Complessità. Le organizzazioni ambidestre tra routine e cigni neri

L’inatteso impatta sulle moderne organizzazioni minando i percorsi di conoscenza conosciuti e ridefinendo le competenze necessarie per competere.

E’ possibile che la strutturazione delle organizzazioni si muova tra routine organizzative e «cigni neri», con una logica ambidestra?

Introduzione

Ossimori. Le organizzazioni sono come gli ossimori. La ricerca di un filo conduttore logico e costante, che dia il senso del coordinamento e dell’ordine è improbabile, se non impossibile. Le organizzazioni si muovono tra elementi costanti ed elementi variabili, fino a trovare un giusto bilanciamento. «[…] una pluralità di anime o di mondi» (Bonazzi, 2008, p. 378) sembra essere il contesto basale in cui le aziende si muovono e cercano la giusta organizzazione. Anime e mondi rappresentano l’essenza stessa delle organizzazioni: persone e ambienti che interagiscono per trovare il giusto bilanciamento funzionale agli obiettivi fissati di volta in volta.

La teoria organizzativa fornisce per lo più spunti di riflessione su come concepire le organizzazioni basate su elementi di regolarità e sulle loro ripetizioni. Osservare un fatto che si ripete, descriverlo e fornire risposte, però, sebbene costituisca certamente un procedimento razionale nello spirito e negli intenti, non permette di cogliere l’essenza completa di quella che dovrebbe essere l’analisi di entità dinamiche. Non necessariamente, difatti, il ripetersi di un fatto, l’uso delle memoria organizzativa e della conoscenza tacita, la stilizzazione intesa quale assorbimento della realtà, permettono di cogliere quel mare di sfumature che sono alla base delle interconnessioni costituenti il fenomeno organizzativo, della «pluralità di anime e mondi». L’utilizzo di quelle che la letteratura manageriale ha definito come «routine organizzative», però, crea valore; esse sono presenti in ogni organizzazione e possono essere interpretate come una possibile sintesi tra disposizioni organizzative e abitudini comportamentali (Becker, 2004).

Compito ancora più arduo, pertanto, appare essere quello di definire e analizzare tutte le forze che interagiscono e influenzano le modalità organizzative, siano esse interne o esterne, costruttive o distruttive, espressione di regolarità o di eccezionalità.

È possibile, quindi, che la strutturazione delle organizzazioni si muova, anche, tra routine organizzative e «cigni neri» (Taleb, 2007)? Gli eventi inaspettati, unici o comunque di frequenza bassissima, sono «incognite sconosciute» che, nonostante i piani e le precauzioni poste in essere, prendono le organizzazioni di sorpresa e le possono portare anche a conseguenze catastrofiche (Green, 2011). L’inatteso (Weick & Sutcliffe, 2007) impatta sulle organizzazioni minando i percorsi di conoscenza, ridefinendo le competenze necessarie e le finalità generali o specifiche.

Le imprese devono tendere a sviluppare la capacità di impiegare efficacemente le risorse e le attività esistenti; al pari, devono percorrere nuove strade affinché l’impensabile non annulli le basi del proprio vantaggio competitivo.

Sebbene classificato come sotto-teorizzato, poco compreso dal punto di vista operativo e sotto-concettualizzato, l’ambidestrismo organizzativo (Tushman, M. L., & O’Reilly, C. A.,1996; Birkinshaw, J., & Gibson, C., 2004;  Raisch, S., & Birkinshaw, J., 2008) è – o dovrebbe essere – l’obiettivo ultimo delle organizzazioni. Ambidestrismo innato e radicato nelle competenze delle persone che animano le organizzazioni. Ambidestrismo ricercato, al tempo stesso.

Le imprese ambidestre tra routine e cigni neri

Negli ultimi decenni, la teoria organizzativa ha utilizzato la pratica dei paradossi per risolvere questioni irrisolte (Smith & Lewis, 2011). Utilizzare la chiave di lettura dei paradossi equivale a cercare un possibile modo per interpretare fatti complessi, contraddittori, multipli e divergenti. Mettere in relazione elementi concettualmente opposti, come la contrapposizione tra dinamicità e stabilità, si sostanzia nel tentativo di raggiungere una sintesi razionale in grado di spiegare fenomeni diversi.

