La complessità nella pubblica amministrazione: antiche problematiche, nuove intuizioni

Affrontare la tematica della complessità nel settore pubblico comporta riconoscere l’impatto che ha il contesto anche nella gestione delle Pubbliche Amministrazioni. Spesso nella gestione di strutture pubbliche burocratiche si considera scontato o si prescinde dall’impatto che i fattori contingenti, e le complessità da essi derivanti, hanno sulle modalità gestionali e operative dell’Amministrazione e, di conseguenza, sulle performance.

Introduzione

L’attuale contesto economico, caratterizzato da elevato dinamismo, ha comportato una crescente ricerca di flessibilità e adattamento ai continui cambiamenti da parte delle aziende del settore privato. Tuttavia, alla crescente flessibilità del settore privato non è corrisposta eguale flessibilità nel settore pubblico.

Un esempio valido in questo senso è la forte spinta alla digitalizzazione e innovazione richiesta negli ultimi anni alle aziende private nel rapporto con il settore pubblico (ad es., scambio di comunicazioni e invii di documentazione alle Pubbliche Amministrazioni). È infatti vero che spesso ci si trova ancora in situazioni di mancato adeguamento da parte degli uffici pubblici alle stesse richieste rivolte al privato: alcuni esempi possono essere la mancata apertura delle poste elettroniche certificate, il mancato incrocio dei database tra le varie PP.AA., la mancata digitalizzazione di molte delle pratiche antecedenti “l’era digitale”. Il risultato negativo di questo scompenso nel rapporto privato-pubblico pesa, e si riflette nei disagi che ne conseguono per il cittadino, per le imprese, etc., nel momento in cui devono entrare in contatto con la Pubblica Amministrazione.

Gli esempi riportati sono sintomatici della mancata considerazione (quantomeno in misura parziale), da parte delle Amministrazioni Pubbliche, dei fattori di complessità che caratterizzano il contesto economico sociale.

Anche in letteratura è stato più volte evidenziato questo limite (Klijn, 2008; Meek, 2010), in particolare mettendo in risalto che i sistemi pubblici sono fortemente ancorati ad un’antica tradizione di svolgimento pratiche ed esperienze amministrative caratterizzate da elevata razionalità (Meek, 2010). Come noto dagli studi di Simon (1956), in realtà, è impossibile parlare di razionalità perfetta: ciò significa che i comportamenti razionali, anche nelle pubbliche amministrazioni, devono essere considerati più come eccezioni e non come assunti dati per scontato (Klijn, 2008).

Dal momento in cui comprendere e spiegare il cambiamento e le dinamiche complesse dei contesti è uno dei temi di ricerca centrali in gran parte della letteratura sulla governance (anche nel settore pubblico), è interessante approfondire e valutare possibili punti di contatto tra pubblica amministrazione e teorie della complessità. In questo breve contributo, pertanto, le tematiche relative a complessità e contingenze sono applicate al campo della Pubblica Amministrazione, provando inoltre a prendere in considerazione le principali teorie in campo organizzativo e manageriale che analizzano il ruolo del contesto e delle forze presenti in esso che influenzano il modo di operare delle organizzazioni.

Complessità e pubblica amministrazione

Un contributo particolarmente interessante sul tema della complessità nella Pubblica Amministrazione è quello di Klijn (2008). L’autore discute le teorie della complessità applicandole al contesto pubblico ed analizzandone le principali caratteristiche anche in considerazione di precedenti contributi in letteratura.

