L’ospedale come organizzazione traslazionale: la ricerca clinica tra logica della cura e logica dell’innovazione

Nell’ottica della medicina traslazionale, i “research hospital” sono motori di innovazione che debbono rispondere ad un doppio ordine di aspettative: da un lato offrire servizi sanitari di eccellenza, dall’altro contribuire alla sostenibilità e alla competitività del sistema sanitario. Come far interagire costruttivamente queste due diverse logiche istituzionali nell’organizzazione ospedaliera?

Introduzione

I sistemi sanitari devono affrontare sfide sempre più difficili di sostenibilità e competitività (Hacker 2004). Da un lato, i costi stanno crescendo significativamente, ad esempio a causa dell’invecchiamento della popolazione; dall’altro, le aspettative dei cittadini richiedono crescenti livelli di qualità ed efficacia dei servizi di cura.

L’innovazione è l’unica strategia che può consentire di affrontare con successo queste sfide. È ormai chiaro che, per una continua ed efficace innovazione del sistema sanitario, la classica ricerca medica, basata sulla collaborazione tra cliniche universitarie e facoltà di medicina, è indispensabile ma non sufficiente. L’innovazione tecnologica sta dimostrando prepotentemente il suo potenziale anche in questo ambito, e le scuole di ingegneria e biotecnologia stanno guadagnando un posto importante nelle reti di innovazione dei sistemi sanitari, assieme alle case farmaceutiche e ai fornitori di soluzioni di information and communication technologies (ICT).

Proprio per questo, nell’ultimo decennio ha preso piede la cosiddetta “translational medicine”: un approccio interdisciplinare finalizzato a “tradurre” velocemente la ricerca di base in sperimentazione clinica, e la sperimentazione di successo in nuove pratiche sostenibili ed efficaci di prevenzione e cura (Woolf 2008). Nato in ambito anglosassone, questo approccio si è rapidamente sviluppato anche nel nostro contesto, e negli ultimi anni diverse università italiane hanno istituito dipartimenti dedicati alla medicina traslazionale.

Le implicazioni organizzative della medicina traslazionale sono molte e rilevanti, seppure ancora largamente inesplorate. Infatti, questo tipo di approccio mira ad eliminare i colli di bottiglia che rallentano o impediscono i processi di innovazione sia a livello orizzontale (cioè tra ambiti disciplinari complementari, come medicina e ingegneria) sia a livello verticale (cioè lungo i diversi passaggi che portano dalla ricerca di base ad una nuova pratica standard nell’ambito di un sistema sanitario). Chiaramente, i nuovi dipartimenti di medicina traslazionale possono essere molto efficaci per risolvere i colli di bottiglia orizzontali, cioè le divisioni tra discipline; ma per eliminare i colli di bottiglia verticali lungo la catena della ricerca (dal laboratorio, al letto del paziente, alla comunità) il research hospital, cioè il centro di ricerca clinica, ha un ruolo organizzativo insostituibile.

In questo nostro contributo, sviluppiamo alcune riflessioni sulle implicazioni dell’approccio traslazionale per l’organizzazione dei centri di ricerca clinica. A tal fine, facciamo riferimento ad un recentissimo articolo di Fiona A. Miller e Martin French, pubblicato dalla prestigiosa rivista internazionale Research Policy (Miller & French 2016).  In questo articolo, gli autori analizzano in profondità il caso di un research hospital canadese che, perseguendo esplicitamente una strategia basata sull’approccio traslazionale, ha creato al proprio interno un’unità organizzativa per il trasferimento tecnologico (Technology Transfer Office: TTO) finalizzata proprio a incentivare, abilitare e velocizzare la collaborazione interdisciplinare e l’innovazione in campo biomedico in un’ottica di sostenibilità economica.

Il caso è molto interessante perché mostra come l’attivazione di questa nuova unità organizzativa abbia reso esplicita la coesistenza di due logiche diverse e per molti versi opposte all’interno dell’istituzione ospedaliera: da un lato la tradizionale logica della cura, finalizzata essenzialmente al paziente, e dall’altro una nuova logica dell’innovazione, molto più imprenditoriale, finalizzata a contribuire alla sostenibilità e alla competitività del sistema sanitario.

L’articolo di Miller e French suggerisce che una costruttiva coesistenza di queste due logiche così diverse non è impossible, ma anche che i rischi legati alle tensioni organizzative generate dai conflitti interni e trasversali a queste logiche non devono essere sottovalutati. Come vedremo meglio nella parte conclusiva di questo contributo, la realtà del contesto italiano sembra avviata, pur con le sue specificità e contraddizioni, nella direzione dello scenario canadese tratteggiato da Miller e French: questo suggerisce di avviare una riflessione sulle problematiche organizzative inerenti il traferimento tecnologico anche nei centri di ricerca clinica italiani.

