Il lato oscuro della “semplificazione” negli studi organizzativi e nei modelli manageriali

 L’articolo riflette in maniera critica sul modo in cui teorie organizzative, e conseguenti modelli d’azione, abbiano ecceduto nella semplificazione della realtà al punto da risultare inefficaci. Il lavoro di Tsoukas qui sintetizzato propone un modo alternativo di coniugare prospettive future e apprendimento dal passato, pratica manageriale e approfondimento concettuale.

“A prima vista, la complessità è un tessuto (complexus: ciò che si intreccia) di componenti eterogenei che formano un tutto inscindibile: la complessità pone il paradosso dell’uno e dei molti” (Morin, 2008, p. 5).

La semplificazione, questa (s)conosciuta

La parola “semplificazione” assume nel linguaggio moderno connotazioni prevalentemente positive. Si parla, non a caso, di semplificazione del linguaggio per renderlo più comprensibile; semplificazione dei contesti organizzativi per renderli più snelli. In un suo recentissimo articolo apparso sul Journal of Management Studies, Haridimos “Hari” Tsoukas (Università di Cipro e Warwick Business School) assume una posizione controcorrente, sostenendo che nel campo della teorizzazione manageriale e organizzativa si sia forse ecceduto nella semplificazione, svilendone la portata interpretativa. Tsoukas (2016) sostiene infatti che, anziché mirare alla mera semplificazione di fenomeni organizzativi complessi, si dovrebbe mirare alla “complessificazione” teorica, quale elemento imprescindibile per la comprensione della complessità organizzativa.

La complessità organizzativa viene definita da Tsoukas (2016) come la capacità di azioni non banali (“non trivial”) laddove le organizzazioni rappresentano un complesso sistema di raffigurazione (“system of picturing”). Tale prospettiva si pone in antitesi al pensiero dominante che, invece, è più propenso alla semplificazione attraverso uno stile di pensiero disgiuntivo. Un complesso “system of picturing” si definisce attraverso tre principali elementi: un’ontologia “open-world”, un’epistemologia performante e un prasseologia poetica.

La teorizzazione complessa tende a porre in essere interconnessioni tra diversi elementi dell’esperienza umana, pur operando quelle distinzioni analitiche in grado di creare punti di contatto tra i concetti normalmente in uso nelle logiche comportamentali. La teorizzazione di tipo congiuntivo è guidata dalla necessità di preservare la dialettica “living forward – understanding backward” (vivere al futuro, conoscendo il passato), più adatta a cogliere la logica dell’applicazione pratica, così da rendere giustizia anche alla complessità organizzativa.

Tsoukas (2016) svela come il pensiero dominante su cosa sia una buona teoria manageriale poggi su una contraddizione: anche ove risulti universalmente noto che “i manager operino decisioni strategiche ad alto impatto sulla gestione del tempo” e anche se ci si rende perfettamente conto che le “catene di causa ed effetto sono altamente impattanti sul fattore tempo” (Bettis et al., 2014), se lo sviluppo della teoria segue metodi scientifici e parametri di razionalità il fattore tempo ne risulterà inevitabilmente eliminato. Tsoukas (2016) in tal senso rivendica che stimiamo e calcoliamo i tempi delle nostre azioni di continuo, ma questi calcoli operati in tema di organizzazione, non possono essere considerati quando semplifichiamo.

Si può quindi assumere che, pur riconoscendo la complessità del mondo esterno, ci si trova spesso a negarla nella teorizzazione, operando una semplificazione molto marcata del fenomeno reale. In tale ottica, di grande impatto è l’analisi, ad esempio, della gestione dell’etica nelle teorie del management strategico. Se l’enfasi dello sviluppo di una teoria si appone esclusivamente sulla causalità, l’etica non trova la giusta collocazione in esso a meno che non la si tratti come variabile altra (vedi Tenbrunsel e Smith-Crowe, 2008), vale a dire a meno che non la si tratti in maniera distaccata.

A tal proposito, vale la pena di considerare l’interessante analisi di Simon, che ha sostenuto che lo studio di somministrazione e l’elaborazione teorica si definiscono attraverso la separazione netta degli elementi scientifici dal sistema di valori. Con la sua tipica chiarezza, Simon (1976) contrappone quindi i due mondi: la proposizione “A è buono” può essere letta in due modi, uno etico, l’altro di fatto: “A porterà il massimo profitto”, “A è buono per massimizzare il profitto”. La prima di queste due frasi non ha contenuto etico, ed è una frase meramente inerente alla logica pratica del business. La seconda frase è un imperativo etico, e non trova pertanto adeguata collocazione in tutte le scienze.