L’autore parte dal concetto che la necessità di considerare la complessità nel sistema pubblico è legata soprattutto al passaggio da “governo” a “governance”, ed al ruolo sempre più centrale svolto dai network anche nel settore pubblico. Klijn (2008) sottolinea anche l’importanza che la teoria della complessità ha in relazione al fatto che risulta particolarmente adatta a comprendere il cambiamento nei sistemi e le loro dinamiche come risultato di complesse interazioni tra gli attori facenti parte del sistema. Il tema del cambiamento nella pubblica amministrazione, infatti, è oggi uno dei temi più dibattuti e sentiti, soprattutto con riferimento alla necessità di spostare (o meglio recuperare) l’attenzione dalle regole/procedure alle persone ed ai veri problemi delle pubbliche amministrazioni, adottando un approccio che può essere definito comportamentale (Hinna, Mameli, Mangia, 2016).

L’idea alla base della teoria della complessità, che un sistema sia più della somma delle singole parti che lo compongono, mette in risalto come l’appartenenza a governance networks influenzi i processi decisionali e le interazioni tra gli attori appartenenti al network. Questo concetto secondo Klijn (2008) è strettamente legato alla condizione di equilibrio instabile e di cambiamenti incrementali che caratterizzano i contesti in cui si muovono le pubbliche amministrazioni. In questo senso, l’autore mette in evidenza che lo stretto legame che si crea in questo modo, comporta una co-evoluzione degli attori all’interno dello stesso sistema, che a sua volta influenza le dinamiche del gruppo e l’organizzazione interna dei singoli attori.

In realtà, secondo Klijn, da un punto di vista di governance, questa interdipendenza tra gli attori di uno stesso sistema dovrebbe condurli a co-operare; ma la migliore performance di un sistema composto da diverse organizzazioni si avrebbe solo in condizioni di uguali e condivisi indicatori di performance che guidino gli attori verso una più efficiente organizzazione.

Secondo Klijn i processi decisionali nel settore pubblico devono contemperare l’esistente tensione tra due forze contrastanti: a) i bisogni e le urgenze legati all’attuazione di progetti locali e gli interessi degli attori appartenenti ai contesti locali, e b) le correnti politiche in generale, attraverso cui idee, progetti e iniziative “appaiono” e “scompaiono”. Riuscire a bilanciare queste forze necessita due azioni fondamentali da intraprendere: 1) l’attivazione e il coinvolgimento degli attori locali, suscitando in loro interesse nei progetti locali, per renderli partecipi anche per farvi investire le proprie risorse, e 2) far confluire gli sforzi della politica di livelli più elevati verso specifici progetto locali. Questa azione consentirebbe ai manager pubblici a livello locale di far rientrare propri progetti e idee nell’ambito di iniziative politiche più ampie già esistenti per ottenere sostegno e acquisire fondi dalla politica di livello nazionale. Le due reti (locale e nazionale) sono sistemi diversi, che però devono co-evolversi e co-operare al fine di garantire la migliore efficacia dell’azione pubblica. In altre parole, i progetti a livello locale hanno bisogno di sostegno e di risorse, mentre le correnti politiche di livelli più elevati necessitano di risultati concreti per avere impatto sui contesti locali con i propri progetti di livello nazionale, e di feedback per valutare la rilevanza delle proprie idee.

Klijn (2008) evidenzia come nel tempo l’attenzione alle dinamiche nel settore pubblico si sia spostata da piccoli step incrementali a processi più complessi: in particolare, l’autore cita i contributi di Easton (1953) e Lindblom (1959), fondati sul concetto di “incrementalismo”, che rappresentano una prima critica alla razionalità dei processi decisionali di un policy maker, secondo cui egli, guardando tutte le opzioni possibili, le mette a confronto rispetto alle informazioni a disposizione e opta per quella migliore. Su questo aspetto, Lindblom ha ricevuto delle critiche in relazione al fatto che i policy maker non possono mai essere portatori di grandi cambiamenti; la contro-risposta dell’autore (Lindblom & Cohen, 1979) è stata che i cambiamenti incrementali, in realtà, avrebbero portato nel lungo periodo a significativi cambiamenti e che per un policy maker sarebbe meglio essere modesto e pragmatico, e orientato a piccoli cambiamenti, piuttosto che essere eccessivamente ambizioso. Klijn (2008) sottolinea, invece, come il contributo delle teorie sulla complessità avrebbero potuto far spostare il focus dell’analisi di Lindblom sull’effetto cumulativo dei cambiamenti incrementali nel tempo, che avrebbero condotto all’instabilità del sistema, e dunque ad un suo cambiamento radicale.

