“Ritorno al futuro” Storie di organizzazioni visionarie e del loro successo

Il presente articolo, descrivendo il modello di articolazione della vision di Collins e Porras, vuole fare chiarezza sul rapporto esistente tra vision, mission e valori organizzativi. Attraverso le esperienze di aziende di fama internazionale, inoltre, la vision viene identificata come una variabile critica per ottenere un successo durevole nel tempo.

Catapultato nel 1955 a causa di un malfunzionamento della “Delorean”, la macchina del tempo costruita dal suo amico scienziato Doc Brown, Marty si accorge di non avere più carburante per ritornare al 1985, anno da cui proviene. Forte della convinzione diffusa nel 1955 secondo cui il Giappone non fosse in grado di fabbricare buoni prodotti, Doc non si meraviglia di leggere sul componente responsabile dei problemi della Delorean la dicitura “Made in Japan”, affermando: “Ecco perché non ha funzionato, c’è scritto Made in Japan”. È piuttosto la risposta di Marty a lasciarlo di stucco: “E che vuol dire Doc? Tutta la roba migliore è prodotta in Giappone!”.

A differenza del Marty del 1985, infatti, “il Doc del 1955” non sa che nel successivo trentennio aziende come la Sony sarebbero diventate sinonimo di qualità, ribaltando la percezione comune della gente circa i prodotti giapponesi.

La sfiducia che nutrivano negli anni cinquanta gli americani e buona parte dei cittadini occidentali verso i prodotti nipponici, non era infatti propria dei giapponesi: alla Sony già nel 1950 affermavano orgogliosamente, nitidamente, audacemente e vividamente “diventeremo la compagnia più conosciuta per aver cambiato l’immagine di scarsa qualità che ha il mondo nei confronti dei prodotti giapponesi… Tra 50 anni il nostro nome sarà conosciuto in tutto il mondo e sarà indice di qualità ed innovazione e sarà superiore alle più grandi aziende innovatrici… Made in Japan sarà un marchio di grande prestigio…”.

Ma quanto è stata importante questa convinzione riguardo al futuro per costruire il successo della Sony? Secondo Collins e Porras moltissimo.

Similmente allo scienziato protagonista della celebre trilogia di Zemeckis, “Back to the Future”, Collins e Porras sono “ritornati nel passato”  mediante uno studio della durata di oltre sei anni, per spiegare cos’è la vision e dimostrare come essa possa condurre le aziende ad un successo durevole nel tempo.

Ritornando nel passato di organizzazioni di successo di diversi settori, attraverso l’esame delle vecchie delibere dei CDA, i ricercatori hanno confrontato le vision, ovvero le dichiarazioni sul futuro delle aziende fatte dai rispettivi fondatori e dirigenti, con le scelte strategiche realmente operate dagli stessi. Per gli autori, infatti, le Organizzazioni Visionarie sono quelle che pongono in essere azioni realmente coerenti rispetto alla vision dichiarata.

Ed è così che Collins e Porras, prima nel loro best-seller “Built to Last” (tradotto in 37 lingue, ma non in italiano) e in seguito nell’articolo “Building your company’s vision”, pubblicato su Harward Business Review, hanno potuto dimostrare come aziende giapponesi (Sony, Honda) e non solo (HP, Disney, 3M, IBM, Boeing, Ford, General Electric ecc.) avevano raggiunto e mantenuto nel tempo un successo basato sulla coerenza tra le decisioni intraprese e la vision dichiarata in passato.

Ma cos’è per Collins e Porras la vision?

Gli autori presentano un’accezione decisamente ampia del concetto di vision, includendovi non solo il futuro previsto dall’organizzazione, ma anche la relativa ideologia di fondo.

Ricorrendo ad un modello simile allo “yin e yang”, essi descrivono la vision come la sintesi di due elementi inscindibili e reciprocamente determinanti. Da un lato, il futuro immaginato (envisioned future) descrive in modo chiaro e tangibile la direzione che l’azienda intende seguire ed i traguardi che desidera raggiungere. In esso confluiscono i cosidetti BHAGs (Big, Hairy, Audacious Goals), obiettivi particolarmente ambiziosi e lungimiranti (10-30 anni per gli autori), assieme ad una descrizione degli stessi capace di farli percepire come vividi e realmente raggiungibili.