Immerse in relazioni di scambio in cui le informazioni aumentano esponenzialmente, le imprese operano, da un lato, con la necessità di fronteggiare eventi nuovi, cambiamenti ambientali e pressioni istituzionali; al pari, però, v’è la sempre più stringente necessità di conciliare la spinta all’innovazione e alla ricerca con la pratica comune di preservare i nuclei tecnici ed il lavoro per ripetizione. Questo dualismo, giustappunto un paradosso, è stato definito ambidestrismo organizzativo, inteso come la capacità delle organizzazioni di coniugare le proprie competenze, l’attività lavorativa per ripetizione, l’exploitation, con la capacità di guardare in tutte le direzioni, di cercare nuove strade, nuove competenze, nuove opportunità: l’exploration (Benner & Tushman, 2003).

La locuzione organizational ambidexterity (Duncan, 1976), utilizzata per la prima volta a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 da Robert Duncan, sottolinea proprio quest’obbligo – ovvero necessità – delle imprese di remunerare gli asset posseduti attraverso il lavoro conosciuto, il c.d. alignment, mentre si ricercano costantemente innovazioni e nuove opportunità, la c.d. adaption.

È possibile, quindi, affermare che il compito delle imprese, al giorno d’oggi, risieda nello sviluppare entrambe le competenze e, quindi, non solo nel continuo adattamento a condizioni instabili? Competenza vuol dire preparazione e non solo riparazione contingente?

Per rispondere a tale quesito è necessario cercare di analizzare entrambe le attitudini – ovvero necessità – delle imprese, l’alignment e l’adaption, di reazione o adeguamento in senso lato e non riferendole direttamente alle attività concretamente poste in essere.

Risulta imprescindibile l’analisi di quelle che la teoria organizzativa ha definito come «routine organizzative», più funzionali all’alignment, e, al pari, vitale risulta inglobare nella stessa analisi la capacità di riconoscere e gestire i c.d. «cigni neri», il nuovo, gli eventi rari, ignoti e governabili – ovvero utilizzabili – solamente attraverso l’implementazione di attitudini di adaption.

Seppure paradossali ed estremi nelle loro interpretazioni, riportare l’analisi a questi ambiti risponde alla necessità di dare un filo conduttore ad aspetti poco collegati tra loro, ma intimamente simili.

Le routine organizzative e le tendenze alla gestione dei cigni neri sono atti estremi, costituiscono tesi e antitesi di modelli organizzativi e presuppongono competenze e conoscenze diverse.

Possono, però, essere considerati simultanei?

Sebbene il concetto sia stato introdotto da Stene (1940) ed abbia visto molte trattazioni da parte, ex multis, di March, Simon, Cyret e Thompson negli anni ’50 e ’60, ad offrire il pioneristico impulso per l’analisi delle routine organizzative, come intese in questo lavoro, è un lavoro di Nelson e Winter del 1982, An evolutionary theory of economic change. In questo fortunato contributo è riportato un tentativo di sviluppare una prospettiva evolutiva sull’economia capace di spiegare i cambiamenti organizzativi ed economici (Becker, 2004). In quest’ambito, alle routine è dato un ruolo chiave per spiegare il funzionamento delle organizzazioni, dell’economia e dei cambiamenti loro soggetti.

Gli studiosi di management sono d’accordo nell’assegnare alle routine organizzative un ruolo chiave per lo sviluppo di vantaggio competitivo sostenibile, in virtù delle conoscenze che esprimono in maniera singolare e non imitabile (Zamarian, 2010).