Logica della cura e logica dell’innovazione

Una logica istituzionale è un sistema di valori, pratiche, convinzioni, regole e aspettative socialmente costruite e condivise che guidano e rendono prevedibile il comporamento delle persone (Thornton & Ocasio 2008). Nelle realtà organizzative, spesso logiche istituzionali diverse o addirittura incompatibili si scontrano e influenzano a vicenda, modificando le traiettorie della vita organizzativa. L’incontro-scontro tra logica della cura e logica dell’innovazione nei centri di ricerca clinica è un interessante esempio di queste dinamiche.

La logica della cura è nativa del mondo della medicina e vede la ricerca come un’attività direttamente e specificamente finalizzata a migliorare le pratiche sanitarie. Perciò, in un’ottica di logica della cura, l’attività di ricerca si valuta sulla base dell’impatto concreto che tale attività ha in termini di salute del paziente e della popolazione. L’innovazione, secondo questa logica, significa principalmente innovazione delle modalità di erogazione del servizio, in modo da costruire il sistema attorno alle esigenze dell’utente finale. Di conseguenza, l’enfasi viene posta su modelli integrati di cura centrati sul paziente (Marchildon 2013).

La logica dell’innovazione, invece, nasce dai recenti cambiamenti in atto in ambito accademico riguardo al ruolo della ricerca. Negli ultimi anni, le aspettative sulla capacità delle istituzioni universitarie di tradurre le loro attività di ricerca in risultati commercializzabili sono enormemente aumentate, spinte da crescenti incentivi sia in termini economici che reputazionali. Questo ha portato ad un’esplosione di iniziative specifiche e spin-off universitari; il processo si è accompagnato ad un significativo cambiamento delle regole del gioco e della scala di valori in diversi settori disciplinari. In altre parole, una mentalità di tipo imprenditoriale si è diffusa nell’accademia, introducendo gradualmente l’idea che non basti pubblicare i risultati di una ricerca: bisogna tradurre le pubblicazioni in risultati tangibili, cioè in prodotti o servizi genuinamente innovativi che generino valore per una clientela (o utenza) privata e/o pubblica. Negli ultimi anni, questa logica dell’innovazione sta iniziando a filtrare dal mondo delle università al mondo delle cliniche universitarie, anche sulla spinta delle crescenti pressioni sulla sostenibilità economica dei sistemi sanitari. Di conseguenza, secondo la logica dell’innovazione, la ricerca clinica si valuta sulla base del contributo che porta alla sostenibilità e alla competitività del sistema sanitario (Mayer 2002). Ad esempio, l’articolo di Miller e French cita diversi documenti ufficiali del governo canadese che indicano l’innovazione del sistema sanitario come uno strumento di prosperità e sviluppo economico della nazione, in un’ottica imprenditoriale di competizione globale per l’eccellenza nei settori più profittevoli.

Appare dunque evidente che la logica della cura e la logica dell’innovazione sono divergenti sotto molti aspetti. Il conflitto tra queste due logiche emerge sia dalla letteratura che dai documenti ufficiali di governi e istituzioni sanitarie.

Tipicamente, la diffidenza verso la logica dell’innovazione si esprime attraverso la preoccupazione per i costi incontrollabili della tecnologia e lo scetticismo per i benefici che l’innovazione tecnologica è effettivamente in grado di portare. Inoltre, coloro che si riconoscono nella logica della cura a volte lamentano il fatto che conferire un ruolo troppo centrale all’innovazione tecnologica e all’imprenditorialità in campo sanitario porta ad un eccesso di specializzazione e ad un approccio centrato sulla malattia anziché sul paziente. Infine, l’eccessiva velocità e propensione al rischio della mentalità imprenditoriale appaiono incompatibili con l’estrema prudenza che, nell’interesse del paziente, deve caratterizzare la sperimentazione clinica.

