Discontinuità politica e comportamenti organizzativi. Un’analisi del management pubblico in Italia

Nel presente contributo si propone un’analisi del fenomeno della discontinuità politica considerandone le conseguenze sui comportamenti organizzativi dei manager pubblici. In particolare, le variabili considerate nello studio riguardano l’incertezza percepita, il grado di identificazione organizzativa, la motivazione all’esercizio della leadership nella gestione amministrativa e la definizione degli obiettivi nell’attività di pianificazione e programmazione delle politiche pubbliche.

Introduzione

Il sistema politico in Italia nel corso degli anni è stato caratterizzato da una forte discontinuità politica che ha reso molto breve la vita istituzionale media dei governi. L’Italia, in particolare, detiene il primato mondiale nella graduatoria dei paesi caratterizzati da maggiore instabilità politica: dal 1970 infatti le crisi di governo sono state numerosissime, con cambi di maggioranza, di primo ministro o di ministri chiave, con una media di circa 1.2 cambi in un anno. Con questo dato l’Italia si colloca ben al di sopra rispetto agli altri paesi della lista, come ad esempio il Libano, che è al secondo posto ed ha registrato la metà delle crisi di governo dell’Italia e così pure la Turchia, collocata al terzo posto (Banks e Wilson, 2017).

Un elevato turnover governativo in un Paese è associato a frequenti cambiamenti della leadership politica, per l’insediamento di nuovi partiti nella coalizione di maggioranza, e ad un cambiamento ideologico, quando la nuova coalizione di maggioranza porta con sé idee e valori sostanzialmente diversi rispetto a quelli della coalizione precedente (Horovitz, Hoff e Milanovic, 2009). Ne scaturiscono significative difficoltà nell’attuazione delle strategie politiche di governo e dei programmi di medio–lungo periodo.

Nell’ambito della letteratura di Public Management, molti studiosi si sono occupati del tema della discontinuità politica, adottando prospettive di analisi differenti. Hurwitz (1973), ad esempio, ha studiato i governi più longevi provando ad identificare le condizioni che garantiscono maggiore stabilita nel tempo, in relazione ad esempio ad un ordinamento giuridico legittimo, all’assenza di violenza o all’eterogeneità socio-culturale.

Una parte della letteratura si è focalizzata sugli effetti positivi derivanti dalla discontinuità politica, considerando l’opportunità di una selezione più meritocratica degli uomini al governo (Ferejohn, 1986), di un maggiore sviluppo di competenze e professionalità (Feiock e Strema, 1998), di una riduzione della corruzione e del clientelismo (de Mesquita, 2000). In altri studi, invece, l’attenzione è posta sugli effetti negativi della discontinuità politica sulle performance amministrative di un governo (Milio, 2008; Piattoni e Smyrl, 2002), per cui la stabilità politica rappresenterebbe un prerequisito fondamentale per una gestione più efficace dei processi amministrativi (Ongaro, Ferré, Galli e Longo, 2013).

In un recente articolo, Brady, Paparo e Rivers (2016) evidenziano l’esistenza di una relazione negativa tra instabilità politica e le performance economiche di un Paese; analogamente, Meyer-Sahling e Yesilkagit (2011) hanno dimostrato che un elevato turnover politico ostacola una efficace implementazione delle riforme amministrative.

Nel presente contributo proponiamo un’analisi del fenomeno della discontinuità politica considerandone le conseguenze sui comportamenti organizzativi dei manager pubblici. In particolare, le variabili considerate nello studio riguardano l’incertezza percepita, il grado di identificazione organizzativa, la motivazione all’esercizio della leadership nella gestione amministrativa e la definizione degli obiettivi nell’attività di pianificazione e programmazione delle politiche pubbliche.