Definire appropriatamente il concetto di routine non è facile e non pochi, già, sono stati i tentativi compiuti. Fino ad ora, il tratto comune degli sforzi profusi in seno a tale questione definitoria è stata l’analisi della genesi delle routine stesse, ovvero lo stretto legame esistente tra conoscenza e creazione di valore per l’impresa. In questo senso, alle routine organizzative è stato dato il significato generalista di insieme coordinato di comportamenti che si attiva – emerge –, in maniera sistematica, in risposta a determinati stimoli. Spesse volte, le routine sono espressione di conoscenze poco codificabili, della memoria e della cultura organizzativa espressa a partire dal riconoscimento della validità di soluzioni adottate.

Questa concezione si accosta in maniera naturale al sempre più crescente corpo letterario costituito intorno all’affermazione – peraltro condivisibile – che le routine sono le componenti basali del comportamento organizzativo, il magazzino delle capacità organizzative. È possibile, di conseguenza, inquadrare il modo in cui le routine si accumulano, si trasferiscono e si applicano[1].

Come detto, tale prospettiva colloca le routine organizzative nell’ambito delle risposte abituali a stimoli esterni (Gersick & Hackman, 1990). Il non dover pensare ad alternative nuove e valide, proprio in virtù dell’esistenza di routine organizzative abituali, riduce lo sforzo che gli individui compiono per risolvere problemi nuovi e per raggiungere gli obiettivi. Tale approccio evidenzia il tratto intrinseco assegnato alle routine: seppure con un accezione non completamente negativa, le routine organizzative sono considerate alla stregua delle fonti di inerzia (Hannman & Freeman, 1983), dei concetti di rigidità e meccanicità. Affinché una routine emerga e persista, quindi, deve esserci una certa stabilità nel modellamento, ex ante, dei comportamenti.

A questa concezione di routine può esserne accostata almeno un’altra – ancora più condivisibile –, intimamente vicina ma astrattamente differente, che apre il mondo delle routine organizzative alla flessibilità e al cambiamento. Il tema, qui, non si associa a quello conosciuto come delle meta-routine, ovvero alle «routine per cambiare proattivamente le routine» (il Total Quality Management è un chiaro e palese esempio di meta-routine). Si sta parlando, difatti, della necessità di generare – ovvero utilizzare – routine organizzative con la intrinseca capacità di produrre cambiamento solamente tenendo conto dei risultati che esse generano e delle mutazioni ambientali, repentine e – anche non necessariamente – evidenti. Il processo, secondo questo tipo di approccio, è innato, intrinseco e si rende palese specialmente negli stati di crisi (Gersick & Hackman, 1990) o in fasi di vita organizzativa ambigue, ovvero non completamente definite.

Questo secondo aspetto pone la nascita delle routine organizzative a cavallo tra una forma di struttura, ossia nella stessa e astratta idea di routine, ed una forma di agency, ossia nella performance delle routine nel momento del loro utilizzo e, quindi, concretamente, nella capacità dell’individuo – ovvero dell’organizzazione – di guardare agli eventi e alle pratiche passate, pensare al futuro e rispondere alle circostanze ambientali presenti (Emirbayers & Mishce, 1998).

Quale può essere considerata una potenziale genesi delle routine organizzative con le caratteristiche della proattività? Come già affermato, è pacifico pensare che proprio il verificarsi di eventi inaspettati, imprevedibili, ignoti, quelli che la letteratura manageriale ed organizzativa, prendendolo in prestito dalla saggistica, ha definito i cigni neri, spinga le organizzazioni a sviluppare quella caratteristica di preparazione utile a gestirli. Affrontare un’emergenza, al giorno d’oggi, diviene una prassi sempre più comune e richiede attitudini sempre trasversali di flessibilità e prontezza al cambiamento. Trattare le routine organizzative alla stregua di fonti di – potenziale – flessibilità e cambiamento, quindi, è l’unico modo paradossale per razionalizzare eventi il cui verificarsi è – preferibilmente – da anticipare per renderli punti di forza, e non minacce.