L’importanza del contesto esterno

Nel corso degli anni ’70 le teorie in campo organizzativo e manageriale si sono fortemente concentrate sulle interconnessioni tra gli attori all’interno di un contesto ed in particolare sulle influenze generate dalle strategie degli uni sugli altri. I concetti di complessità, dipendenza, connessione e imprevedibilità diventano i punti centrali di queste teorie, oltre che caratterizzanti i processi decisionali.

L’aspetto rilevante che emerge dalle teorie degli anni ’70, è che le organizzazioni, pur stabilendo in molti casi percorsi strategici in maniera intenzionale, in altri casi prendono decisioni e attuano strategie che sono il risultato (o sono influenzate) da eventi inaspettati o da azioni intraprese da altri attori del contesto esterno (Mintzberg, 1979).

In questo ambito si inseriscono la teoria delle contingenze (Lawrence & Lorsch, 1967) e tutte le teorie legate all’influenza che il contesto ha sulle organizzazioni: Istituzionalismo (Meyer & Rowan, 1977), Neo-istituzionalismo (Powell & DiMaggio, 1983) e Resource Dependence Theory (Pfeffer & Salancik, 1978).

Secondo Lawrence & Lorsch (1967) le organizzazioni devono essere strutturate in modo tale da rispondere adeguatamente alle particolari situazioni ambientali che determinano il grado di incertezza del contesto in cui si trovano ad operare. La struttura organizzativa dovrà variare, quindi, in relazione al grado di incertezza del mercato: quanto più l’ambiente esterno risulterà variabile, tanto più l’organizzazione dovrà essere flessibile; al contrario, in contesti caratterizzati da minore incertezza, sarà possibile adottare un’organizzazione più rigida e gerarchizzata. In aggiunta a quanto teorizzato da Lawrence & Lorsch, Meyer & Rowan (1977) e Powell & DiMaggio (1983) nei propri studi estendono il ruolo delle pressioni derivanti dal contesto anche al condurre le organizzazioni verso l’adozione di modelli e comportamenti similari (isomorfismo), non solo rispetto a previsioni normative-obbligatorie, ma anche su basi volontarie o imitative. In questo ambito rientrano i casi delle organizzazioni capaci di creare le cosiddette best practices, che dovrebbero, almeno in teoria, influenzare le altre organizzazioni nel contesto ad imitarle al fine di ricercare risultati simili.

Pfeffer & Salancik (1978), nella Resource Dependence Theory, pongono l’accento non solo sul ruolo delle pressioni derivanti dal contesto, ma anche sul ruolo che ha il contesto come fonte di risorse e di relazioni per le organizzazioni. In ragione di questa visione, le pressioni e gli altri attori del contesto esterno devono essere gestiti al fine di garantire la sopravvivenza dell’organizzazione.

L’evoluzione che si può notare nelle teorie appena illustrate consiste nel passaggio da una visione statica del contesto ad una visione dinamica, in cui l’organizzazione dal subire passivamente le pressioni esterne e adeguarsi in maniera flessibile ad esse, diventa parte attiva nel reagire (o nell’agire in maniera proattiva) per garantire la propria sopravvivenza attraverso un utilizzo strumentale del contesto esterno per assicurarsi le risorse e le relazioni necessarie. Si passa quindi da uno status di attori passivi in un cambiamento di tipo adattivo (o in alcuni casi reattivo), ad attori pro-attivi che cercano di portare nuove spinte al cambiamento.