La logica dell’innovazione ribatte a queste critiche osservando che la tradizionale logica della cura crea un fortissimo collo di bottiglia tra la ricerca di base e la sperimentazione clinica. In un mondo governato solo dalla logica della cura, un ricercatore che ha pubblicato i risultati di una promettente ricerca di base non ha forti incentivi ad affrontare gli sforzi e i rischi necessari a tentare di tradurre quei risultati in nuovi prodotti o servizi, cioè cambiamenti concreti della pratica clinica. Inoltre, per superare tutti gli ostacoli che si frappongono all’innovazione, le competenze tradizionali del medico-ricercatore non bastano: occorrono anche specifiche capacità imprenditoriali per perseguire la sostenibilità economica e la commercializzazione della nuova soluzione. Da questo punto di vista, le resistenze dell’organizzazione ospedaliera alla logica dell’innovazione sono viste come analoghe alle resistenze che, alcuni anni prima, il mondo accademico ha opposto all’idea di concepire la ricerca come direttamente investita della responsabilità di contribuire alla prosperità economica.

Il caso: un research hospital in Canada

Miller & French (2016) sviluppano la loro analisi a partire dal caso di un research hospital canadese in cui l’approccio traslazionale è stato esplicitamente adottato nelle strategie istituzionali fin dai primi anni dopo il 2000. In quest’ottica, l’ospedale oggetto di studio ha creato un proprio TTO interno, per rendersi indipendente dalle capacità di trasferimento tecnologico della propria università partner, e per sviluppare capacità proprie di attrazione di talenti, sviluppo di specifici contratti, protezione della proprietà intellettuale, relazioni con le aziende del settore, sviluppo commerciale, marketing, e assistenza allo sviluppo di spin-off. Questa trasformazione organizzativa ha reso l’istituzione, secondo la definzione di Miller e French, un “ospedale imprenditoriale”, cioè un ospedale per il quale la popolazione di pazienti e l’infrastruttura di cura costituiscono delle risorse specifiche per abilitare inziative di tipo imprenditoriale.

Per esaminare questo caso, gli autori conducono un’analisi qualitativa basata sui documenti organizzativi prodotti nel periodo 1995-2015 e su numerose interviste condotte nel periodo 2008-2009.

I risultati confermano che il caso in esame può essere visto come un’esperienza positiva di ibridazione tra logica della cura e logica dell’innovazione, in cui la commercializzazione e il trasferimento tecnologico vengono utilizzati come leva che migliora anche le capacità di rispettare il mandato di cura dell’ospedale.

Coerentemente con l’approccio della medicina traslazionale, gli intervistati e i documenti ufficiali identificano due principali “translational gap” da colmare: il primo è quello che separa la ricerca di base dalla sperimentazione clinica, e il secondo è quello che separa la sperimentazione clinica dall’implementazione e adozione di nuove pratiche migliori delle precedenti. Le fonti dell’ospedale oggetto di studio sembrano concordi nel ritenere che la loro organizzazione sia ormai in grado di affrontare in modo soddisfacente il secondo gap (dalla sperimentazione alla messa a punto di nuove pratiche tramite nuovi prodotti e/o servizi), mentre il cambiamento organizzativo per colmare il primo gap (dal laboratorio alla sperimentazione clinica) è percepito come ancora in fieri. La collaborazione con aziende esterne è vista positivamente come un elemento in grado di fornire le competenze e l’approccio commerciale necessario. L’ospedale, e in particolare il TTO, hanno prodotto numerosi spin-off di successo che offrono prodotti e servizi che migliorano la reputazione imprenditoriale dell’ospedale ma anche i suoi risultati in termini di eccellenza della cura.

Traiettorie di ibridazione nell’organizzazione traslazionale: opportunità e rischi

Nonostante l’approccio traslazionale vi sia stato adottato ormai da diversi anni, nell’ospedale oggetto di studio l’ibridazione tra logica della cura e logica dell’innovazione è oggetto di complesse dinamiche di negoziazione tuttora in corso all’interno dell’organizzazione. Gli autori, analizzando le interviste e i documenti organizzativi, identificano cinque interpretazioni di questa ibridazione che si intrecciano tra di loro, influenzandosi reciprocamente:

