Tra smart e social, il lavoro ritrovato?

Ci sono due mantra, di questi tempi, che si aggirano negli HR department italiani: lo smartworking e il welfare. Sono due aspetti della vita aziendale che stanno ridisegnando l’organizzazione e il rapporto con la stessa. In realtà, a ben pensare, non sono delle novità. Il welfare è una risposta corretta ad un arretramento dello stato sociale e ad un cuneo fiscale italiano particolarmente gravoso. Lo smartworking è frutto di una decisa maggiore attenzione ai temi ambientali e alla necessità di contenere i costi degli uffici, sempre più rilevanti nelle grandi città.

Ma welfare e smartworking hanno origini molto lontane. Già a metà dell’800 Alessandro Rossi concepiva lo “stare” in azienda con tutta una serie di servizi aggregati, dall’abitazione ai servizi sanitari. Proprio in quel periodo le prime fabbriche di tessuti nascevano in quanto si mettevano sotto lo stesso tetto i telai che erano distribuiti nelle case delle varie famiglie. Ancora oggi nelle Isole Ebridi in Scozia, accanto alla dining room, esiste un telaio che produce. Lo stesso successo delle famose borse di Bottega Veneta nasce da una serie di massaie-operaie che intrecciano la pelle sul tavolo da cucina. Già negli anni ’90 il telelavoro aveva cercato di spopolare, senza grandi risultati.

Quello che è molto diverso rispetto al passato è la mediazione che la tecnologia ha fatto in questi due ambiti. Il welfare aziendale sta avendo successo perché è gestito da piattaforme on line che permettono ai lavoratori di governare, con estrema facilità, le loro esigenze familiari, mentre nel caso dello smartworking il livello della banda larga e degli strumenti di connessione (es. skype), concedono a chi se ne sta a casa di poter avere lo stesso grado di informazioni di chi se ne sta in ufficio.

La tecnologia e la digitalizzazione stanno spostando i confini del vivere in azienda. Tutto questo, però, è frutto ancora di “rivoluzioni” del secolo scorso: il pc, il telefono portatile ed internet. Un passo indietro. I primi pc sono arrivati negli uffici italiani negli anni ’80; i telefoni portatili sono comparsi nei primi anni ’90; internet, con le mail, dopo la metà degli anni ’90.  Pc, telefono portatile ed internet, hanno permesso di avere il nuovo welfare e lo smartworking. Il nuovo millennio, invece, sta ridisegnando le relazioni tra le persone attraverso i social, ma   – forse – non all’interno delle aziende.

Al recente Convegno Nazionale di AIDP di Bari, ragionando con alcuni colleghi, si discuteva su come i tentativi fatti di introdurre i social aziendali non stanno prendendo piede: da Yammer, il più famoso, a Convo non sembrano attecchire dentro le aziende.  Eppure la rivoluzione social sta cambiando tutto. Le aziende stanno modificando il loro business model e il rapporto con i loro clienti. Pensiamo all’utilizzo dei social da parte degli uffici marketing e/o comunicazione (interessante notare come alcuni uffici marketing di multinazionali americane hanno incorporato l’hr department, vedi ad esempio es. Pizza Hut). Tutto, quindi, sembra passare dentro a questi “tubi virtuali” delle relazioni. Perché questo non contamina anche le organizzazioni che di relazioni sono intessute? E’ solo una questione di maturazione o c’è qualcosa d’altro?

  • I social sono il peggio o il meglio di noi. Nei social avviene la rappresentazione di due opposti approcci alle cose che ci accadono: chi “spara contro” e vede questo contenitore come il naturale sfogatoio delle proprie frustrazioni; chi li usa per apparire meglio di quello che è. In azienda le frustrazioni dilagano, soprattutto dopo la crisi-lunga; di chi vuole mostrarsi più bravo di quello che è, sono pieni gli uffici. Forse però, siccome in azienda si conoscono pregi e difetti di ognuno, la rappresentazione di queste “deformazioni” non viene naturale mostrarla in un social aziendale.
  • I social sono la condivisione di informazioni. I giornali tradizionali sono in crisi profonda perché le persone si informano attraverso questi canali che aggregano le notizie. Peccato che dentro gli uffici, o negli open space, il livello di condivisione sia visto come un passaggio troppo coinvolgente, e le aziende oggi non lo sono. Qui i “bollettini” e le comunicazioni organizzative viaggiano ancora per le vie tradizionali o al massimo sulla home page delle intranet. Le informazioni vere e utili per il lavoro si tende a tenerle nel cassetto. D’altra parte, ci si scambia informazioni quando c’è fiducia, e questa nel mondo lavorativo ha raggiunto uno dei livelli più bassi. Perché allora farmi coinvolgere in qualcosa a cui non credo fino in fondo o che comunque si svolge in un periodo limitato? Qualche segnale diverso viene dal fronte USA, ed in particolare dal mondo delle start up, dove le classiche mail sono sostituite da più efficienti strumenti come  “slack.com”;
  • I social contengono passioni. Capita spesso di scoprire che tra i colleghi vi siano persone con forti propensioni alle attività sociali o con hobby meravigliosi. Se invece li guardi nel loro compito quotidiano, vedi delle persone che fanno il loro mestiere ma nulla di più. I social, invece, sono quello spazio dove le passioni e i talenti dei singoli trovano uno spazio di manifestazione. Evidentemente le aziende non sanno cogliere tutto questo. Tanto che molte aziende proibiscono o limitano l’uso dei social durante l’orario di lavoro;
  • I social tengono in contatto e fanno conoscere altre persone. Sono il luogo in cui solidifichi rapporti che sono già in essere oppure, in base alle proprie comunanze, intessi nuove relazioni. Il trade d’union però è sempre un interesse o un ricordo. Tipico ritrovarsi nei social con i vecchi compagni di scuola. I social, quindi, riuniscono l’online (qualcuno la chiama on-life) e l’offline della vita. Negli anni ’80 e ’90 nelle imprese funzionavano i Cral (Circoli dei dipendenti) che organizzavano tornei di calcio, gite o vacanze. Oggi molti sono in crisi di identità e di finanziamenti (sarebbe interessante fare una analisi per capire la reale diminuzione di questi enti);
  • I social costruiscono partecipazione. I gruppi che si costituiscono attraverso i social sono delle mini comunità, o tribù, che assumono forme organizzative strutturate che però hanno una partecipazione dei singoli molto “piatta”. Sono quindi delle organizzazioni a fortissima vocazione partecipativa. In Italia il dibattito sulla partecipazione in azienda è sempre evocato dal sindacato, si è tradotto in alcuni disegni di legge, ma non ha trovato alcuno spazio reale. Anche le cooperative, nate per avere una costruzione non piramidale, salvo rare eccezioni, si sono dissolte in questo loro intrinseco obiettivo (1).