Se il fattore tempo è il primo ad essere sacrificato in un’ottica di semplificazione teorica, l’approccio dualistico quando ci si propone di teorizzare il fattore etico, risulta invece l’unico possibile. I fenomeni reali non sono sempre conciliabili né con i valori né con i modelli scientifici. Interessante è quindi notare come le questioni etiche possano essere discusse ovunque, purché fuori dal regno del rigore dell’analisi scientifica. Tuttavia, l’esperienza pratica è ben diversa. Vivere la vita guardando avanti vuol dire sperimentare anche l’incertezza morale. Analizzando le nuove direzioni possibili per l’integrazione della gestione strategica con l’etica, Elms et al. (2010) notano acutamente che, sebbene la strategia e l’etica avevano condiviso origini comuni, all’applicazione pratica la gestione strategica intesa e sviluppata come campo meramente scientifico lascia completamente da parte le questioni etiche, preferendo a queste fattori e ipotesi empiricamente testabili. Così come per il trattamento del fattore tempo, si è ovviamente ben consapevoli dell’importanza dell’etica nella gestione strategica, ma è altrettanta la consapevolezza di non disporre dei mezzi intellettuali adeguati per integrare efficacemente i due elementi. Seguendo Tsoukas (2016), assumere per buona una “complessificazione” sui suddetti temi, coadiuverebbe la posta in essere di teorie più efficaci e senza meno più rappresentative dei fenomeni reali.

Organizzazione, semplificazione e complessità

Oggi, senza grandi polemiche, è noto e universalmente accettato che l’Organizzazione possa – se non debba – intendersi sia come entità, sia come processo. Da un punto di vista ontologico, si pensa ai fenomeni organizzativi come entità distinte e con date proprietà predeterminate, ovvero esistenti indipendentemente dall’osservatore e facilmente riconoscibili dalla mente umana. Nell’approccio teorico classico, quindi, la realtà, si identifica semplicemente con ciò che è. Dal momento che “il sapere è il saper rappresentare con precisione ciò che è al di fuori della mente” (Rorty, 1989, p. 3), tanto più accuratamente rappresentiamo il mondo, tanto maggiori saranno le probabilità che la nostra azione in esso migliori. Lo stile newtoniano opera cercando di spiegare un fenomeno particolare attraverso la costruzione di un modello idealizzato che astrae dalla complessità del mondo reale, dai valori e dal tempo, inducendo un approccio alla conoscenza di tipo dualistico: la mente è qui, il mondo là. La scienza resta scissa dall’etica e la stabilità è ciò che deve essere spiegato, mentre il cambiamento è il rumore che può essere ignorato. La scienza postclassica ha dimostrato, al contrario, come la mente e il mondo esterno non possano essere facilmente disgiunti e scissi come il rigore analitico imporrebbe, proprio per la distanza intrinseca che questo apporrebbe dalla natura reale dei fenomeni.

Assumendo che le azioni umane siano necessariamente dipendenti dal contesto e dal sistema di valori in cui hanno vita, stabilità e cambiamento, routine e novità risultano irrimediabilmente intrecciati tra loro. L’elaborazione di un approccio teorico che consideri i due sistemi come indissolubili prende quindi forma e si fa necessario, in particolar modo per ciò che concerne l’efficacia organizzativa. Da qui, la bontà e la necessità di una teoria di tipo congiuntivo (o relazionale, che consideri l’interconnessione dei sistemi come fattore centrale) come unico pensiero valido, perché atto alla ricerca di modi per collegare i concetti, per comprendere la connessione dei mondi.

Banale contro non banale (Trivial VS Non-trivial)

L’analisi newtoniana degli studi di organizzazione e gestione tratta le organizzazioni come macchine banali (“Trivial Machine: TM”; von Foerster, 1984), come se per ogni singola uscita esistesse un solo ingresso possibile e la loro continuità fosse governata solo da una regola predeterminata e ben definita. Le TM risultano infatti altamente prevedibili.

Il componente principale di una TM è l’individuo razionale, ovvero un individuo organizzato e istituzionalizzato (Simon, 1976, pag. 102). Il comportamento di quest’ultimo, nella misura in cui esso è governato da programmi di prestazione, è prevedibile e, pertanto, suscettibile di indagine scientifica sociale. Si paragonano routine (organizzative) a azioni programmabili da un computer, attribuendo loro, tra le altre cose, la capacità di determinare un comportamento. Dall’analisi di Simon e March (1993) emerge chiaramente che le routine generano prevedibilità nonché l’assenza di incidenti nella perfomance organizzativa o individuale. In altre parole, le routine forniscono regole decisionali a garanzia di buon funzionamento.