Implicazioni manageriali

Il quadro delle teorie sulle contingenze e sull’importanza del contesto esterno appena illustrato, è utile per evidenziare come la considerazione delle pressioni, delle complessità e di altri fattori derivanti dal contesto esterno risultino fondamentali anche nell’ambito pubblico.

È infatti vero che nel settore pubblico, ancora di più, si deve tenere conto di fattori sociali, istituzionali ed economici (determinanti il contesto) nell’immaginare il funzionamento e la “sopravvivenza” di un’Amministrazione Pubblica. Per la particolare funzione che svolgono, le Amministrazioni Pubbliche devono far sì che il proprio operato sia rivolto a garantire la migliore efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, e che questa sia orientata al soddisfacimento dell’utenza pubblica. Primi passi in questa direzione sono stati fatti nel corso degli ultimi venti anni con la New Public Governance e il New Public Management, introducendo un processo di “aziendalizzazione” nelle Amministrazioni Pubbliche che avrebbe dovuto soddisfare i criteri appena citati di efficacia ed efficienza. Nei fatti, questo processo non sembra essersi completato, o comunque è stato caratterizzato da una forte gradualità che lo ha reso più lento del previsto. In breve, ciò può essere notato semplicemente facendo riferimento ad alcuni concetti introdotti da illustri autori nel corso degli anni ’50 e ’60 riferendosi alla burocrazia di vecchio stampo, che risultano ancora oggi validi: la trasposizione dei fini (Merton, 1940) e il work to rule (Blau, 1955).

Gli autori evidenziano come l’eccessiva focalizzazione della burocrazia sulla formalità, sulle procedure e sulle regole abbiano condotto le Amministrazioni Pubbliche a tralasciare il vero e proprio obiettivo finale –  garantire un servizio pubblico – in luogo di un falso obiettivo: la procedura di erogazione del servizio diventa essa stessa l’obiettivo finale dell’Amministrazione (Merton, 1940). In aggiunta a questo, la regola è diventata anche giustificazione per i lavoratori pubblici per non vedersi assegnati compiti diversi da quelli strettamente previsti dal proprio contratto (Blau, 1955).

Questi concetti risultano ancora attuali in quanto, pur essendo vero che da un lato sia in atto un tentativo di recupero di efficacia ed efficienza dell’azione pubblica, dall’altro lato è anche vero che a fronte di questo non è corrisposto una modifica delle regole di funzionamento del sistema. Modifica delle regole che è necessaria ma non sufficiente se di pari passo non si modificano i comportamenti delle persone facenti parte del sistema pubblico e la relativa cultura – di scarso orientamento al cambiamento, all’innovazione e alle relazioni – che il vecchio sistema burocratico ha fatto sì che si sviluppasse.

L’approccio comportamentale diventa dunque cruciale per cercare di orientare le persone verso il comune obiettivo di migliorare il sistema pubblico e garantire non solo efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, ma anche il miglioramento della qualità dei servizi. Al fine di raggiungere questo obiettivo, un passaggio fondamentale è quello di improntare la formazione manageriale nel pubblico sull’approccio comportamentale (Hinna, Mameli, Mangia, 2016).

Le competenze da sviluppare in tal senso, che devono fare da guida per orientare, e ri-orientare, gli obiettivi e le loro modalità di raggiungimento in ambito pubblico, sono quelle particolari conoscenze e competenze che vanno oltre le capacità strettamente lavorative, ma che una persona sviluppa nel tempo attraverso le esperienze di vita unitamente alle esperienze lavorative. Non si tratta più, quindi, di considerare in maniera statica e passiva i classici strumenti manageriali, ma di ripensare ad essi attraverso un diverso approccio più attivo e partecipato da parte dei manager pubblici. Si fa riferimento in particolare alle capacità relazionali, alle capacità di lavorare in gruppo e motivare le persone, alle capacità di negoziare e risolvere conflitti che, insieme ai classici strumenti manageriali, devono condurre al miglioramento dell’azione amministrativa.

