al raggiungimento di un obiettivo è la piena comprensione, da parte degli individui, dell’obiettivo in sé. A tale osservazione è possibile affiancare una seconda considerazione: la spinta motivazionale che deriverebbe dalla semplice comprensione degli obiettivi può essere ulteriormente estesa e rafforzata dal coinvolgimento dei lavoratori nel processo di negoziazione che ha per oggetto soprattutto i target e gli indicatori di conseguimento. Nella visione di Gray et al. (2015) i fattori che determinano l’effettivo coinvolgimento degli individui nel perseguimento degli obiettivi sono:

  • Goal clarity;
  • Goal commitment.

Vaghezza o scarso coinvolgimento, così, sono elementi fortemente demotivanti e conducono ad un commitment organizzativo sensibilmente minore.

Dallo stesso concetto di “clarity”, poi, gemma un terzo elemento d’interesse: sebbene chiaro e negoziato, la semplice definizione di un obiettivo potrebbe non generare nessun engagement per gli individui chiamati a realizzarlo. Per questo motivo, nella fase di progettazione è necessario definire, oltre al ruolo, anche le modalità attraverso cui ci si aspetta che tale ruolo sia interpretato: ciò sia in situazioni caratterizzate da relativa stabilità, sia in fasi turbolente della vita organizzativa, nelle quali un atteggiamento proattivo dev’essere supportato da adeguati processi di cambiamento.

Secondo gli autori, in particolare, una mancanza di “role clarity” può generare a tre principali conseguenze:

  1. Nonostante i cambiamenti strategici e gli sforzi del management per comunicarli, anche attraverso gli obiettivi gestionali, i comportamenti degli individui non subiscono pressoché alcun mutamento;
  2. I nuovi indicatori di performance ed i nuovi obiettivi sono perseguiti, ma interpretati come semplice aggiustamento dei precedenti e non viene percepito nessun “cambio di passo” all’interno dell’organizzazione;
  3. Gli stessi individui chiamati ad implementare la nuova strategia, per le ragioni su richiamate, potrebbero mostrare conflittualità nei confronti di quest’ultima, provocando una forte riduzione del cd. role commitment.

In ogni caso, poiché nessun obiettivo è self-evident è necessario che ogni obiettivo sia discusso ed accettato dagli individui chiamati a realizzarlo, nonché supportato da un esplicito piano di comunicazione,

La misurazione “coerente” delle performance

La ragione per cui abbiamo bisogno di misurare risiede nella necessità di definire efficienti ed efficaci processi di controllo, necessari per il più ampio processo manageriale: normalmente, infatti, un’attività che non può essere controllata, non può essere gestita. Le misurazioni, invece, sembrano offrire la promessa di riportare ordine e razionalità nel caos generato da un overlap di dati.

Tuttavia, in organizzazioni di grandi dimensioni, definire un’idea comune di cosa debba intendersi per performance “desiderabile” è molto più che impegnativo. D’altra parte, se rispetto ad una performance attesa è relativamente più semplice individuare e misurare le variabili determinanti di natura quantitativa, altrettanto non può dirsi per le variabili di natura qualitativa, spesso associate a fattori che determinano nei lavoratori la “motivazione intrinseca” (la comunicazione, le competenze agite, le capacità di problem solving, le abilità negoziali, il knowledge sharing, le relazioni con attori esterni, ecc.). La letteratura, invece, rileva che spesso le misurazioni (condotte con variabili prevalentemente quantitative) restituiscono agli osservatori solo l’illusione del controllo, sottolineando come un output di soli indici e dati possa facilmente comportare la produzione di informazioni confliggenti e dunque, l’implementazione di azioni a loro volta contraddittorie.

La particolare natura del processo gestionale, infatti, fa in modo che, attraverso le “manipolazioni possibili nella fase della misurazione, nel passaggio dalla programmazione, alla conduzione ed al controllo possano verificarsi scostamenti anche di rilevante entità rispetto ai risultai attesi, senza che apparentemente nulla di scorretto sia accaduto.

La misurazione delle performance è così costantemente sottoposta alla pressione derivante da due richieste contrastanti: da un lato, fornire una visione significativa, “oggettiva” e immediata dei risultati salienti; dall’altro, spiegare le vere ragioni del successo o del fallimento registrato rispetto ad un obiettivo.

La prima esigenza spiega l’uso, sempre prevalente nei PMS, di proxy, di indicatori e misure di sintesi tendenzialmente di tipo quantitativo. Questo approccio, però, solleva diverse perplessità, principalmente legate alla percezione sull’affidamento che gli stessi misuratori sentono di poter fare sulla capacità descrittiva di tali indicatori di sintesi.