La discontinuità politica in Italia

Dal 1946, anno di istituzione della Repubblica Italiana, nel nostro Paese si sono susseguiti 64 governi, facendo registrare un dato senza dubbio significativo che ha contribuito a caratterizzare l’Italia come un Paese politicamente instabile. In Germania, ad esempio, dal 1949 (anno di fondazione della Repubblica Federale di Germania) si sono susseguiti 29 governi, con una durata media di 2.9 anni. Un altro esempio è la Francia, dove la durata media dei 39 governi della Quinta Repubblica (dal 1958 ad oggi) è stata di 1.5 anni (1 anno e 6 mesi circa).

Analizzando la situazione italiana degli ultimi 20 anni, Mele e Ongaro (2014) hanno evidenziato come la continua alternanza di partiti di centrodestra e di centrosinistra, con brevi parentesi di stampo centrista, abbia causato conseguenze negative nell’attuazione delle riforme e nella programmazione strategica di governo. Nello studio di Quaglia e Radaelli (2007) si evidenzia una netta discontinuità nei rapporti con l’Unione Europea in seguito ai passaggi di governo tra una coalizione e l’altra. In particolare, i governi italiani di centrodestra hanno recepito le direttive dell’Unione Europea come un “problema” da gestire e da ridimensionare, mentre i governi di centrosinistra hanno alimentato i rapporti con il Parlamento Europeo al fine di ottenere consensi e l’accettazione interna di proposte di riforme.

Senza dubbio la cronica instabilità politica nel nostro Paese ha causato continue interruzioni nella programmazione ed implementazione delle politiche di governo (Cassese, 2012) che hanno ostacolato ogni iniziativa volta ad innovare la macchina amministrativa. Una delle cause va individuata nell’orientamento di breve periodo che politici ed amministratori hanno tenuto nel corso degli anni, focalizzandosi su obiettivi che fossero realizzati prima del passaggio ad un governo successivo. Ciò ovviamente ha avuto delle ricadute sul fronte riforme, molte delle quali hanno trovato difficoltà di approvazione ed attuazione, oltre che per il continuo turnover della leadership politica anche per il clima di sfiducia e dissenso nei confronti di coalizioni di maggioranza che, per la breve durata dei governi, non hanno avuto mai tempo e occasioni per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica.

L’instabilità politica ha anche ricadute significative sulla organizzazione della pubblica amministrazione, per il meccanismo di rotazione che coinvolge un considerevole numero di figure apicali del management pubblico in seguito ad ogni cambio di governo. Con l’affermarsi in Italia dei sistemi elettorali maggioritari (legge Mattarella per il Parlamento e legge 25 marzo 1993 n. 81 per comuni e province), è stato introdotto nel nostro Paese il meccanismo dello spoils system per indicare l’insieme dei poteri che consentono agli organi politici di scegliere le figure di vertice come ad esempio segretari generali, capi di dipartimento o segretari comunali. Lo spoils system è regolato dalla legge 15 luglio 2002 n. 145 e dalla successiva legge 24 novembre 2006 n. 286 (di conversione del decreto legge 3 ottobre 2006 n. 262), che prevede la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza nella pubblica amministrazione passati 90 giorni dalla fiducia al nuovo esecutivo (cioè la nomina di un nuovo governo). L’istituto ha come ratio la necessità di fiducia e armonia fra l’amministrazione e la politica quale elemento necessario per il buon andamento della pubblica amministrazione. La comunanza di intenti, garantita dal carattere fiduciario della nomina, determina quindi una maggiore coesione e sinergia di azione tra politici e dirigenti. Con il principio dello spoils system però i dirigenti pubblici sperimentano anche una condizione di maggiore incertezza in quanto pressati da due opposte esigenze: da un lato, essi hanno il compito di tradurre l’indirizzo politico in provvedimenti ed atti di gestione e, allo stesso tempo, sono tenuti a garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa.

Instabilità politica e percezione di incertezza nel settore pubblico

Non sono molti in letteratura gli studi che hanno indagato gli effetti della discontinuità politica sui comportamenti dei manager pubblici (Cullen, Edwards, Casper e Gue, 2014).