Sembra quindi chiaro come la ricerca catturi e rappresenti solamente lo stabile e il prevedibile. Dal momento che lo studio esclude il cambiamento dal concetto di routine, esso non risulta essere definibile empiricamente. Tuttavia, quando si riconosce la complessità dell’oggetto di studio, come si dovrebbe in particolare in una disciplina con riscontro pratico quale è l’organizzazione, si troverà l’impostazione di tipo disgiuntivo dello stile newtoniano particolarmente restrittiva. Osservando la vita organizzativa dall’interno si assume facilmente come il ragionamento deduttivo, tipico della scienza classica, sia di dubbia utilità. Le così definite dagli autori NTM (“Non-trivial Machine”, o organizzazioni complesse) sono soggette al continuo cambiamento del loro dominio di trasformazione: “una risposta ottenuta su un dato stimolo, non può essere mai associata allo stesso stimolo dato in un altro momento” (von Foerster, 1984, p. 10). Si nota facilmente come la differenza critica tra una TM e una NTM veda la seconda dotata di uno stato interno che continua a cambiare. Una NTM risulta più ricorsiva, vale a dire che ogni volta che sperimenta un cambiamento si trasforma essa stessa in una macchina diversa, nuova.

Touskas (2016) ci ricorda che la nostra esperienza comune suggerisce invece che non viviamo affatto in maniera del tutto imprevedibile. Ci sono indubbiamente modelli di stabilità intorno a noi cui si può far riferimento. Come è possibile, allora, per una NTM generare al suo interno un comportamento universale relativamente prevedibile? Per von Foerster, i modelli di stabilità derivano propriamente da operazioni ricorsive. Quando un NTM rielabora ciò che ha già prodotto, genera un comportamento di tipo circolare (ricorsivo, appunto), che va a generare a sua volta una certa stabilità. Per dimostrare questo, von Foerster (1984, p. 18) si avvale dell’esempio fornito dal metodo ricorsivo della radice quadrata di qualunque numero determinata con il valore 1, che definisce valore “eigen” (tedesco, per auto-valore). I valori eigen emergono dalla continua sequenza di operazioni ricorsive e rappresentano la convergenza verso un punto di equilibrio: lo stato di stabilità.

Allo stesso modo, in tema di organizzazione, un comportamento eigen rappresenta la stabilità derivante da operazioni ricorsive, poste in essere in corso d’opera. Tale stabilità, tuttavia, è un risultato e non un dato d’analisi, ed è pertanto anch’essa suscettibile al cambiamento. Ciò apre indubbiamente una riflessione su come, in un contesto di interazione istituzionalizzata, diversi attori agiscano reciprocamente in impatto l’uno sull’altro, generando quindi la progressiva comparsa di stabilità. La creazione della stabilità risulta infatti essere una realizzazione in corso d’opera, definendola quindi come processo vero e proprio. Essa coesiste con il cambiamento, richiedendo sforzo e lavoro perché esso stesso possa ottenere la stabilità necessaria alla sua esistenza. Nulla come il cambiamento necessita infatti solide basi di partenza. Osservate dall’esterno le routine rappresentano modelli ripetitivi di interazione, ma vissute dall’interno esse sono piene di agenti creativi che ne modificano l’andamento. “Le routine sono eseguite da persone che pensano e sentono. Le loro reazioni sono localizzate in contesti istituzionali, organizzativi e personali, tali da influenzare l’emanazione di routine organizzative e creare in loro un enorme potenziale per il cambiamento” (Feldman 2000, p. 614).

La complessità è una cosa seria: verso la connessione dei mondi.

Una sorta di connessione dei mondi dell’essere come unico spazio vitale per una teorizzazione efficace è ciò a cui sembra si debba necessariamente traguardare, restando ben radicati alla volontà di evitare l’approccio con un’intelligenza cieca, e fronteggiare efficacemente la sfida alla complessità delle organizzazioni con un approccio di tipo congiuntivo.

La complessità è il mostro che dev’essere abbattuto; è indesiderabile e deve essere ridotta. Per contro, per il paradigma della complessità (cui l’approccio congiuntivo si ispira), essa risulta essere l’elemento scatenante di forme più complesse di indagine. Visto in termini di processo, ad esempio, il mondo altro non è che un insieme di eventi ed esperienze. Ogni evento ha origine e si costituisce attraverso le sue relazioni con altri eventi, con altri mondi. Un singolo evento, a sua volta, può essere ulteriormente analizzato e suddiviso in eventi minori. Questi possono contestualmente diventare oggetto di ulteriori analisi con ulteriori focus, ad esempio incentrate su particolari individui per un dato periodo di tempo, ponendo in essere altresì lo studio di come questi, e le loro esperienze focali, siano cresciuti rispetto alle loro esperienze precedenti, alle loro interazioni. Se il paradigma della semplificazione si basa sulla disgiunzione e riduzione, il paradigma della complessità si basa sulla distinzione e ricongiunzione – “sul distinguere, senza scissioni” (Morin, 2008, p. 6). Cogliere ed analizzare la complessità significa prendere sul serio l’ambiguità e assumerla come irriducibile; assumere l’incertezza del mondo come esistente. Si rende necessario procurarsi armi adeguate alla sfida che la ricerca è chiamata ad affrontare. Si rende necessaria la “complessicizzazione” del proprio pensiero.

