L’“amore” fra organizzazione e tecnologia “al tempo del digitale”

Estratto da Special Issue for the 50th anniversary of the Journal Studi Organizzativi Joint Design of Technology, Organization and People Growth: Thirty Years Later and Forward – Federico Butera, editor

Le pagine della nostra vita1. Teorie dell’organizzazione e dell’information processing: una “vecchia storia d’amore”

Alla base degli studi organizzativi è consolidata una tradizione di ricerca che considera la razionalità limitata come la spiegazione per cui si sviluppa un’azione organizzativa collettiva rivolta ad affrontare e risolvere i problemi in situazione di incertezza (Simon, 1947; March e Simon, 1958; Cyert e March, 1963; Thompson, 1967; Pfeffer e Salancik, 1978; Willimson, 1979).

La rilevanza di questa tradizione di ricerca e gli sviluppi che ne sono derivati consentono di considerare il concetto di organizzazione e quello di information processing come una “vecchia coppia”, e lo studio della loro “storia d’amore” addirittura alla base del pensiero organizzativo.

Secondo questa “storia”, gli individui affrontano l’incertezza aggregandosi in sistemi sociali “organizzati”, così possono soddisfare più facilmente i propri desideri e interessi e raggiungere i propri obiettivi. Il vantaggio di “organizzarsi” è evidente: risultati non conseguibili da un solo individuo possono essere facilmente raggiunti da più persone che lavorano insieme.

L’esito di questa aggregazione sono le diverse forme di organizzazioni, in cui da sempre gli esseri umani vivono (la famiglia, le tribù, i clan, le città ecc.), lavorano (le comunità agricole, le fabbriche, le imprese, le multinazionali ecc.), ma anche studiano (le scuole, le università, i centri di ricerca), si divertono (teatri, spettacoli, villaggi vacanze ecc.), o soffrono (ospedali, cimiteri ecc.).

Facendo parte di un’organizzazione, gli individui si appropriano di una struttura di information processing che è superiore alla propria e che si manifesta attraverso procedure, routine, ruoli, strutture, linguaggi, valori condivisi ecc.

In sintesi, le strutture di information processing hanno tre dimensioni: il “significato”, vale a dire la capacità di fornire schemi di interpretazione con cui attribuire un significato alle informazioni, agli eventi ai comportamenti; il “potere”, relativo dunque alla capacità di decidere come si ripartiscono le risorse fra gli individui; la “legittimazione”, intesa come la capacità di regolare i comportamenti premiando quelli corretti e sanzionando quelli impropri. Le strutture di information processing che le persone creano collettivamente, dunque, aprono molte possibilità perché rappresentano una “azione organizzativa” in grado di orientare il comportamento di tutti e di fornire delle indicazioni utili a fronteggiare, si potrebbe dire, crescenti livelli di incertezza. Tuttavia, nonostante gli individui siano riflessivi e capaci di apprendere, sono comunque condizionati da alcune restrizioni che derivano proprio dalle strutture di information processing cui hanno aderito.

In primo luogo, molta della conoscenza delle persone è di tipo tacito, cioè non può essere codificata e rimane all’interno di strutture sociali che il singolo non può controllare. Ne consegue che un individuo finisce per seguire inconsapevolmente comportamenti anche a lui non favorevoli, senza poter fare niente per cambiare le cose.

Inoltre, la squilibrata distribuzione di potere esistente nei sistemi sociali implica che c’è chi controlla più informazioni (asimmetria informativa) ed è per questo in grado di punire o premiare, e così imporre dei limiti alla libertà individuale. Le persone, inoltre, hanno una conoscenza limitata e vivono in contesti sociali ristretti e culturalmente spesso molto diversi. Dunque, alcuni individui possono avere una visione distorta delle relazioni di potere che li legano agli altri e non riuscire a individuare comportamenti alternativi.

Infine, la limitazione della razionalità degli individui conduce spesso a conseguenze non intenzionali. Ne deriva che né i singoli né i governi, per esempio, nonostante il ricorso a complesse strutture di information processing, possono conoscere in anticipo quali saranno le conseguenze ultime delle loro azioni.

Il buon funzionamento della capacità di information processing delle organizzazioni dunque non è scontato: molte imprese falliscono, altre non sono efficienti, altre ancora non sono in grado di mantenere i propri impegni e raggiungere gli obiettivi per cui sono state create.

