C’era una volta la ricerca del posto fisso

Implicazioni ed evidenze empiriche sull’attrattività del PUBBLICO IMPIEGO

Il dibattito politico, istituzionale e mediatico in Italia raramente annovera tra le sfide organizzative per il management delle pubbliche amministrazioni la realizzazione di efficaci politiche di reclutamento. L’articolo offre una sintesi ragionata dei primi risultati empirici in materia, nella speranza di avviare percorsi congiunti di ricerca.

Il dibattito che non c’è

In Italia, il dibattito mai sopito in materia di qualità e riforma della pubblica amministrazione (d’ora in poi anche P.A.) raramente si confronta con il problema del reclutamento, prima ancora che della selezione, di candidati con profili professionali idonei. E’ questo un tema, invece, che ha progressivamente assunto rilievo nel più ampio dibattito internazionale (NACE, 2016), ove sono ormai molte le evidenze raccolte a dimostrazione dello scarso interesse al pubblico impiego per persone con elevato grado di scolarizzazione le quali, anche in forza di una non corretta percezione della qualità e delle opportunità offerte dal comparto pubblico, tendono a privilegiare percorsi di carriera in ambito privato (Korac, Saliterer & Weigand, 2019; Marvel 2015), anche dopo aver intrapreso percorsi di studio specificatamente rivolti al settore della pubblica amministrazione (Chetkovich, 2003, Lee & Choi 2016).

Ciò pone ovviamente dei limiti strutturali nel medio, così come nel lungo periodo, agli attesi percorsi di rinnovamento delle aziende pubbliche, ostacolando il tanto auspicato “passaggio generazionale”, legato non solo ai tempi ed ai meccanismi di uscita delle risorse umane attualmente impiegate, ma anche, appunto, alla possibile integrazione della popolazione lavorativa con persone nuove e con “qualità” coerenti alle attese di ruolo.

Sul primo aspetto, i dati non sono particolarmente confortanti. L’Italia, in particolare, detiene il primato tra i paesi OCSE, per anzianità del pubblico impiego (OECD, 2017), mentre una recente analisi della Banca d’Italia evidenzia come l’età media dei dipendenti pubblici sia salita dai 43 ai 50 anni nel periodo 2001-2018 (Rizzica, 2020, p. 18). Si dirà che tutto ciò è l’ovvia conseguenza dei limiti alle assunzioni nella P.A. (c.d. blocco del turn over) imposti già dalla legge finanziaria 2008. E’ vero e, in effetti, anche per questo stiamo oggi programmando una nuova stagione di assunzioni.

Cosa possiamo dire, invece, delle qualità delle nuove risorse impiegate in futuro? Per questo, evidentemente, non è sufficiente stanziare risorse pubbliche destinate all’assunzione. Né può bastare, per quanto fondamentale, la sola definizione dei fabbisogni del personale così come correttamente richiesto dalla Dipartimento della Funzione Pubblica attraverso le ormai note Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle PA (2018).

Perché ai numeri corrispondano anche qualità coerenti alle attese di ruolo è importante, infatti, conoscere il mercato del lavoro di riferimento nel quale le aziende pubbliche, con adeguate strategie non solo di selezione, ma anche di reclutamento, possano attingere per soddisfare il proprio fabbisogno prospettico di personale.

Ma allora domandiamoci: esiste un mercato del lavoro di riferimento del pubblico impiego? E’, semmai, un mercato con caratteristiche proprie e dunque distintive delle quali è utile tener conto in sede di reclutamento e selezione?

Tali domande sono al momento tanto decisive quanto sottaciute al dibattito sulla riforma della Pubblica amministrazione italiana. In vero, anche sul piano internazionale, questo non è un tema ancora centrale. Ad esso però, da qualche tempo, si dedica un filone di studi ancora minoritario dei cui primi risultati empirici vorremmo appunto in questa sede trattare, nella speranza di avviare percorsi di ricerca e confronto congiunti nella comunità scientifica.

I contenuti della motivazione al lavoro nel pubblico impiego: alla ricerca della public service motivation

La ricerca organizzativa ha da tempo evidenziato come tratti della personalità, spinte interiori e valori dei singoli siano difficili da valutare e sviluppare nel contesto lavorativo. Se, quindi, le capacità possono essere allenate e le conoscenze arricchite, le motivazioni e i valori devono essere innanzitutto compresi per essere contestualizzati nel rapporto tra organizzazione e individuo (Costa, Gianecchini, 2005). Qualificare la propria popolazione aziendale in termini di motivazioni può perciò rappresentare una base informativa assolutamente necessaria alle singole organizzazioni nell’implementazione delle proprie politiche del personale.