Cambiamenti frequenti nella struttura organizzativa e amministrativa portano a una riduzione della soddisfazione (Nelson, Cooper e Jackson, 2005), della motivazione sul lavoro (Teo, Pick, Xerri e Newton, 2016), della produttività (Walker e Boyne, 2006), della fiducia nell’organizzazione (Schweiger e Denisi, 1991) e possono perfino causare effetti negativi sulla salute degli individui (Pollard, 2001). L’instabilità politica di un Paese, inoltre, riduce gli orizzonti decisionali dei policy makers che saranno orientati verso l’adozione di politiche macroeconomiche di breve termine, con scarse opportunità di intraprendere progetti concreti ed efficaci che però richiederebbero tempi troppo lunghi di implementazione (Aisen e Veiga, 2013).

C’è una crescente letteratura sull’incertezza durante il cambiamento organizzativo (Bordia, Hobman, Jones, Gallois e Callan, 2004a). L’incertezza è definita come l’impossibilità per un individuo di fare previsioni precise e puntuali sul futuro (Milliken, 1987) e spesso dipende dalla mancanza di informazioni sufficienti o dalla difficoltà di distinguere le informazioni utili da quelle irrilevanti (Gifford, Bobbitt e Slocum, 1979). Gli individui che operano in un ambiente percepito come complesso e in rapida evoluzione tendono a sperimentare un livello più elevato di incertezza a causa della difficoltà di prevedere l’impatto delle loro azioni e decisioni (Daft, 2001).

Nonostante i numerosi contributi in letteratura, la percezione di incertezza nel settore pubblico è stata poco approfondita (Andrews, 2008). Bordia, Hobman, Jones, Gallois e Callan (2004a) hanno introdotto la distinzione tra incertezza strategica, strutturale e lavorativa nella pubblica amministrazione. L’incertezza strategica fa riferimento all’incertezza riguardo la mission, gli obiettivi e le strategie dell’amministrazione; un esempio è la condivisione da parte dei vertici dell’amministrazione riguardo le motivazioni di un cambiamento o la direzione strategica futura dell’organizzazione. L’incertezza strutturale si riferisce ai cambiamenti nella struttura organizzativa interna dell’amministrazione; un esempio è la fusione di due diversi uffici ed il conseguente cambiamento nelle gerarchie interne. Infine, l’incertezza lavorativa si riferisce alla sicurezza del lavoro, alle opportunità di carriera e ai cambiamenti nel ruolo e nei compiti da svolgere; un esempio è l’introduzione di nuove tecnologie o il ridimensionamento di alcuni programmi e attività. Questi tre tipi di incertezza possono influenzarsi reciprocamente, nel senso che l’incertezza strategica potrebbe determinare una incertezza strutturale che, a sua volta, contribuisce a generare un’incertezza lavorativa.

Gli studi sull’incertezza percepita hanno evidenziato relazioni significative con variabili di comportamento organizzativo. L’incertezza è associata positivamente allo stress (Pollard, 2001) e alle intenzioni di turnover (Johnson, Bernhagen, Miller e Allen, 1996) ed è associata negativamente alla soddisfazione sul lavoro (Rafferty e Griffin, 2006) e al benessere organizzativo (Bordia, Hunt, Paulsen, Tourish e DiFonzo, 2004b). Tuttavia, molti di questi studi analizzano l’impatto dell’incertezza sul comportamento dei lavoratori dipendenti senza considerare le posizioni manageriali (Arellano–Gault, Demortain, Rouillard e Thoenig, 2013).

I manager tendono a vivere il cambiamento organizzativo in modo diverso rispetto alle altre categorie di lavoratori (Karp & Helgø, 2008), dal momento che spesso sono più direttamente coinvolti nei processi decisionali del top management o, nel caso di manager pubblici, dispongono di maggiori informazioni sulle decisioni del gruppo politico di governo. L’incertezza percepita, quindi, tende ad essere più bassa essendo spesso i manager parte “attiva” del processo di cambiamento. Tuttavia, talvolta le dinamiche politiche diventano molto frenetiche e quasi irrazionali, al punto che spesso le ragioni del cambiamento non sono chiare neppure ai top manager, che si trovano quindi a sperimentare un senso di incertezza e instabilità con conseguenze rilevanti per il loro lavoro. Questo è il motivo per cui i manager pubblici potrebbero sperimentare un basso livello di identificazione organizzativa (Dutton, Dukerich e Harquail, 1994): dal momento che gli individui agiscono sulla base della loro appartenenza a diversi gruppi sociali, è probabile infatti che i cambiamenti frequenti dei governi non permettano una coincidenza tra i valori politici dei manager ed i valori del politico di riferimento.