Le organizzazioni tendono in un certo senso a sfuggire ai loro creatori (gli esseri umani) e sembrano, a chi le osserva, di essere dotate di una vita propria

Un tram che si chiama Desiderio2. Organizzazione e tecnologie digitali: “nuova passione” o “ritorno di fiamma”?

Coerentemente con la lunga “storia d’amore” fra teorie dell’organizzazione e dell’information processing, l’intenso dibattito sulle possibili “tresche” fra tecnologia digitale e forme organizzative non è inaspettato, anzi secondo alcuni ha avuto inizio addirittura nel 1958, a seguito di un importante articolo apparso su Harvard Business Review (Leavitt e Whisler, 1958) nel quale si cercava di prevedere come quelle che all’epoca si chiamavano Information & Communication Technology (Ict) avrebbero modificato le pratiche manageriali negli Anni ’80 del XX secolo. Il dibattito si è poi sviluppato anche grazie ai fertili contributi di Herbert Simon che, nel volume del 1960 The New Science of Management Decision, raccolse le sue prime riflessioni «sull’impiego dei computer e sulle loro implicazioni per la gestione aziendale».

Il tema delle tecnologie digitali però è ovviamente attualissimo, e studiosi e manager si pongono continue domande sulle smart e virtual organization, sullo smart working, sui connected worker, sui big data, sull’intelligenza artificiale, sui robot.

La “storia d’amore” fra teorie dell’organizzazione e dell’information processing vive una nuova intensità con nuovi palpiti, speranze e delusioni, a causa del ritmo vertiginoso che caratterizza l’innovazione tecnologica, ma anche della crescente incertezza che le tecnologie digitali sembrano generare. Ci si chiede: il digitale sarà un “amante affidabile”?

O invece sarà un “bastardo traditore”? Insomma, paradossalmente, la sempre crescente esigenza di acquisire ed elaborare informazioni favorisce lo sviluppo e l’adozione di nuove tecnologie, ma la diffusione di queste ultime sembra allo stesso tempo generare la percezione di un crescente livello e un nuovo tipo di incertezza da fronteggiare.

Per capire la “nuova storia d’amore” fra teorie dell’organizzazione e dell’information processing “ai tempi del digitale”, parafrasando García Márquez3, ed evitare “adolescenziali” depressioni o euforie sul futuro, è possibile distinguere tre principali prospettive.

Dirty Dancing-Balli proibiti4. Tecnologia che passione!

La prima prospettiva enfatizza il ruolo che la digitalizzazione può esercitare sul lavoro, sulle imprese sulle Pubbliche Amministrazioni, pervenendo a sostenere, con una sorta di entusiastico determinismo tecnologico, che il digitale genera quasi automaticamente nuove forme di lavoro e di organizzazioni. Sembra scontato ritenere che, se le forme organizzative possono essere considerate il risultato della combinazione di specifiche modalità di divisione del lavoro e di coordinamento entro determinati confini spaziali e temporali, allora le tecnologie digitali, che offrono nuove possibilità per superare tali limiti, possono essere facilmente utilizzate per progettare nuove forme prima non perseguibili. Ovviamente l’ipotesi guida di tale prospettiva è che le possibilità offerte dalle nuove tecnologie in termini di innovazione delle procedure, dei processi e delle strutture o di facilitazione delle interazioni fra più organizzazioni, “immediatamente” consentano ai decisori o ai progettisti di modificare le logiche formali e informali in base alle quali le persone e le organizzazioni da esse composte si comportano. La forma organizzativa che si rileva in alcune imprese, per esempio, sarebbe dunque il risultato delle tecnologie adottate: da queste infatti dipenderebbero i comportamenti degli individui e dei gruppi, i processi decisionali manageriali e, in conclusione, i risultati da essi conseguibili in termini di efficacia ed efficienza. Si tratta di una impostazione che praticamente enfatizza il ruolo della progettazione informatica e tecnologica, la quale spesso è orientata a ottimizzare la gestione dei flussi informativi alla base del funzionamento delle organizzazioni, cercando anche di pervenire al disegno di assetti “perfetti”, non troppo diversamente forse da quanto ritenevano di poter conseguire i sostenitori dello scientific management alla ricerca della one best way.