Su queste premesse, e dunque allo scopo di valutare con maggior precisione interventi e strumenti differenziati di sviluppo delle risorse umane tra settore pubblico e privato, alcuni studiosi si sono nel tempo dedicati all’analisi delle differenze nelle strutture motivazionali tra i due comparti, indagando alcune precise leve motivazionali, quali ad esempio la “remunerazione”, il “significato” di servizio pubblico, il “coinvolgimento lavorativo” e la “soddisfazione” (Rainey, 1982; Wittmer, 1991; Crewson, 1997), contribuendo così alla formazione e allo studio della così detta public service motivation (d’ora in poi anche PSM).

James L. Perry e Lois R. Wise, che possono oggi considerarsi i padri degli studi moderni sulla PSM, arrivano a definire la PSM come «an individual’s predisposition to respond to motives grounded primarily or uniquely in public institutions and organizations» (Perry, Wise, 1990, p.368), riconducendo le basi specifiche della motivazione individuale nell’ambito dell’impiego pubblico, a quattro dimensioni fondamentali (Perry, 1997): 1. Attrazione per il processo politico; 2. identificazione con l’interesse pubblico; 3. compassione; 4. spirito di sacrificio.

Nella tradizione degli studi di PSM sono questi quindi i “motives” che le aziende pubbliche debbono indagare, valutare e sostenere, in quanto esplicativi di una vasta gamma di comportamenti individuali e collettivi, con effetti potenzialmente benefici sulla qualità dell’azione amministrativa (Bellé, 2013; Warren, Chen, 2013; Palma et al, 2017; Van Loon et al., 2018; Homberg, Vogel, Weiherl, 2019).

Quale ruolo gioca la public service motivation nella ricerca di un pubblico impiego?

Come osservato, la PSM, più recentemente definita come “a particular form of altruism or pro-social motivation that is animated by specific dispositions and values arising from public institutions and missions” (Perry, Hondeghem, e Wise, 2010, p.682), è stata dapprima indagata per supportare scelte di valorizzazione e sviluppo delle competenze interne alla pubblica amministrazione. Solo in tempi più recenti gli studi di PSM hanno rivolto la loro attenzione agli effetti che essa produce non solo nei comportamenti assunti nel luogo di lavoro, ma anche come spiegazione della motivazione all’entrata e, dunque, come elemento distintivo ed esplicativo di un bacino di offerta specifica del pubblico impiego.

Sono ormai diversi i contributi che ci dimostrano come l’interesse per le attività svolte dalla pubblica amministrazione e, dunque, la natura dei servizi da questa offerta giochino un ruolo di assoluto rilievo nelle scelte di avvio di percorsi di carriera in questo ambito (Bright, 2005; Carpenter, Doverspike, e Miguel, 2012; Kjeldsen, Jacobsen 2012; Pedersen 2013). Secondo questo filone di ricerca, quindi, il settore pubblico sarebbe richiesto (e privilegiato) rispetto al settore privato dalle persone che hanno una motivazione intrinseca del tutto particolare, in quanto fortemente animati dalla volontà di contribuire alla produzione di valore pubblico e di tutela degli interessi collettivi.

Questa ipotesi ha trovato conferma non solo nelle indagini inizialmente svolte negli Stati Uniti (Lewis, Frank, 2002), dove in effetti il costrutto della PSM ha origini più remote, ma anche più recentemente in Europa, in studi condotti sia in Belgio (Vandenabeele, 2008), sia in Germania (Asseburg, Homberg, 2020). Nello specifico, le prime ricerche di natura comparativa evidenziano come gli effetti della PSM determinino una preferenza nell’adesione al mercato pubblico anziché al mercato privato, nei paesi caratterizzati da specifiche tradizioni amministrative. Il lavoro di Hinna, Homberg, Scarozza e Verdini (2019), ad esempio, indagando e confrontando la motivazione all’entrata nel pubblico impiego tra due campioni di studenti italiani ed inglesi, hanno evidenziato come in realtà le dimensioni di PSM sembrerebbero significative in contesti (Italia) dove sono ancora netti e facilmente percepibili i fattori distintivi del settore pubblico e meno, in contesti (Gran Bretagna) ove riforme tipicamente ascrivibili al New Public Management hanno nel tempo contribuito a “sfumare” assunti istituzionali e valori tipici del settore pubblico, almeno nella loro percezione collettiva.