In un lavoro di successo di Taleb del 2007, «The Black Swan. The impact of the highly improbable», gli eventi rari, i cigni neri, sono così definiti: «[…] What we call here a Black Swan (and capitalize it) is an event with the following three attributes. First, it is an outlier, as it lies outside the realm of regular expectations, because nothing in the past can convincingly point to its possibility. Second, it carries an extreme impact. Third, in spite of its outlier status, human nature makes us concoct explanations for its occurrence after the fact, making it explainable and predictable. I stop and summarize the triplet: rarity, extreme impact, and retrospective (though not prospective) predictability.» (Taleb, 2007, XVIII). Le caratteristiche principali, quindi, affinché si possa parlare di eventi rari sono il fatto che tali eventi risiedono fuori dalle normali aspettative, hanno impatti estremi e si rendono spiegabili solamente dopo il loro accadimento.

Seguendo l’impostazione della Carnegie School ad assumere rilevanza è giustappunto il tema del riconoscimento e della gestione dei c.d. cigni neri (Frigotto & Narduzzo, 2016). Qualunque sia l’aspetto indagato, difatti, un ruolo chiave è rivestito dall’insuccesso nel riconoscere indizi, segnali deboli, anomalie e minacce future (Repur, 2009). Tale impossibilità denota la scarsa propensione delle organizzazioni ad investire nello sviluppo delle caratteristiche volte a implementare la tendenza organizzativa al riconoscimento del nuovo (Ocasio, 1997), la capacità di codifica e traduzione di informazioni e la critica positiva all’ambiente, agli eventi e al repertorio immateriale a disposizione. Ogni organizzazione possiede sistemi di competenze suscettibili di sviluppo e adattamento. La capacità di osservare segnali deboli, tradurli e prevenire crisi fa parte di questi sistemi e come tale può essere sviluppata ed adattata. Sviluppo e adattamento sono processi che richiedono tempo, però. Riconoscere situazioni inattese e rare è una soft skill che si scontra con una serie di problematiche legate ad un insieme di limiti – razionali, decisionali ed operativi – che inficiano l’intera filiera che porta alla gestione dei cigni neri e, in senso lato, delle emergenze.

La letteratura organizzativa in seno al comportamento in emergenza ci fa riflettere su come le persone tendono a non comunicare problemi poco chiari se hanno a che fare, contemporaneamente, con problemi più chiari. Al pari, si tende a commettere errori quando sono presenti palesati vincoli di tempo e risultato. Questi approcci, derivati dai contributi di Turner e Pidgeon (1997) – in seno al tema della comunicazione – e di Weick (1995) – nel caso dei vincoli –, evidenziano l’innata tendenza dei decisori a semplificare la realtà, riportando l’ignoto al noto perché più confortante o facile da gestire, e a reagire in maniera uniformata, con l’obiettivo di passare al compito successivo (Frigotto & Narduzzo, 2016). L’inerzia che deriva dall’utilizzo di tale prospettiva fa sì che si venga a parlare di vero e proprio disaccoppiamento tra i momenti volti a stimolare l’attenzione al nuovo, all’inatteso, e l’utilizzo delle prassi formali, routinarie, espressione di sicurezza e ripetitività. Concentrarsi sull’apprendimento consolidato di esperienze nuove intrappola, limita, in qualche modo, il sistema di competenze necessario e funzionale al concetto di preparedness. Se ripetitive, l’attenzione al nuovo e l’apprendimento esperienziale diventano metafora di categoria e di miopia.

Una serie di accorgimenti organizzativi è necessaria.

Operativamente, per gestire le emergenze, nella primordiale fase di riconoscimento del nuovo, sono necessari sistemi di categorizzazione di fattispecie e sistemi snelli di coordinamento e comunicazione. In più, è possibile indagare l’ambiente, mediante stimolazioni attive, per capire la sua reazione.