Al fine di centrare l’obiettivo, i ricercatori si trovano oggi nella condizione di dover catturare la vita organizzativa non con gli occhi di un professore di gestione o di un manager, ma fuori dalla forma, in una sorta di oggettivizzazione che permetta la visione chiara dei mondi in essere, attraverso quei momenti di rottura che portino in luce come la comprensione accademica troppo spesso non coincida con l’applicazione pratica, e in maniera del tutto non intenzionale. La logica della pratica normalmente non è visibile all’occhio del ricercatore, notoriamente e per natura distante da essa; si rivela solo quando una perturbazione interna induce gli attori, fino ad allora immersi nella pratica in maniera del tutto inconsapevole, a prestare attenzione a tutte quelle loro azioni compiute in maniera non intenzionale. Sarebbe quindi questo il punto di analisi per professionisti, il momento esatto della teorizzazione: quando la perturbazione mostra chiaramente la totalità socio-relazionale e materiale in cui erano immersi, nonché il punto di continuità tra passato e futuro, tra il guardare oltre e il conoscere il passato. Interessante osservare l’analisi di Schultz e Hernes (2013) sul percorso di ricostruzione dell’identità del gruppo LEGO, che mostra come sia stata rievocata e rivendicata la forma antica del marchio, e come la futura ne sia rimasta inevitabilmente influenzata. Il loro studio segue esplicitamente il pensiero congiuntivo: “il concetto d’identità può interpretarsi come duraturo e mutevole allo stesso tempo. […] Invece di concepire il ruolo del tempo come variabile costante, si è definito come un luogo dove passato e futuro sono continuamente reinventati da attori organizzativi in piena fase di definizione di ciò che l’organizzazione sta effettivamente diventando” (Schultz e Hernes 2013, pp. 17-18). L’agente non-triviale (colui che opera all’interno di una NTM) fornisce un andamento organizzativo originale e senza meno non aprioristicamente prevedibile. La teoria congiuntiva pone l’agente stesso nella condizione di essere in grado di osservare l’ambiente in cui agisce. È qui che la realtà viene correttamente rappresentata. È qui che gli agenti divengono vivi. Insiemi di pensieri, sentimenti ed esperienze sensoriali, che agiscono nel tempo e in particolari contesti; le loro identità provengono dalla memoria e dall’anticipazione, nonché dalla perfetta combinazione delle stesse; dalla loro forma nel contesto e dalle loro particolari interazioni. Il “non poi” diviene “qui e ora” e sembra che in questo processo si trovi quell’astrazione dalle esperienze che introduce concretamente la possibilità nel presente, e il futuro non necessariamente derivante dal passato.

Implicazioni manageriali

Con la sua consueta profondità di pensiero, Tsoukas (2016) ci incoraggia a prendere sul serio e in maniera totalizzante le esperienze che la vita ci pone di fronte, sia dal punto di vista personale che professionale. Tradotto in termini manageriali ciò implica che solo apprezzando la totalità (congiuntiva) delle sfide che il management deve fronteggiare sarà possibile apprezzare fino in fondo le “lezioni apprese”, al fine di poterne replicare le soluzioni. Infatti, l’articolo illustra come la semplificazione dei modelli che ispirano la pratica manageriale rischia di escludere dal campo di azione variabili e fenomeni centrali, quali possono essere il tempo o l’etica. Al contrario, il “teorizzare complesso”, per quanto non di immediata spendibilità o fruizione, consente di beneficiare delle connessioni tra diversi elementi dell’esperienza umana, attraverso distinzioni che consentono la congiunzione tra concetti normalmente considerati a compartimenti stagni. Analiticamente, lo scopo ultimo del pensiero “complesso”, è “di distinguere senza scindere, di associare senza identificare o ridurre” (Morin, 2008, p. 6). Tale approccio pone il manager (in quanto agente decisore) nella possibilità di prendere posizione in relazione a quello che sta vivendo, nonché elaborare possibili modi di essere nell’unicità caratteristica di ogni possibile azione pratica. Un comportamento ispirato dal “living forward-understanding backward”, rende l’azione manageriale più adatta a cogliere e comprendere la logica della pratica e, quindi, più adeguata alla comprensione della complessità organizzativa stessa. Trasmutare il passato in nuova forma nel futuro: non semplificare, “complessicizzare”. Suggerimento da estendersi altresì al linguaggio descrittivo dell’agente stesso, nonché alla sua ricerca verso interrogativi sempre più complessi.

In altre parole, non semplificare, ma “complessicizzare”.

BIBLIOGRAFIA

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