Smart è l’organizzazione, non il lavoro

Premessa

La prima e la seconda rivoluzione industriale hanno profondamente modificato la forma e l’organizzazione dello spazio e del tempo. Parlando di spazio ci riferiamo sia alla “distanza” che i mezzi di trasporto di cose, persone, energia e informazioni hanno ridotto, sia al “luogo”, che è dove è la vita lavorativa e sociale delle persone si svolge. Anche la rivoluzione agricola, circa 6000 anni fa, generò trasformazioni di questa natura. Abilitati da una nuova tecnologia della comunicazione dell’informazione, la scrittura, passammo allora dalla preistoria alla storia.

La terza rivoluzione industriale è caratterizzata sia dal perfezionamento dell’approccio scientifico novecentesco al management (Taylor) sia dalle tecnologie dell’informazione e dell’automazione flessibile.

Il taylorismo, nella prima metà del secolo dell’automobile, lo consideriamo “fordista”, cioè volto ad acquisire capacità “statiche” (efficienza operativa, scala).

Nella seconda metà del secolo dell’automobile, l’approccio scientifico taylorista approda, attraverso l’esperienza dell’impresa giapponese, al “toyotismo” che è volto a perseguire capacità “dinamiche” (miglioramento, adattamento, elasticità, flessibilità, scopo).

Ci tengo a precisare, come ho fatto in altre occasioni, che il taylorismo non è morto ma, come approccio scientifico al lavoro, ha esteso il campo di applicazione al lavoro di miglioramento dei processi e di innovazione (1).

La differenza tra il modello occidentale e quello giapponese di impresa fu stilizzata dall’economista Aoki Masahiko, all’inizio degli anni ’90 (2). Il pensiero di Aoki si muoveva nel quadro teorico dell’economia dell’informazione e della teoria dell’impresa, evidenziando gli aspetti organizzativi di un funzionamento “alla giapponese” dell’impresa e dei processi di collaborazione e condivisione delle informazioni (3).

Di quegli anni era anche lo sforzo di Nonaka e Takeuchi di proporre un approccio giapponese alla gestione della conoscenza nello sviluppo di nuovi prodotti, dove la conoscenza, tacita o esplicita, si sviluppa e fluisce in team organizzati e predisposti per la collaborazione, guidati da obiettivi “sfumati” e qualitativi più che precisi e misurabili (4).

Riceviamo quindi dal Giappone due modelli stilizzati i cui capisaldi credo possano ancora essere utili per indentificare, come cercheremo di fare, una smart organization e, di conseguenza, un possibile smart working.

Se il fordismo è un fenomeno della seconda rivoluzione industriale orientato ai benefici della produzione di massa, il toyotismo, che si traduce nel lean thinking, fa già parte della terza. Le tecnologie abilitanti della terza rivoluzione hanno inciso ancora una volta sull’organizzazione dello spazio e del tempo. Ad esempio, attraverso la diminuzione dei costi di transazione, nella riconfigurazione delle catene di fornitura sia in termini di dimensioni e localizzazioni ottimali delle imprese, sia di integrazione verticale, sia di ridistribuzione della produzione del valore e dei poteri contrattuali e, di conseguenza, dei profitti, dei rischi, delle conoscenze. Con un effetto anche sui mercati del lavoro.

La quarta rivoluzione industriale, che si annuncia come già in corso, potrebbe essere particolarmente distruttiva degli attuali modelli di organizzazione dello spazio e del tempo. Se questo appare ancora poco dall’osservazione della manifattura che, nella “smart factory”, diventa 4.0, si nota invece in maniera evidentissima nei servizi dove, anche per la disponibilità condivisa di mega piattaforme abilitanti stabili, si disarticola il concetto stesso di lavoro organizzato nello spazio e nel tempo, in una miriade di piccole attività agili, temporanee e frazionali. Nella singola impresa e nell’”impresa estesa” (che comprende forme contrattuali e di partnership nuove) e a tutti i livelli di complessità del lavoro, dalle attività di sviluppo tecnologico, a quelle manageriali, fino ai lavori operativi di bassa specializzazione che divengono “lavoretti”, in cui ciascun individuo lavora in modo indipendente dall’altro, in completa solitudine e connesso immediatamente (cioè senza niente in mezzo) al cliente da una piattaforma automatizzata.