  1. L’impegno nel trasferimento tecnologico è al servizio dei pazienti dell’ospedale.
    Secondo questo punto di vista, la missione di cura dell’ospedale distingue chiaramente questa istituzione dalle università. Perciò, la cultura della ricerca all’interno dell’ospedale ha come propria stella polare il concreto miglioramento della salute dei pazienti. Questo si traduce nell’attenzione non solo allo sviluppo di innovazione in quanto tale, ma anche, e ancora di più, nell’adozione delle migliori innovazioni per fornire le migliori cure possibili. L’organizzazione traslazionale, in quest’ottica, deve produrre performance di sistema ottimali, rispondendo in modo robusto anche ai bisogni di cura più fragili o disattesi, pur in un quadro di risorse scarse.
  2. L’impegno nel trasferimento tecnologico serve a fare dell’ospedale un acquirente/utente consapevole di innovazioni nel campo biomedico.
    Secondo questo punto di vista, il fatto di avere un’unità TTO interna consente all’organizzazione ospedaliera di avere competenze aggiornate e approfondite sulle opportunità, i rischi e le prospettive dell’innovazione in campo biomedico. Questo permette all’ospedale non solo di essere un utilizzatore avanzato e consapevole delle innovazioni lanciate dal TTO interno, ma anche di essere un acquirente consapevole di soluzioni dall’esterno, in grado di valutare e comparare con cognizione di causa le innovazioni in campo biomedico che appaiono sul mercato globale. Queste capacità si traducono in capacità di cura più efficaci e ottimizzate, anche dal punto di vista economico.
  3. L’impegno nel trasferimento tecnologico agisce come una forza che incentiva un cambiamento organizzativo auspicabile e positivo.
    Secondo questo punto di vista, l’aver sviluppato un’unità organizzativa specificamente dedicata al trasferimento tecnologico ha modificato il sistema di incentivi reputazionali e di carriera dell’ospedale, creando un forte impulso a superare i problemi e le inerzie che ostacolano il passaggio dalla ricerca di base all’applicazione pratica. Inoltre, questo meccanismo viene percepito come una best practice e come un modo per attrarre talenti nell’organizzazione. In un mondo che valorizza sempre di più la capacità di tradurre la ricerca in risultati concreti, un ospedale privo di un TTO e di un chiaro impegno nella medicina traslazionale rischerebbe di perdere o di non riuscire ad attirare i migliori ricercatori e manager.
  4. L’impegno nel trasferimento tecnologico agisce come una forza che incentiva un cambiamento criticabile e pericoloso.
    Secondo questo punto di vista, l’attività di ricerca va tenuta ben distinta dalle attività commerciali. A causa della loro capacità di produrre reddito, infatti, le attività commerciali sono in grado di prevaricare sulle attività di ricerca finalizzata alla cura, che per loro natura consumano risorse anziché generarle. L’unità TTO interna elimina la barriera tra questi due mondi e quindi viene vista come un elemento pericoloso, che rischia di snaturare la missione dell’ospedale e della ricerca clinica. Inoltre, l’impegno nel trasferimento tecnologico può provocare differenze tra settori di ricerca e attività ospedaliera che riescono ad allinearsi con le attività di innovazione, e settori di attività e ricerca che invece restano più distanti dai processi di innovazione. Questo disallineamento rischia di peggiorare il coordinamento e l’integrazione complessiva dell’organizzazione, e per le aree dell’organizzazione meno coinvolte, l’impegno nel trasferimento tecnologico rischia di rimanere sterile. Infine, viene evidenziato il rischio che l’impegno nel trasferimento tecnologico sia solo una facciata o un diversivo: in altre parole, un effetto della moda del momento, che può far guadagnare prestigio ad alcuni singoli, ma non contribuisce veramente ai risultati dell’organizzazione.
  5. Il trasferimento tecnologico agisce come una forza di trasformazione organizzativa che assorbe molte risorse.
    Secondo questo punto di vista, occorre accettare che, almeno per i primi anni, il TTO lavori in perdita. Non bisogna vedere il TTO tanto come una fonte di guadagni aggiuntivi, quanto come un veicolo per sviluppare investimenti, i cui ritorni, di natura materiale e immateriale, possono arrivare anche diverso tempo dopo. Bisogna mantenere il focus sul progresso scientifico e tecnologico e sul beneficio dei pazienti: il ritorno economico verrà di conseguenza.

Gli autori concludono che il caso in esame può essere visto come un esempio complessivamente virtuoso di ibridazione tra logica della cura e logica dell’innovazione. L’interpetazione più diffusa del ruolo organizzativo del TTO nell’ospedale oggetto di studio è di tipo ottimistico: i documenti e le interviste convergono quasi sempre nell’esprimere l’orgoglio per l’identità innovativa dell’ospedale, che consente all’organizzazione di essere parte di un progetto più grande di eccellenza clinica, prosperità economica e sostenibilità di lungo termine del sistema sanitario.