Per meglio comprendere cosa l’organizzazione desidera realizzare in futuro, è poi necessario conoscere la sua essenza, ciò che essa realmente è per sua natura. Per Collins e Porras la core ideology, comprende il fine ultimo dell’azienda, lo scopo di base o ragion d’essere (il core purpose, per Collins e Porras, mission per altri autori), nonché i principi che da sempre ne ispirano l’azione (i core values).

Attraverso una simile lente, la vision è vista come un concetto ampio, omnicomprensivo, capace di racchiudere e riequilibrare elementi differenti e spesso confusi tra loro quali la mission (o core purpose) ed i valori aziendali. Proprio per questo, gli stessi autori sottolineano come la vision sia uno dei concetti più abusati e probabilmente meno compresi nelle organizzazioni.

Avere un’idea nitida del futuro da perseguire implica, infatti, per l’azienda una riflessione profonda circa la propria essenza, ovvero rispondere alle tre questioni di fondo dell’azione organizzativa:

A) Che cosa vogliamo realizzare?

B) Perché lo vogliamo fare?

C) Come intendiamo farlo?

La prima domanda (A) identifica il futuro immaginato, fatto di obiettivi piuttosto ambiziosi e lontani nel tempo ma anche di descrizioni precise e dettagliate di ciò che si intende realizzare. Gli esempi che portano Collins e Porras di organizzazioni allo stesso tempo visionarie e di successo sono molteplici.

La Boeing, ad esempio, già nel 1950, immaginava di divenire leader nell’aviazione commerciale e di condurre il mondo all’“età del jet”. Mezzo secolo prima Ford aveva chiaro in mente di voler democratizzare l’automobile. Altri, come Nike, Honda e Philip Morris, dichiararono meno idealisticamente che il loro primo obiettivo era quello di battere i diretti concorrenti per la leadership del proprio settore (rispettivamente Adidas, Yamaha e RJR). In altri casi, invece, la vera sfida era rappresentata dal cambiamento interno: General Electric, ad esempio, per divenire leader in ogni settore servito, intendeva combinare la forza della grande azienda con la flessibilità e agilità della piccola. La società di automazione Rockwell, invece, da azienda operante nel solo settore della difesa qual era, intendeva divenire una realtà altamente tecnologica capace di diversificare in modo più efficace di tutti gli altri al mondo.

La risposta alla prima questione (A), tuttavia, assume particolare significato se si conosce la ragion d’essere dell’organizzazione: la sua mission (o core purpose) (B). Quest’ultima, per Collins e Porras rimane valida per almeno 100 anni e dovrebbe ispirare le persone in azienda, motivando ciascuno ad impegnarsi per un fine che trascenda il mero profitto. Molteplici esempi sono stati riportati dagli autori anche per questa componente: la mission di Disney è rendere le persone felici; per 3M è fondamentale risolvere problemi irrisolti in modo innovativo; per HP dare un contributo tecnico per il progresso ed il benessere dell’umanità; per Wal-Mart consentire a gente ordinaria di acquistare le stesse cose dei ricchi e per l’azienda farmaceutica Merck preservare e migliorare la vita umana.

Le modalità secondo le quali, nel rispetto della propria missione, l’organizzazione intende perseguire la vision, rappresentano invece la risposta alla terza domanda di fondo (C): quei pochi (solitamente non più di cinque) principi di base che guidano l’organizzazione verso la realizzazione del futuro immaginato. All’interno del campione di aziende studiate da Collins e Porras, tra i core values di Disney, compaiono la creatività, l’immaginazione, la capacità di sognare ma anche l’attenzione ai dettagli ed il desiderio di promuovere i valori americani in genere. Per Merck, invece, sono la responsabilità sociale d’impresa, l’onestà ed integrità, l’innovazione scientifica e l’eccellenza i principi durevoli dell’organizzazione. Per Philip Morris il diritto alla libertà di scelta, e la vittoria in una sana competizione con gli altri. Alla base dell’operato della catena Nordstrom, infine, vi è la volontà di mettere il servizio al cliente sopra a tutto il resto, il duro lavoro, il non accontentarsi mai, l’eccellenza nella reputazione ed il sentirsi parte di qualcosa di speciale.