Purtroppo, invece, i limiti di un “imperativismo” tecnologico – passionale, sì, ma forse fondato sull’ingenuità di una “prima infatuazione” – sono stati ormai riconosciuti sia dalla ricerca sia dalla pratica manageriale: fenomeni di resistenza al cambiamento indotto dalla tecnologia o di sviluppo di applicazioni e modalità di utilizzo delle tecnologie digitali in modo quasi spontaneo e spesso assolutamente difforme da quelle immaginate dai progettisti, senza ovviamente dimenticare i numerosi casi di insuccesso riscontrabili anche in riferimento ad applicazioni e tecnologie presentate come vincenti e infallibili, hanno evidenziato, come la “storia d’amore” fra tecnologie digitali e organizzazione debba essere interpretata mediante narrazioni probabilmente più ampie e più complesse.

Matrimonio all’italiana5. La prima organizzazione non si scorda mai

La seconda prospettiva evidenzia come siano invece proprio le caratteristiche di una organizzazione a condizionare e influenzare l’implementazione di tecnologie digitali. La loro introduzione aumenta la capacità di information processing di un’organizzazione in quanto si aggiunge e si sovrappone, amplificandoli, ai preesistenti meccanismi di coordinamento. La digitalizzazione consente infatti di velocizzare, quasi un effetto doping, i flussi informativi alla base dei processi di sense making, decision making e knowing di una organizzazione. Secondo questa impostazione sono le riforme normative, le scelte del vertice o del management in genere che stabiliscono e scelgono quali tecnologie adottare per rafforzare e migliorare la forma organizzativa di una impresa, di una pubblica amministrazione. Da questo punto di vista l’introduzione di nuove tecnologie digitali deve essere considerata una scelta imprenditoriale e manageriale consapevole, nella convinzione che gli effetti dell’introduzione di tecnologie digitali siano valutabili ex ante e possano guidare verso il futuro l’organizzazione, a cui si è tanto affezionati, quasi il “primo amore”, in un lungo e sereno “matrimonio”. La differenza rispetto alla precedente impostazione è evidente: se quella ritiene che le caratteristiche di una forma organizzativa accettino, in preda a una passione travolgente, di essere “sconvolte” sic et simpliciter dalle tecnologie, questa impostazione è convinta che la digitalizzazione conferisca nuova linfa alla vecchia organizzazione, al “primo amore”, rivitalizzandone competitività, efficienza, efficacia ecc.

Anche tale impostazione ovviamente presenta dei limiti: se si accetta il principio secondo il quale la tecnologia digitale amplifica i meccanismi di coordinamento prevalenti, dando nuove capacità e vigore a una forma organizzativa esistente (effetto doping), si finisce per assegnare riduttivamente alla digitalizzazione la responsabilità di “mantenere accesa la fiamma” senza avviare invece una riflessione su possibili cambiamenti da intraprendere magari anche rivoluzionari. Perché escludere insomma un “divorzio” da logiche organizzative erroneamente date per scontate? Perché non voler capire che a cambiare, verso una direzione nuova rischiosa e imprevedibile, devono essere proprio quel modo di fare impresa, quelle responsabilità della Pubblica Amministrazione, quel ruolo dei sindacati, a cui si era tanto affezionati?

Via col vento6. Organizzazione e tecnologie digitali: l’amore non è bello se non è litigarello

La terza prospettiva non ritiene che le tecnologie possano definire le forme organizzative, né che le preesistenti caratteristiche di queste ultime possano orientare lo sviluppo e l’adozione delle tecnologie, ma invece pone attenzione all’interazione (human-computer interaction theory) che in pratica si crea fra le tecnologie digitali adottate e le persone che lavorano in un’organizzazione. L’ipotesi guida è che se è vero che mediante le tecnologie digitali si possono condizionare e modificare i comportamenti umani, è anche vero che sono le persone a decidere come utilizzare le tecnologie, rafforzandone, modificandone o annullandone le potenziali funzionalità.

Alla base di questa impostazione si riconoscono la structuration theory di Giddens (1976; 1979; 1984); l’approccio della duality of technology di Orlikowski (1992; 2000) e la cosiddetta adaptive structuration theory, elaborata da Poole et al. (1985), di Poole e DeSanctis (1989; 1990), e di Poole et al. (1991).

Sviluppando le intuizioni ed i principi della human-computer interaction theory, l’“amore” fra tecnologie digitali e organizzazione non è più interpretabile come un “matrimonio stabile” ma va narrato invece come un “amore tumultuoso”, alla Via col vento, per almeno quattro motivi.