A conferma di ciò, indagini ancor più recenti e di tipo meta-analitico su evidenze empiriche di studi condotte sul rapporto tra PSM e attrattività del settore pubblico (Asseburg, Homberg, 2020) hanno evidenziato come detta relazione sia positiva e particolarmente significativa in contesti nazionali caratterizzati da apparati pubblico-decisionali costruiti sulla razionalità legale di stampo weberiano. 

Quanto pesano le aspettative di retribuzione e carriera nella ricerca di un pubblico impiego?

Sicurezza dell’impiego e livello di retribuzione rappresentano notoriamente gli elementi chiave nel processo di scelta individuale di un percorso di carriera lavorativa (in particolare) di giovani neolaureati. Ebbene, tradizionalmente, proprio l’importanza assunta da questi elementi sembra distinguere le curve di preferenza tra aspiranti candidati al settore pubblico ed al settore privato. Secondo l’opinione dominante, infatti, i primi sarebbero “ricercatori di sicurezza” e per questo pronti a convivere con le inefficienze tipiche dell’organizzazione burocratica del lavoro; i secondi, invece, sarebbero motivati prioritariamente (se non esclusivamente) da ritorni economici e, in funzione di questi, pronti a convivere con la logica (e la pressione) della ricerca continua del profitto delle imprese da cui dipendono (Tschirhart, 2008).

Ebbene, secondo studi più recenti (Asseburg, Homberg, 2020), svolti anche in Italia (Cantarelli, Belle e Longo, 2020), questa netta demarcazione settoriale tendente a identificare nella ricerca di sicurezza la principale leva all’avvio di una carriera nel settore pubblico, non troverebbe ad oggi conferma. E’ quanto rilevato anche da studi di natura comparativa e condotti su vasta scala che, al momento però, non includono l’Italia. Van de Walle, Steijn e Jilke, (2015), ad esempio, svolgendo un’analisi su ben 21 diversi paesi hanno chiaramente evidenziato come alla base della scelta di intraprendere o meno un percorso di carriera nel settore pubblico, vi sono sia motivazioni di tipo intrinseco, legate appunto al desiderio dei singoli di contribuire alla produzione di valore pubblico e di tutela degli interessi collettivi (leggasi dunque PSM), sia elementi di motivazione estrinseca che, però, non posso essere ridotti alla sola opportunità di sicurezza del lavoro. In particolare, le evidenze empiriche raccolte dal lavoro di Van de Walle Steijn e Jilke, (2015) e poi in seguito confermate anche dai successivi e recentissimi lavori di Asseburg e Homberg (2020) e di Cantarelli, Belle e Longo (2020) ci dimostrano che le scelte di entrata nel pubblico impiego sono altresì influenzate da aspettative di retribuzione e di carriera.

E’ questo un dato che ci pare utile sottolineare, in quanto sottaciuto nel più ampio di battito italiano scaturito dalla introduzione del Dlg. 150 del 2009 in materia di performance organizzativa e individuale. Stando alle evidenze raccolte, infatti, l’implementazione, l’uso e la trasparenza dei sistemi di valutazione delle performance individuale quale base informativa necessaria alla valorizzazione del merito non solo rappresentano una leva di direzione e sviluppo del personale oggi impiegato, ma anche un elemento di attrattività del settore pubblico nei confronti di nuove generazioni o di professionalità ad oggi spese in altri contesti.  

Esiste un ruolo (o una responsabilità) della formazione universitaria nell’orientamento alla scelta del pubblico impiego?

Nel più ampio dibattito sulla attrattività del mercato del lavoro pubblico per le nuove generazioni, parte della letteratura si è dedicata allo studio del ruolo che in questo ambito hanno le università e più in generale le scuole di formazione superiore.

In un primo tempo, il rapporto tra formazione universitaria e attrattività del mercato del lavoro pubblico è stato indagato sul piano strettamente contenutistico, valutando essenzialmente obiettivi didattici e programmi formativi erogati per l’accesso alla carriera pubblica (Lowery, Whitaker, 1994). Solo più recentemente, invece, una certa attenzione è stata risposta sulla modalità di organizzazione e, dunque, di articolazione dei percorsi curriculari (Bright, 2016).

Su questo fronte, sono divenuti oggetti specifico di indagine gli strumenti che le università posso attivare per offrire un quadro completo ed accurato del contesto lavorativo futuro migliorando la qualità delle informazioni a disposizione degli studenti – altrimenti raggiunti dalle tipiche generalizzazioni derivanti dai canali di informazione e comunicazione di massa (Rose, 2013) – anche attivando modalità specifiche di conoscenza del contesto lavorativo, già durante il percorso di formazione.