L’identificazione organizzativa prevede un riconoscimento dei propri valori in quelli dell’organizzazione e può aiutare a comprendere perché alcuni individui si impegnino per svolgere la propria attività con più abnegazione rispetto ad altri (Dukerich, Golden e Shortell, 2002). I manager che sperimentano “identità provvisorie” (Ibarra, 1999) o un’appartenenza organizzativa ambigua (Korotov, 2004) – come può essere il caso del sistema politico e amministrativo italiano, continuamente “provvisorio” e instabile – risultano infatti meno identificati con l’organizzazione e, di conseguenza, meno motivati a svolgere la propria attività.

È probabile che l’incertezza determinerà una riduzione della motivation to lead (MTL) per i manager pubblici (Weick & Sutcliffe, 2011). La MTL fa riferimento alla tendenza a ricoprire un ruolo apicale con dedizione e passione; è un costrutto tridimensionale basato su identità affettive, socio–normative e non–calcolative (Chan & Drasgow, 2001). Un leader motivato riesce a lavorare al servizio dei propri collaboratori trasmettendo fiducia, determinazione e coinvolgimento (Hong, Catano e Liao, 2011). I manager pubblici potrebbero sentirsi poco motivati a svolgere il proprio lavoro perché inibiti e in parte paralizzati dal cambiamento costante dell’organizzazione politica e amministrativa del Paese (Ongaro, 2011). Infatti, nel caso di un cambiamento nelle coalizioni governative, tutti i progetti in corso diventano immediatamente obsoleti e devono essere riavviati e ripensati alla luce delle nuove direttive politiche.

Un’altra conseguenza che la discontinuità politica può generare sul comportamento dei manager pubblici è che, in una situazione di instabilità, è difficile pianificare e fissare obiettivi di medio–lungo periodo.

Secondo la teoria del goal setting, le prestazioni degli individui sono il risultato della loro volontà (Latham e Locke, 1991): un individuo che ha una chiara idea di ciò che vuole fare avrà una performance migliore rispetto a chi ha obiettivi e idee poco chiare. Nell’ambito di uno studio su dipendenti pubblici, Metezenbaum (2006) ha evidenziato performance migliori per i manager pubblici quando gli obiettivi dei programmi politici sono specifici e puntuali; al contrario, se un’amministrazione stabilisce obiettivi ambigui e poco chiari otterrà quindi performance peggiori (Chun e Rainey, 2005; Wright, 2004).

Secondo Ongaro (2011), i cambiamenti repentini nelle forze politiche di governo tendono a demotivare i manager e a creare un senso di disorientamento, inducendoli quindi ad evitare obiettivi di lungo periodo e a prediligere una pianificazione di breve periodo.

Implicazioni manageriali

Negli studi più recenti sul management pubblico, il nuovo profilo manageriale si basa su due variabili peculiari: (i) capacità organizzative, ovvero la capacità di attivare comportamenti manageriali per gestire efficacemente le risorse umane, professionali, tecnologiche e finanziarie a disposizione e (ii) performance, ovvero la capacità di tradurre gli obiettivi politici in risultati positivi per l’amministrazione (Azzone e Palermo, 2011).