Il dibattito sulle necessità organizzative dal punto di vista operativo è variopinto e ricco: gli esempi riportati forniscono solamente spunti di riflessione in senso alla complessità derivante dalla necessaria tendenza alla gestione di variabili non codificate. In qualche modo, imprescindibile risulta essere la necessità di allontanarsi dalla tradizione nella sua idea di staticità e immobilismo, e non nella sua espressione di identità. Ogni organizzazione, difatti, ha una storia precisa che ne determina l’impronta, il modus, l’agire, la memoria[2]. L’uso del passato da parte dei manager e da parte delle organizzazioni stesse, difatti, è un modo proattivo di considerare la storia, una modalità per creare una propria identità ed un proprio modo di comportarsi nel tempo, plasmando i comportamenti nel presente e indirizzando quelli futuri (Wadhwani & Bucheli, 2014). E le organizzazioni ritrovano legittimità esterna in ciò che esprimono e rappresentano.

L’inversione culturale, dal punto di vista organizzativo, è relativa a quell’idea negativa di staticità che tanto si discosta dai concetti sani di routine e gestione del nuovo, dei cigni neri. Riconoscere il nuovo, evitare inerzia, gestire i cigni neri, utilizzare efficienti sistemi routinari ed assorbire la complessità sono atti paradossali che solamente organizzazioni ambidestre, «sistemi culturali di alto livello» (Grandori, 1995, p. 317), possono compiere in maniera naturale.

Come già affermato, l’ambidestrismo organizzativo consiste nell’implementazione contemporanea di capacità volte a trarre profitto delle attività esistenti e ad esplorare nuove strade, per evitare che l’inatteso annulli il proprio vantaggio competitivo (O’Reilly & Tushman, 2013). Obiettivi paradossali sembrerebbero quelli che le imprese ambidestre devono perseguire e conseguire (Kortmann, 2011). Secondo la dottrina moderna (O’Reilly & Tushman, 2013), tale attitudine organizzativa è correlata positivamente agli aumenti di vendite, al miglioramento delle performance soggettive, alla creazione di innovazione e, in generale, alla sopravvivenza delle imprese. Attorno all’idea culturale e concettuale di ambidestrismo, parte della dottrina ha costruito diversi stadi, distinzioni o comportamenti prevalenti.

In particolare, un’impresa sarà ambidestra in maniera sequenziale quando riuscirà a modificare la propria struttura velocemente, in maniera snella e sinergica alla strategia, oscillando tra sistemi rigidi e sistemi più flessibili. Accanto a questa visione, è stata proposta l’idea di ambidestrismo strutturale, ossia di quel tipo di organizzazioni che, volutamente, perseguono logiche contemporanee di stabilità e innovazione. Ulteriore distinzione riguarda l’ambidestrismo contestuale. Riferito in gran parte al comportamento dell’individuo, l’ambidestrismo contestuale consiste nella capacità – comportamentale (Gibson & Birnikshaw, 2004) – del singolo di prendere iniziative, nell’attitudine alla cooperazione, nelle capacità di comunicare, di divenire «multitasking» e di agire – anche – in maniera autonoma.

Questa è l’idea di ambidestrismo che più si avvicina ai concetti di flessibilità sistemica necessaria per gestire l’inatteso, sfruttando l’espressione della propria memoria organizzativa.

Seppure tendenzialmente complementari (Gibson & Birnikshaw, 2004), differenziazioni possono essere riportate in ordine all’uso – o raggiungimento – di una forma di ambidestrismo piuttosto che un’altra. Le differenze riguardano fondamentalmente sfumature tra l’idea di «strutturale» e quella di «contestuale» (Gibson & Birnikshaw, 2004). In particolare, è possibile affermare che, nell’ambito della costruzione dell’ambidestrismo, le imprese contestualmente ambidestre vedono attivi i singoli, e non i gruppi, nelle attività di exploration ed exploitation. Rispetto alle imprese strutturalmente ambidestre, le decisioni delle imprese contestualmente ambidestre sono prese nei livelli operativi ed il ruolo del management è orientato al contesto organizzativo. In più, di fondamentale importanza risultano essere le competenze da riscontrare, ovvero creare, nel personale: nelle imprese contestualmente ambidestre, difatti, le persone lavorano con spirito di estrema flessibilità, utilizzando competenze tendenzialmente “generaliste” o “trasversali” – soft skills -, ovvero quelle capacità che raggruppano le qualità personali, l’atteggiamento in ambito lavorativo e le conoscenze nel campo delle relazioni interpersonali (la leadership, l’efficacia relazionale, il teamwork, il problem solving, ecc.). Queste caratteristiche fanno sì che si vengano a definire profili di ambidestrismo già dai momenti di selezione delle persone, e non solo nei momenti della successiva gestione e formazione.