NiccoliniFerranti

 

Fig. 1 – Anatomia della Vision secondo Collins e Porras

Fonte: Rielaborazione da Collins e Porras, 1996, p.67

Come anticipato, il modello proposto da Collins e Porras descrive la vision come un costrutto teorico di cui valori e scopo di base (mission) rappresentano componenti essenziali al pari del futuro immaginato.

Nell’intento di chiarire la relazione reciproca esistente tra tali elementi, gli autori si soffermano proprio sul caso Sony.

Per il suo fondatore, Masaru Ibuka, l’ideologia di base di Sony era quella di andare incontro alle sfide di natura tecnica, e di farlo con prodotti altamente sofisticati ma anche di grande utilità per l’intera società. Ciò, a prescindere dai volumi produttivi sviluppati e garantendo a collaboratori dotati di grandi abilità di poter dare il proprio meglio all’interno dell’azienda. Il core purpose di Sony era quello di sperimentare la pura gioia dell’innovazione e l’applicazione della tecnologia a beneficio e del pubblico in generale. Tra i principi cardine alla base di tale missione vi erano l’innovazione, il desiderio di elevare la cultura e il prestigio del Giappone, la creatività e la valorizzazione delle abilità individuali. Tutto questo avrebbe consentito a Sony di raggiungere quello che, come osservato nell’introduzione, sembrava una sorta di “mission impossibile” per molti: rendere il “Made in Japan” un esempio di qualità. Ciò significava produrre e diffondere prodotti capaci di portare innovazione e qualità in settori in cui altre aziende, soprattutto statunitensi, avevano fallito in precedenza (es. radio a transistor).

Dall’esempio appena citato, è evidente la forte relazione esistente tra le differenti componenti della vision. È chiaro, infatti, come un’osservazione “atomistica” di ognuna di tali componenti, non tenendo conto della loro influenza reciproca, comporti una comprensione parziale o addirittura distorta del significato loro attribuito da chi, invece, adotta una visione sistemica degli stessi concetti.

Nonostante ciò, pare altrettanto innegabile la diversa natura delle componenti della vision nel modello osservato. La core ideology rappresenta la parte durevole della vision e dell’organizzazione intera: racchiudendo il fine ultimo dall’azienda e i relativi principi cardine, essa costituisce quel collante che tiene unita l’organizzazione e spiega perché questa esiste e come vuole agire per conseguire i propri obiettivi. Decisamente differente è invece la natura di scelte strategiche, politiche e procedure adottate dall’azienda. Queste, infatti, necessitano di adattamenti continui alle condizioni interne ed esterne all’organizzazione e possono tradursi in visioni progressivamente più ambiziose ma sempre in armonia con l’identità aziendale. Per gli stessi autori, infatti, tra le attività critiche per manager vi è il riconoscere i punti fermi dell’organizzazione e le variabili che invece devono necessariamente essere considerate dipendenti rispetto ad altri elementi contingenti.

Implicazioni manageriali

Le possibili implicazioni per manager e imprenditori derivanti dal framework di Collins e Porras sono senza dubbio molteplici.

La stessa scelta di schematizzare il concetto, consente una migliore comprensione della vision e delle rispettive componenti essenziali. Ponendo di volta in volta il focus su ciascuna di queste ultime, i manager possono intraprendere azioni specifiche, migliorando i rispettivi livelli di chiarezza, coerenza reciproca ed efficacia, con l’obiettivo di accrescere il grado di comprensione della vision nella sua interezza e la rispettiva condivisione da parte degli altri membri dell’organizzazione.

Un modello simile è, inoltre, certamente apprezzabile per quelle aziende che non hanno ancora una vision esplicita e che potrebbero individuare nello stesso una base per avviare un percorso di envisioning che si riveli efficace e coerente rispetto all’identità dell’organizzazione.

Le note e performanti aziende citate da Collins e Porras, inoltre, evidenziano l’importanza potenziale della vision anche rispetto alla performance dell’organizzazione. Avere un’immagine nitida di un futuro audace, ma realisticamente raggiungibile, infatti, può rappresentare per l’azienda una bussola da seguire costantemente. Anche di fronte alle sfide che quotidianamente gettano incertezza sulla direzione intrapresa dall’azienda e sulle politiche attuate dai rispettivi manager, la vision può consentire di costruire un successo durevole nel tempo, perché fondato su basi solide.