Questo studio conferma che l’ibridazione tra diverse logiche istituzionali è un processo dinamico, in cui le tensioni tra logiche potenzialmente complementari ma anche in contraddizione o competizione tra loro non possono mai essere considerate risolte una volta per tutte. Infatti, nell’ospedale oggetto dello studio la negoziazione e la discussione sul significato e le modalità dell’ibridazione sono ancora in corso, dopo quasi vent’anni. Questo dinamismo basato su tensioni tra diverse logiche istituzionali può essere una forza positiva, che tiene lontana l’inerzia e (ri)abilita l’adattamento e l’agilità dell’organizzazione. D’altro canto, questo tipo di traiettoria positiva dipende da fattori complessi e altamente contingenti, come i valori delle persone coinvolte, la normativa, la mentalità e i valori del contesto regionale, le reti di interazione, discussione e sense-making, gli stili di leadership, eccetera. Per questo, avvertono gli autori, il successo del processo di ibridazione non può essere dato per scontato. La traiettoria di ibridazione può avvitarsi in un circolo vizioso, con effetti, dicono gli autori, “mostruosi”, cioè con la perdita del contatto con la stessa ragion d’essere dell’organizzazione.

Conclusioni

L’articolo di Miller e French qui presentato offre diversi spunti di riflessione per il contesto italiano. Anche in Italia sta emergendo un approccio alla ricerca e all’innovazione simile a quello sopra delineato, basato sulla valorizzazione della velocità e dell’efficacia del passaggio dal laboratorio, alla sperimentazione, alla pratica. È in corso una discussione per adeguare il quadro normativo all’esigenza di creare unità organizzative sistematicamente ed efficacemente dedicate al trasferimento tecnologico.  La normativa attualmente in vigore (D.Lgs 30/2005) stabilisce che il ricercatore è titolare esclusivo dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile di cui è autore. Una volta ottenuto il brevetto, la proprietà intellettuale è del singolo ricercatore, che dovrà poi girare una parte delle royalty (inferiore al 50%) al proprio ente di appartenenza. Negli ultimi anni però, anche con il supporto dell’Associazione NETVAL, che è formata da 56 università italiane e 6 Enti Pubblici di Ricerca non universitari, si è avviata una discussione per introdurre una nuova normativa basata su tre principi: il brevetto è di proprietà dell’ente di ricerca; il ricercatore che ha il merito della scoperta riceve un compenso economico; l’ente di ricerca deve reinvestire il denaro della propria parte di royalty per finanziare ulteriori progetti di ricerca. L’intento dichiarato degli estensori della proposta è favorire lo sviluppo di un ecosistema dell’innovazione che abiliti una maggiore sistematicità, efficienza ed efficacia dei processi che portano dalla ricerca di base all’innovazione delle pratiche. Tuttavia, per quanto già discussa in Parlamento, questa proposta non è ancora stata tradotta in legge. Possiamo quindi dire che, rispetto al caso descritto nel paper di Miller e French, il contesto italiano si trova ad uno stadio antecedente, in cui il quadro normativo e culturale è ancora in evoluzione verso un ecosistema più favorevole ad un approccio tralsazionale alla ricerca clinica. L’articolo di Miller e French è dunque uno stimolo alla discussione sul nesso dinamico tra le soluzioni organizzative ed il quadro normativo nello sviluppo della medicina traslazionale.

Studiare e comparare le prime esperienze sperimentali di organizzazioni traslazionali in Italia, ed il loro contributo alla sostenibilità e competitività del nostro sistema sanitario, appare come un obiettivo di grande interesse; tuttavia, per comprendere queste esperienze, occorrerà tenere conto dell’importante ruolo dei “lavori in corso” nel nostro specifico ambiente istituzionale, che è meno maturo di quello canadese nell’assegnare alla ricerca il suo ruolo nella società.

Bibliografia

Hacker, J.S., 2004. Dismantling the health care state? Political institutions, public policies and the comparative politics of health reform. British Journal of Political Science, 34(4), pp.693–724.

Marchildon, G.P., 2013. Health Systems in Transition, Toronto: University of Toronto Press.

Mayer, A., 2002. Roundtable on Canada’s Knowledge Economy: New Models for Health Innovation. Chateau Cartier Report.

Miller, F.A. & French, M., 2016. Organizing the entrepreneurial hospital: Hybridizing the logics of healthcare and innovation. Research Policy, 45(8), pp.1534–1544.

Thornton, P. & Ocasio, W., 2008. Institutional Logics. In The Sage Handbook of Organizational Institutionalism. pp. 99–129.

Woolf, S.H., 2008. The meaning of translational research and why it matters. Journal of American Medical Association, 299, pp.211–213.

 

Autori

+ articoli

_

+ articoli

_

Ultimi articoli