Quando si opera in un contesto caratterizzato da continui cambiamenti nel sistema politico e di governo, come nel caso italiano, al manager pubblico è affidato il ruolo di attore fondamentale nella gestione del cambiamento. I dirigenti pubblici si ritrovano infatti ad affrontare continuamente l’imprevedibilità dell’amministrazione pubblica italiana operando “ai confini del caos” (Burnes, 2005), con l’obiettivo di raggiungere un buon equilibrio tra le varie parti politiche e di prediligere processi decisionali flessibili e “snelli”. Il management pubblico ha inoltre l’obiettivo di indirizzare le politiche delle amministrazioni, per cui necessita di nuove competenze che garantiscano la possibilità di definire concretamente iniziative di miglioramento per il settore pubblico (Iacono e Marzano, 2014).

Il manager pubblico è chiamato a bilanciare le proprie attenzioni e ad investire le proprie energie in quattro ambiti manageriali, equilibrandoli in modo opportuno: occorre (i) occuparsi delle persone, (ii) gestendole all’interno di alcuni processi da progettare a priori e controllare in itinere (iii) con l’obiettivo di raggiungere obiettivi specifici (iv) all’interno di un contesto in costante cambiamento (Bandera e Kalchschmidt, 2016). Risultano quindi fondamentali nuove competenze organizzative e gestionali al fine di prendere decisioni in base alle informazioni a disposizione, al fine di fronteggiare situazioni di incertezza e di rischio e di adattarsi al cambiamento.

Innanzitutto sarebbe importante per i manager essere agenti di innovazione, ossia saper affrontare il cambiamento e non ostacolarlo: i manager pubblici possono imparare a gestire bene l’incertezza e il cambiamento attraverso la ricerca di informazioni al fine di ipotizzare una serie di relazioni causa–effetto riguardo possibili scenari futuri. E’ importante che i manager pubblici siano flessibili e orientati al cambiamento, in modo da poter fronteggiare cambiamenti improvvisi di leadership politica senza dover riprogettare le strategie e le politiche amministrative di volta in volta. I dirigenti dovrebbero inoltre promuovere e sviluppare processi di cambiamento orientati all’efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa.

Altre caratteristiche e competenze per il management pubblico potrebbero essere la capacità di pianificazione e di gestione dei progetti anche se, in una condizione di frequente turnover politico, i manager pubblici potrebbero sperimentare una difficoltà nel pianificare e fissare obiettivi di medio–lungo termine per sé e per gli altri. Ancora, i manager devono saper fornire un supporto a colleghi e collaboratori, maturando una capacità di coaching per aiutarli ad affrontare e sostenere il continuo cambiamento nella pubblica amministrazione. Al manager, infatti, spetta il compito di comunicare in contesti organizzativi complessi, con l’obiettivo di motivare i propri collaboratori e dipendenti e sollecitando, tramite la condivisione di obiettivi, strategie e processi in atto, un senso di appartenenza e di identificazione professionale ed ottenendo in questo modo il coinvolgimento dei singoli nella realizzazione dei programmi e dei progetti amministrativi.

Alla luce di queste considerazioni, emerge quindi la necessità di identificare e ricercare empiricamente nuove competenze per il management pubblico in modo da poter affrontare la turbolenta situazione politica italiana. L’orientamento agli obiettivi di lungo termine e l’orientamento ai propri collaboratori potrebbero essere le variabili chiave utili per sopperire alle inefficienze della pubblica amministrazione italiana, da troppo tempo segnata da una discontinuità che non agevola la crescita del settore pubblico.

Conclusione

In conclusione, partendo dalla considerazione che la percezione di incertezza influenza negativamente le prestazioni degli individui, è probabile che l’instabilità politica italiana sia la causa dell’inerzia generale del settore pubblico. Questo studio ha risposto all’appello degli studiosi di Public Management (ad esempio Butterfield, Edwards e Woodall 2005) nell’analizzare i comportamenti e le reazioni dei manager pubblici in una situazione di cambiamento.

I manager pubblici devono essere in grado di far fronte ai cambiamenti repentini del governo come se fossero dirigenti d’azienda e, alla luce di queste nuove competenze e abilità richieste dal loro ruolo, possono rappresentare la leva di sviluppo per la Pubblica Amministrazione.

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