Pur considerando la vision una variabile critica per il successo aziendale, manager e imprenditori non possono commettere l’errore di osservare nella stessa un mero strumento di cui dotarsi per ottenere performance migliori. Avere chiara l’immagine del futuro da realizzare, è solo un passo del difficile e continuo cammino verso la creazione di un’organizzazione realmente visionaria (che è ben più rispetto ad un’organizzazione con una vision).

Oltre che chiara, infatti, l’immagine del futuro deve risultare anche condivisa, rappresentando il punto focale ed unificante degli sforzi di tutti i membri dell’organizzazione. Non è sufficiente un mero conformismo; è necessario che ognuno si senta realmente responsabile rispetto alla realizzazione della vision dell’azienda. È compito dei manager, dunque, coinvolgere gli individui ai vari livelli dell’organizzazione e selezionare i nuovi entranti anche in base al grado di persuasione rispetto alla vision.

Come suggeriscono Collins e Porras, infine, un ulteriore step verso la creazione di organizzazioni visionarie riguarda il raggiungimento di un adeguato livello di coerenza interna. Per quanto persuasive e stimolanti, non sarebbero certo state sufficienti le parole di Ibuka e colleghi per portare le aziende semisconosciute di allora a divenire le organizzazioni multinazionali di oggi. Per giungere a simili risultati, oltre a comunicare con efficacia e persuasività la vision, è necessario riaffermare nei fatti l’importanza della stessa mantenendo una certa armonia tra le sue diverse componenti e le altre variabili, procedure, sistemi e scelte strategiche operate quotidianamente.

È proprio partendo da una simile consapevolezza che gli autori hanno tratto l’idea di “andare indietro nel tempo” alla ricerca di eventuali incoerenze e scostamenti tra le visioni dichiarate e le direzioni effettivamente intraprese dalle aziende esaminate. Il mantenimento di un elevato grado di allineamento organizzativo negli anni ha rappresentato un elemento distintivo delle organizzazioni realmente visionarie osservate.

Spunti di riflessione

Alla luce di quanto detto sinora, alcuni dubbi sembrerebbero comunque rimanere rispetto al modello di vision descritto da Collins e Porras e al come lo stesso possa essere efficacemente applicato alle differenti realtà aziendali esistenti.

Anzitutto sembra utile chiedersi se e come veramente nelle aziende si usa il termine vision nell’accezione offerta dai due autori. Come sottolineano Collins e Porras, infatti, troppo spesso nella pratica manageriale esso viene usato in modo improprio e confuso con altri concetti che, seppur legati da una relazione sinergica, in fondo rappresentano elementi distinti e dotati di un diverso significato. Tale confusione concettuale potrebbe essere addirittura alimentata da quei manager che, ispirandosi in modo superficiale ad un modello in cui la mission è parte integrante della vision, rischiano di sottovalutare le profonde differenze esistenti tra simili variabili, nonostante le chiare raccomandazioni fatte dagli autori.

Inoltre, vale la pena chiedersi se l’accezione ampia della vision insita nel framework di Collins e Porras sia o meno l’unica modalità di lettura di tale variabile organizzativa.

La differente natura delle componenti della vision, sembrerebbe suggerire una differente modalità di concezione di tale variabile organizzativa.

Peter Senge, ad esempio, nel suo altrettanto celebre best-seller, “La Quinta Disciplina”, sembra dare un’accezione più ristretta al concetto di vision, restringendolo a quello di futuro immaginato e separandolo da quelli di relativi al fine ed ai valori di base dell’organizzazione.

Anche prendendo spunto da altri contributi (sebbene non ve ne siano molti, specie nella letteratura italiana), potrebbe quindi essere utile ricercare ulteriori prospettive e modelli teorici, capaci di mostrare una differente accezione della vision e delle variabili organizzative ad essa collegate.

Al di là delle possibili differenti modalità di osservazione e descrizione della vision, ciò che sembra davvero significativo dello studio di Collins e Porras è la dimostrazione dell’importanza ricoperta dalla vision nella costruzione di un successo durevole nel tempo.

In conclusione, come nel secondo episodio della trilogia di Zemeckis, analogamente a Doc Brown, ogni manager dovrebbe costruirsi la propria macchina del tempo, proiettare l’organizzazione nel futuro e descrivere agli altri i traguardi che attendono l’azienda, spronando ciascuno a credere negli stessi e ad impegnarsi concretamente per la realizzazione del futuro immaginato.

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