In primo luogo, le tecnologie digitali sono considerate il risultato dell’azione delle persone, in quanto ovviamente sono esse stesse degli artefatti, cioè prodotti materiali di programmatori, ingegneri, tecnici, manager, sviluppatori, hacker, e come tali riflettono le ipotesi e gli obiettivi dei loro progettisti e creatori. Allo stesso modo, le tecnologie digitali sono artefatti utilizzati dalle persone, le quali se ne appropriano e le adattano alle proprie esigenze, necessità, compiti. Solo mediante tale attivazione (enactment) le tecnologie assumono un significato, un valore e un ruolo nelle organizzazioni, proprio come avviene con il linguaggio: esso non esiste, non ha senso se non è utilizzato almeno da due persone. È la cossiddetta domestication (addomesticamento) delle tecnologie digitali (Hynes e Richardson, 2009).

In secondo luogo, le tecnologie digitali sono considerate come “mediatori” e facilitano o vincolano i processi di sense making, di decision making e di knowing delle persone. Infatti, la disponibilità e la qualità di informazioni (big data) che tali tecnologie possono assicurare, influenza enormemente il modo con cui le persone attivano il contesto in cui agiscono, il modo in cui decidono e in modo in cui apprendono. È importante chiarire che le tecnologie digitali di per sé, in quanto artefatti, non sono strutture sociali, né tanto meno incorporano strutture sociali: solo quando i dati, i principi e le regole di elaborazione (si pensi ai social media) sono utilizzati dalle persone allora essi sono attivati e condizionano il comportamento delle persone stesse. Pertanto, l’influenza delle tecnologie digitali non è diretta, se, come già detto, le persone si appropriano delle tecnologie e decidono di utilizzarle secondo modalità e criteri o per obiettivi diversi da quelli che sono stati immaginati dai progettisti o dagli ingegneri che le hanno realizzate. Le persone possono sbagliare a usare le tecnologie digitali, possono sabotarle, possono imparare a utilizzarle lentamente e con ritardi e resistenze, oppure possono ignorarle e non utilizzarle. Quindi, si può concludere che è il modo in cui sono utilizzate le tecnologie digitali, e non le tecnologie di per sé, che ridefinisce una forma organizzativa.

In terzo luogo, occorre specificare che l’interazione fra tecnologie digitali e comportamento non si sviluppa nel vuoto, ma all’interno di un preesistente e specifico contesto sociale composto da teorie dell’azione dichiarate e in uso, da strutture di potere, di norme e di significati condivisi. Ovviamente, a queste strutture si rifanno le persone anche quando si rappresentano, decidono e apprendono come utilizzare le tecnologie con cui interagiscono e da queste dunque sono influenzate.

In quarto luogo, quando le persone utilizzano le tecnologie digitali mettono in atto comportamenti che possono o rinforzare le strutture sociali del contesto, oppure metterle in discussione e modificarle. Il successo dell’inserimento di nuove tecnologie digitali è mediato dal contesto sociale in cui tali tecnologie sono adottate. In sostanza, le diverse organizzazioni scelgono come utilizzare la digitalizzazione per modificare le routine e le pratiche con cui svolgono i processi di sense making, decision making e knowing che compongono la teoria dell’azione in uso. In questa scelta sono evidentemente condizionate proprio da tali routine, pratiche e teorie in uso che rappresentano il contesto sociale collettivo che si è strutturato nel tempo, mediante la loro reciproca interazione.

Tale impostazione, in sostanza, si basa sul riconoscimento dell’esistenza di una interaction fra tecnologie digitali e persone (Caporarello et al., 2015; Martinez e Pezzillo, 2013; Martinez, 2004), sull’accettazione che la stessa tecnologia digitale da un lato si modifica nell’uso che ne fanno le persone e, dall’altro, condiziona, strutturandolo, il comportamento delle persone, dando così “forma” alla loro azione organizzata. Da un lato le tecnologie digitali creano nuove possibilità, ma dall’altro tali possibilità sono mediate da percezioni, decisioni e conoscenze che caratterizzano individualmente e collettivamente gli utilizzatori di tali tecnologie.

Dunque, in ogni singola organizzazione l’interazione fra persone e tecnologie digitali si sviluppa in modo diverso ed è una utopia immaginare che sia una interazione serena e senza tensioni o conflitti. Scriveva Tolstoj: «Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo»7.