Ed è in questo concetto che risiede la vera differenza tra le normali gestioni di facciata isomorfica, volte ad offrire legittimazione in un determinato contesto, ed un vero e proprio l’utilizzo delle leve messe a disposizione del management per fronteggiare la complessità, di qualunque tipo essa sia, e sfruttare le potenziali opportunità offerte dal perseguire logiche di ambidestrismo, nella versione che privilegiamo – la contestuale –. Sono le stesse persone che animano le organizzazioni a dover essere ambidestre, a partire dai ruoli manageriali a quelli più operativi (Tushman, Smith, & Binns, 2011).

L’obiettivo di un approccio in tal senso è spingere le imprese a superare i concetti ingegneristici del job design e ad aderire alle logiche dell’organizzazione aziendale basate sulla conoscenza e sui knowledge workers, intesi non solo come lavoratori operanti in settori prettamente immateriali bensì come lavoratori consapevoli e capaci di utilizzare la propria conoscenza, nuova a pregressa, in settori diversi e come reazione al contingente, all’evento inaspettato e, a volte, raro.

Conclusioni

I paradossi delle routine organizzative, della gestione dei cigni neri e dell’ambidestrismo organizzativo, quale risposta razionale al complesso, sono paradigmatici dell’odierna condizione organizzativa. Il dinamismo che emerge da questi concetti può fornire idee in merito al problema organizzativo che ogni sistema complesso vive. Sebbene non vi sia evidenza scientifica a favore dell’utilizzo di sistemi ambidestri, è confortante pensare che la spinta all’ambidestrismo, ed in particolare a quello contestuale, costituisca un’opportunità per quel tipo di organizzazioni che fronteggiano, contemporaneamente, spinte opposte, almeno all’apparenza.

La metafora delle organizzazioni e delle persone paragonate a Giano (O’Reilly & Tushman, 2004) (dio Romano degli inizi – e delle transizioni – raffigurato con due facce: una che guarda al passato e una che guarda al futuro) anche in questo caso sembra essere pienamente confortante ed efficace a descrivere in modo quasi naturale il fenomeno dell’ambidestrismo. Lo sguardo rivolto al passato, alla storia, a quello che è stato, è figlio di Mnemòsine (personificazione delle memoria), titanide amata da Zeus[3], madre delle muse e rappresentazione stessa della nostra relazione con il passato e della nostra esistenza nel tempo (Olik, Vinitzky-Seroussi, & Levy, 2011). Lo sguardo rivolto al futuro è il frutto del cambiamento e dell’adattamento di quello sguardo, del rispetto del concetto di «verità», ovvero di «non-dimenticanza», della necessità di aderire a quelle logiche che il progresso impone e che le imprese, ovviamente, non possono tralasciare.

Bibliografia

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[1] A questa concezione di routine è possibile accostarne, almeno, altre due. La prima, di stampo positivista – nel senso di positum –, riportata da Cyret e March che vede nelle routine un insieme di regole che determinano i comportamenti. Un ulteriore approccio utilizza il concetto di meta-routine, ovvero l’idea di routine disegnata con lo scopo deliberato di migliorare le pratiche esistenti attraverso la generazione di nuove routine.

[2] Per una trattazione completa del tema della funzione della memoria, cfr. Langenmayr, 2016.

[3] La commistione e l’utilizzo di figure appartenenti a due mitologie distinte, quella greca e quella romana, anche se “non ortodossa”, vuole rappresentare un’ulteriore spunto di  riflessione.

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