 

Conclusioni

Condividendo le conclusioni di Klijn (2008), mentre in passato parlare di complessità, interdipendenze e influenze contingenti rappresentava l’eccezione alla usuale stabilità dei contesti, oggi non è possibile prescindere dalla loro considerazione. Infatti, in contesti altamente mutevoli diventa fondamentale comprendere, assecondare e reagire alle pressioni derivanti dal contesto.

Klijn, infatti, mette in evidenza come le teorie della complessità possano ben spiegare l’evoluzione nel campo delle pubbliche amministrazioni; in particolare, l’autore sottolinea l’importanza della complessità soprattutto nel processo decisionale, nella definizione delle strategie e nell’influenza che hanno le situazioni che emergono dall’interazione di diversi attori nel campo.

Considerare i fattori di complessità che caratterizzano i contesti, le relazioni in atto in essi e le interdipendenze che ne risultano, ha un notevole impatto sull’azione manageriale sia nel settore privato, sia nel settore pubblico.

Come risultato di pressioni e di relazioni che si susseguono nel contesto, infatti, la complessità conduce a ripensare le modalità di gestione anche nel settore pubblico: prima ancora del cambiamento delle regole, un punto di partenza necessario deve essere il cambiamento dei comportamenti degli individui. Questo aspetto è infatti preponderante rispetto ad altri per far sì che una nuova cultura si sviluppi nelle organizzazioni (anche pubbliche) per garantire maggiore partecipazione e coinvolgimento a tutti i livelli organizzativi nei processi di cambiamento; ma soprattutto per garantire che una nuova azione manageriale sia lontana dalla precedente cultura rigida rispetto al cambiamento e all’innovazione che ha caratterizzato le strutture burocratiche per lungo tempo.

Bibliografia

Blau P. M., (1955), The dynamics of bureaucracy: a study of interpersonal relations in two Government Agencies, University of Chicago Press, Chicago.

DiMaggio, P. J., Powell W. W., (1983), The iron cage revisited: Institutional isomorphism and collective rationality in organizational fields, American Sociological Review, 48, pp.147-160.

Easton, D. (1953), A systems analysis of political life, Wiley, New York.

Hinna A., Mameli S., Mangia G., (2016), La pubblica amministrazione in movimento. Competenze, comportamenti e regole, Egea, Milano.

Klijn, E.H. (2008), Complexity theory and Public Administration: what’s new? Key concepts in complexity theory compared to their counterparts in public administration, Public Management Review, vol. 10, n. 3, pp. 299-317.

Lawrence, P.R., Lorsch, J.W., (1967), Organization and Environment: Managing Differentiation and Integration. Boston, Massachusetts: Harvard University

Lindblom, C.E. (1959), The science of muddling through, Public Administration, vol. 19, pp. 79-88.

Lindblom, C.E. and D.K. Cohen (1979), Usable Knowledge: Social Science and Social Problem Solving. New Haven: Yale University Press.

Meek J. W., (2010), Complexity Theory for Public Administration and Policy, Emergence: Complexity & Organization, vol. 12, n. 1, pp. 1-4.

Merton R. K., (1940), Bureaucratic Structure and Personality, Social Forces, vol. 18, n. 4, pp. 560-568.

Meyer, J. W. Rowan, B. (1977), Institutionalized organizations: Formal structure as myth and ceremony, American Journal of Sociology, vol. 83, pp. 340–363.

Mintzberg, H. (1979), The Structuring of Organizations, Prentice Hall, Englewood Cliffs.

Pfeffer, J., Salancik G. R. (1978). The External Control of Organizations: A Resource Dependence Perspective. New York, NY, Harper and Row.

Simon H. (1956), Rational choice and the structure of the environment, Psychological Review, vol. 63, n. 2, pp. 129-138.

Autori

+ articoli

Università degli Studi di Napoli Federico II

Ultimi articoli