Pertanto, risulta molto difficile prevedere quali risultati o effetti deriveranno dalla digitalizzazione di una impresa o di una Pubblica Amministrazione, in quanto l’impatto digitale è mediato dalle scelte e dai comportamenti più o meno consapevoli delle persone che le compongono e dalle procedure, regole e routine che fino a quel momento li hanno condizionati.

Conclusioni

Come affrontare dunque la relazione fra organizzazione e tecnologia “ai tempi del digitale”? Forse un suggerimento lo dà proprio Gabriel García Márquez: «Rispondigli di sì, anche se stai morendo di paura, anche se poi te ne pentirai, perché comunque te ne pentirai per tutta la vita se gli rispondi di no»8.

Riferimenti bibliografici

Caporarello L., Di Martino B., Martinez M. (2015). Smart Organizations and Smart Artifacts: Fostering Interaction Between People, Technologies and Processes. In: Caporarello L., Di Martino B., Martinez M. (eds.). Lecture Notes in Information Systems and Organisation, 7: 1-10. Heidelberg: Springer.

Cyert R.M., March J.G. (1963). A Behavioral Theory of The Firm. Englewood Cliffs (NJ): Prentice Hall.

Giddens A. (1976). New Rules of Sociological Method New York: Basic Books.

Giddens A. (1979). Central Problems in Social Theory: Action, Structure, and Contradiction in Social Analysis. Berkley: University of California Press.

Giddens A. (1984). The Constitution of Society: Outline of the Theory of Structuration. Berkley: University of California Press.

Hynes D., Richardson H. (2009) What Use is Domestication Theory to Information Systems Research? In: Dwivedi Y. et al. (2009). The Handbook of Research on Contemporary Theoretical Models in Information Systems. Miami: Ideas Publishing Group.

Leavitt H.J., Whisler T.L. (1958). “Management in the 1980s”, Harvard Business Review, vol. 36.

March J.G., Simon H.A. (1958), Organizations. Chichester (UK): John Wiley & Sons.

Martinez M., Pezzillo Iacono M. (2013). Dealing with Critical IS Research: Artifacts, Drifts Electronic Panopticon and Illusions of Empowerment. In: Baskerville R., De Marco M.; Spagnoletti P. (eds.). Designing Organisational Systems – An Interdisciplinary Discourse. Berlin-Heidelberg: Springer-Verlag, pp. 83-102.

Martinez M. (2004). Organizzazione, Informazioni e Tecnologie. Bologna: Il Mulino.

Orlikowski W.J. (1992). “The Duality of Technology: Rethinking the Concept of Technology in Organizations”, Organization Science, 3(3).

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Pfeffer J., Salancik G.R. (1978). The External Control of Organization. A Resource Dependence Perspectives. New York: Harper & Row.

Poole M.S., DeSanctis G. (1989). “Use of Group Decision Support Systems as an Appropriation Process”. Proceedings of the Hawaii International Conference on Information Systems, January.

Poole M.S., DeSanctis G. (1990). Understanding the Use of Group Decision Support Systems: The Theory of Adaptive Structuration. In: Fulk J., Steinfield C., (eds.). Organizations and Communication Technology. Newbury Park (CA): Sage.

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Poole M.S., Seibold D.R., McPhee R.D. (1985) “Group Decision Making as a Structuration Process”. Quarterly Journal of Speech, vol. 71, August.

Simon H.A. (1947). Administrative Behaviour. New York: Macmillan.

Thompson J.D. (1967). Organizations in Action. New York: McGraw-Hill.

Williamson O.E. (1979). “Transaction Cost Economics: The Governance of Contractual Relations”. Journal of Law and Economics, 22.

 

1 Le pagine della nostra vita (The Notebook) è un romanzo di Nicholas Sparks.

2 Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar named Desire) è un dramma di Tennessee Williams (1947).

3 Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera (1985).

4 Dirty Dancing-Balli proibiti (Dirty Dancing) è un film del 1987 diretto da Emile Ardolino.

5 Matrimonio all’italiana è un film del 1964 diretto da Vittorio De Sica. Il soggetto è la commedia teatrale Filumena Marturano di Eduardo De Filippo (1946).

6 Via col vento (Gone with the Wind) è un romanzo di Margaret Mitchell (1936), poi portato sullo schermo da Victor Fleming nel 1939.

7 Lev Tolstoj, Anna Karenina (1877).

8 Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, op. cit.

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