Gli stessi processi di cambiamento e di apprendimento, che dovrebbero essere promossi dal PMs, ne verrebbero ostacolati qualora le misurazioni non consentissero di apprezzare aspetti di una performance salienti, benché non di natura più qualitativa. Le prospettive, perciò, vanno necessariamente integrate e la misurazione va intesa non solo come strumento di analisi dei dati, ma anche come potente driver che consenta di orientare i comportamenti, promuovendo il cambiamento. A tal scopo essa deve essere condotta verso un sempre maggiore un ampliamento o maggiore capacità di tenere insieme le diverse dimensioni di valutazione significative. Per questo sforzo, ancora una volta può essere preziosa la partecipazione attiva e la responsabilizzazione dei lavoratori e dei gruppi professionali chiamati a realizzare gli obiettivi; con la collaborazione del management e degli specialisti dell’area HR i lavoratori possono contribuire al design del PMS soprattutto per quanto riguarda le capabilities chiave, i comportamenti attesi e la gestione del cambiamento desiderato.

4. Tra apprendimento e comportamento organizzativo

Una delle principali questioni sui cui la letteratura organizzativa rivolge l’attenzione è costituita dal ruolo che gli obiettivi, strategici ed operativi, giocano nel design di un sistema di gestione della performance, evidenziando come il “processo di identificazione, misurazione e sviluppo delle performance di individui e gruppi e di allineamento di tali performance” sia strettamente interconnesso agli obiettivi strategici dell’organizzazione. In questo senso, l’approccio fornito da Grey et al., (2015) costituisce un utile riferimento sia teorico sia applicativo.

In generale, un obiettivo viene definito in relazione ad uno specifico set di competenze e si caratterizza per il legame temporale con il risultato. Tuttavia, in accordo con la cd. Goal setting theory, un obiettivo non è semplicemente qualcosa da realizzare, ma anche qualcosa che regola i comportamenti, che dà uno scopo e legittima le azioni compiute dai diversi attori. Se, da un lato, la definizione di obiettivi sfidanti genera una potente tensione al miglioramento delle performance, dall’altro una loro scorretta definizione può comportare un pericolo per l’organizzazione. Gli obiettivi che le imprese fissano, perciò, hanno una forte ricaduta sui comportamenti che gli individui impareranno a percepire come “desiderati” dall’organizzazione ed integrati alla strategia: il feedback generato da questa interazione non può essere ignorato.

Si osserva che le discontinuità che conducono al fallimento di un sistema di gestione delle performance sono prima di tutto rinvenibili al livello di individuo e di gruppo e ciò perché è su questi ultimi che ricade il peso dell’implementazione del sistema.

Per definire obiettivi “utili” all’organizzazione, dunque, bisogna considerare, prima di tutto, le ragioni per cui questi sono stati introdotti, tenendo in gran conto sia la conoscenza che si ha dei propri processi, che le leve su cui è possibile agire per modificare la performance. Molto spesso, il raggiungimento di un obiettivo dipende dalla progettazione dei processi correnti e di quelli futuri, nonché dall’ abilità di influenzare le leve che sono all’origine delle principali variazioni degli aspetti soft di gestione (non ultime, motivazione e commitment).

La mancanza di una profonda comprensione degli obiettivi potrebbe manifestarsi attraverso una specifica sintomatologia, individuata nella crescente difficoltà di prevedere le conseguenze dei comportamenti da gestire e nella forte tensione a modificare i propri comportamenti col solo fine di raggiungere il target stabilito.

5. Conclusioni

Le organizzazioni sono organismi complessi perché le loro azioni sono funzione della complessità dei comportamenti agiti dagli uomini che le animano dall’interno. Misurare e gestire la performance è un’attività manageriale fondamentale, ma è anche un’attività sociale connessa ai sentimenti, ai bisogni, alle competenze degli individui coinvolti in essa.

Ciò deve spingere studiosi e professionisti a riflettere sull’efficacia e sull’utile impiego di strumenti di misurazione “rigidi” e per questo in grado di rilevare sono una parte (marginale, per giunta) del fenomeno “performance organizzativa”: dati sempre meno descrittivi e correlati ai fenomeni osservati ed impatto negativo su engagement ed apprendimento organizzativo sono tra i pericoli che rischiano di minare alla base l’efficacia di un PMS.

In occasione della valutazione delle performance i vantaggi attesi dal PM possono essere anche completamente assorbiti da fenomeni distorsivi di conflittualità che spesso genera tentativi di gaming, cheating o in generale di “alterazione della realtà”. Tali distorsioni sono evidentemente legate al forte clima di competitività ed alla continua ed “alienante” tensione alla sola massima performance indotti in qualche modo dallo stesso processo di PM. Rilevare in anticipo la pressione, rafforzare l’incidenza del PM (ad esempio, migliorando il sistema informativo) sono elementi attraverso cui scongiurarli. È fondamentale promuovere il passaggio da una “culture of performance measurement” ad una “culture of performance management”, multidimensionale ed orientata al commitment organizzativo ed al conseguente rafforzamento dell’engagement.

È necessario un nuovo modo di pensare alla performance e agli strumenti per misurarla ed è opportuno pensare alla definizione di pratiche e modelli manageriali in grado di ridisegnare ed ampliare i confini del PMS verso un paradigma che valorizzi, oltre che il controllo, l’apprendimento e l’auto-efficacia ad ogni livello.

Bibliografia

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