Sembra quasi che i social abbiano distinto ancor di più la vita privata da quella aziendale, che stiano operando una netta separazione tra la vita (reale) e il motivo per finanziarla. Certo i fenomeni sociali (2), e i social lo sono per definizione,  hanno bisogno di tempi lunghi per sedimentarsi. Hanno bisogno di una maturazione diversa: “un click non fa un place” (ne sa qualcosa Second Life).  Eppure sotto traccia qualcosa si muove. Due segnali in particolare:

  • la freelance-company . Sempre più persone, anche a causa della crisi-lunga, si trasformano in freelance. Se si raccolgono le storie di chi fa o subisce questa scelta, dopo una prima fase di smarrimento, si sente spesso dire che le sicurezze mancano, i soldi sono meno, ma si recupera il senso vero del lavoro, quello sudato ma che ha una ricompensa diretta. Il freelance ti racconta anche che la sua vita non è divisa tra un prima e un dopo, che i social sono il modo per l’apprendimento continuo, che sono lo strumento per tenersi in contatto con gli altri lavoratori della conoscenza;
  • il verbo lavoro ritrova la fatica manuale. Le storie di ragazzi o 50enni che scoprono il lavoro artigiano (i nuovi makers) o il lavoro in agricoltura, sono all’ordine del giorno. C’è il contatto con la natura o con le cose che si costruiscono. C’è il lavoro manuale che genera oggetti o beni per cibarsi in modo biologico. E anche qui i social sono dentro o a supporto di queste storie.

In questi due esempi le costanti sono congiunte da un lavoro fatto di fatica; un lavoro che permette di afferrare “un po’ della nostra interiore nobiltà e, ghermendola, la rendono più pura” (3). Dove dentro ci siamo noi, i nostri ideali, il vedere un risultato costruito con le nostre mani o menti. Utile la prospettiva proposta dalla self determination theory di Ryan e Deci che si concentra sulle motivazioni intrinseche, sulla autodeterminazione e auto-regolazione dell’individuo  (un ricco sito www.selfdeterminationtheory.org offre molti spunti di riflessione). Logico arrivare alla conclusione che le aziende, e il dato più significativo è che non siano più delle comunità, rischiano di essere sempre più prive di questo circolo virtuoso tra competenze personali e risultati da scambiare in un determinato spazio. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere determinata non tanto da una incapacità dell’impresa di far emergere il potenziale, quale identità psicologica e culturale dell’individuo, e del conseguente riconoscimento delle sue differenze, ma proprio dal fatto che i social sono l’elevazione ed il riconoscimento di dette differenze. L’assenza, o l’incapacità dei social di attecchire in azienda, potrebbe volerci dire questo. Lo smartworking e il welfare, invece, sono degli “attrezzi vecchi”, seppur dal sapore moderno, che però non riescono a soddisfare le esigenze  interiori della persona nel suo lavoro, lo facilitano ma non arrivano al dunque. Diverso ragionamento sembra si possa fare per gli strumenti (4) legati ai social recruiting (es. LinkedIn) e ai social learning: in particolare questi ultimi,  in alcune aziende, stanno trovando uno spazio crescente. La cosa potrebbe apparire in contraddizione con la tesi di quest’analisi  invece, è una ulteriore conferma. Oggi il training non viene più considerato dalla persona solo come uno strumento a supporto dell’attività aziendale ma, prima di tutto, un’occasione di aggiornamento delle proprie competenze attuali, ma soprattutto prospettiche, fuori o dentro l’azienda. È  una conclusione – sicuramente parziale –  che porta a pensare ad una prospettiva di ricomposizione dell’organizzazione distribuita, fatta a rete, dove l’individuo è un singolo nodo che contribuisce a tenere insieme il tutto e, forse, ritrova se stesso.

Note

  • interessante su questo punto osservare il movimento della sharing economy. Anche qui la tecnologia sembrerebbe aiutare le persone a trovare una loro dimensione partecipativa. Su questo punto rimando ad un post pubblicato sulla mia pagina LinkedIn dal titolo “Fiducia tecnologica?”
  • lo stesso Freud aveva osservato che la psicologia individuale è contemporaneamente, fin dall’inizio, psicologia sociale. Sigmund Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’io”, Opere, XI, Borighieri, 1977 (edizione originale del 1921)
  • devo questa frase ad Enrico Cerni, formatore, scrittore e molto altro. Mentre stavo scrivendo questo articolo, Enrico postava su Facebook una bella riflessione sulla forza del verbo lavoro
  • un contributo molto interessante su questi temi, di recente pubblicazione, è il testo curato da Luca Solari, “The Human Side of Digital”, GueriniNext, 2016

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