In questo quadro, alcune ricerche condotte su studenti universitari statunitensi (Bright 2018; Bright & Graham, 2015) hanno messo in evidenza come l’opportunità di avvicinare gli studenti al vissuto del settore pubblico, innestando nel percorso curriculare occasioni di natura esperienziale, oltre che occasioni di approfondimento e confronto con aziende o testimoni del settore pubblico, aumenti il grado di attrattività dello stesso, influenzando dunque le scelte individuali conseguenti. Inoltre, stando alle prime evidenze, le occasioni di natura esperienziale fornite nel percorso di studi paiono fungere da acceleratore nella formazione di competenze funzionali al contesto lavorativo pubblico, non solo garantendo, come è ovvia che sia, l’adeguatezza delle conoscenze, ma anche la formazione di valori e spinte motivazionali ad esso coerenti (leggasi PSM). 

Considerazioni conclusive

In paesi come l’Italia, caratterizzati da un forte tradizione di diritto civile e formale, la norma è evidentemente condizione necessaria, ma (altrettanto evidentemente) non sufficiente per la riforma della pubblica amministrazione. Lo sappiamo da anni, anzi da sempre (Giannini, 1961). Sappiamo quindi che il problema del cambiamento e della innovazione della pubblica amministrazione non può essere approcciato in una prospettiva strettamente “deterministica”, non esistendo una stretta correlazione causa-effetto tra fenomeni input (riforma legislativa) e fenomeni output (miglioramento dei risultati), ma semmai analizzato  secondo un paradigma di “contestualità coerente” (Borgonovi, 2005, p. 193), di cui la qualità formale della norma è elemento importante ma non unico, necessitando altresì specifiche condizioni che riguardano più complessivamente il sistema di attori interni ed esterni alle singole amministrazioni.

Partendo da queste basi, molta parte della letteratura anche specialistica si è spesa per ragionare di resistenze interne al cambiamento, essenzialmente derivanti da un commitment di tipo continuativo, giustificato in funzione di un “antico accordo” basato sulla certezza del posto e della retribuzione (Presthus, 1978). Ma se così non fosse? In effetti, la ricerca sulla PSM ci conferma da tempo la possibilità (e gli effetti) di un contratto psicologico ad alto contento valoriale, basato su un commitment affettivo e dunque da una motivazione individuale che deriva innanzitutto dal credere nell’importanza e nell’efficacia del proprio ruolo e della propria organizzazione.

In questa logica, riformare la Pubblica amministrazione significherebbe innanzitutto ricercare-riconoscere–valorizzazione-istituzionalizzare una nuova relazione individuo-organizzazione, progettando anche a questo scopo le funzioni della gestione del personale, senza dimenticare il ruolo strategico che in questo ambito può avere l’attività di reclutamento.

La breve sintesi dei contributi raccolti ci dimostra, infatti, l’esistenza di un mercato specifico del lavoro pubblico, non più popolato da soli “ricercatori di sicurezza”, ma da persone mosse dalla volontà di contribuire alla produzione di valore pubblico, ma in un quadro chiaro di prospettive di crescita e retribuzione.

Per cogliere questa opportunità, è dunque importante il percorso che l’Italia ha avviato negli anni per un definitivo abbandono di una concezione solo “amministrativa” della gestione del personale ad oggi impiegato nella PA; ma è altrettanto fondamentale l’implementazione di politiche attive di reclutamento, sulle quali, invece, poco si discute e che, invece, saranno fondamentali per garantire l’evoluzione nel tempo di competenze e comportamenti coerenti con gli obiettivi di riforma.

Nelle politiche di reclutamento per il pubblico impiego, come abbiamo visto, un ruolo importante può essere giocato dal sistema della formazione universitaria, quale possibile luogo di approfondimento e conoscenza del contesto lavorativo, quello pubblico appunto, spesso conosciuto per occasioni di inefficienza o corruzione e non per l’importanza e la complessità dei compiti che quotidianamente svolge.

Una efficace strategia di reclutamento dovrebbe in effetti ripartire proprio da un obiettivo di puntuale conoscenza ed informazione dell’operato della pubblica amministrazione. I dati, ci dicono di un bacino di nuove generazioni desiderose di contribuire al bene comune. Non perdiamoli di vista. Raccontiamo loro anche la grande bellezza del lavoro nella Pubblica Amministrazione.

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Università degli Studi di Roma Tor Vergata

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