Una quarta rivoluzione industriale caratterizzata dall’eccezionale grado di concentrazione di servizi, da infrastrutture automatizzate (“As a Service”), grandi e stabili (ad esempio Uber) e dal polverizzarsi di agili e transitorie attività non automatizzate, in forma di progetti (ad esempio lo sviluppo di un’”app” per la consegna delle pizze da parte di un “developer”) o frammenti elementari di processi da svolgere sul campo (ad esempio la consegna di una pizza da parte di un “rider”).

Il tema della mobilità delle cose, delle persone e delle informazioni, cruciale per definire come rivoluzionarie le prime tre rivoluzioni industriali (come anche la rivoluzione agricola di 6000 anni fa), è presente anche nella quarta. Con la possibilità tecnica di forme più spinte di ubiquità, telepresenza e accessibilità e con la possibilità di rendere il tempo e lo spazio più finemente granulari. Non solo ai fini di una maggiore produttività (outcome dell’utilizzo di una certa porzione di tempo e di luogo) ma anche a vantaggio di una maggiore “generatività” (fertilità del tempo e del luogo in termini di engagement, allineamento e affiatamento delle persone nella realizzazione di una missione comune).

La quarta rivoluzione industriale si manifesta non solo in una tensione verso la “smart factory”, resa possibile da tecnologie abilitanti di produzione, ma anche in un’ancora indefinita e più generale “smart organization” e, forse, in una “smart society”, fatta di “smart cities” e altri luoghi in cui, oltre a produrre, si vive alla ricerca di una possibile felicità.

Con questo contributo vogliamo sostenere che è in qualche modo sbagliato dare l’attributo “smart” al lavoro, quando parliamo di smart working. La “smartness” appartiene alla strategia e all’organizzazione in cui il lavoro si esplica. Così come è sbagliato definire “agile” il lavoro. L’agilità appartiene alla strategia e all’organizzazione.

“Smart” e “Agile”, usati come sinonimi, sono attributi che vanno a identificare caratteristiche progettuali (strategie, modi di interpretare la competizione, principi, strutture, processi, sistemi, metodologie, tools) che conferiscono certe prestazioni desiderate alle organizzazioni. Applicati al lavoro, questi attributi non hanno un gran senso. A meno che non si alluda al fatto che ad essere smart o agile dovrà essere il lavoratore. E qui la cosa assume una connotazione diversa e induce a una riflessione più ampia sulla “condizione postmoderna”, collocata nella “Storia” iniziata circa 6000 anni fa, che diventa, come dicono alcuni, condizione “iperstorica”, nella quale si spostano sull’individuo gradi di libertà ma anche rischi crescenti. Una condizione vissuta in gran parte online o, come dice il filosofo della scienza Luciano Floridi, la condizione dell’ ”onlife” (5).

 

Lezioni dalla pandemia

In un report pubblicato da Doodle, piattaforma leader nella schedulazione delle riunioni, da febbraio a marzo 2020 le riunioni programmate sono raddoppiate. Un tasso di crescita ancora superiore ha avuto l’utilizzo della piattaforma Zoom di conferencing.

La pandemia ha costretto le organizzazioni a favorire o imporre il lavoro a distanza. Svolgere da remoto ciò che può essere svolto da remoto. La cosa ha immediatamente posto il problema di valutare cosa può essere svolto da remoto. Sottintendendo: senza pregiudizio eccessivo della prestazione. In linea di massima, le attività burocratiche, nel senso più ampio. No, invece, le attività operative di personale che utilizza o manutiene mezzi di produzione che devono per forza stare a terra, sullo “shop floor”. Come un rider, un infermiere o un operaio sulla linea di produzione.

Interrogarsi sulla differenza tra lavoro remotizzabile e non remotizzabile costituisce un primo stimolo ai progettisti organizzativi. Con la possibilità di stanare delle fissità nel modo in cui si affronta ancor oggi il problema combinato del job design e del workplace design. E questo ragionamento riguarda lo spazio, dove le cose vanno fatte. Tra l’altro, il concetto di “remoto” pone la questione “remoto da che?”, che mette in discussione la percezione, non banale, del “centro” dell’organizzazione. Laddove, tra l’altro, l’organizzazione si intende in senso esteso ad una rete ampia, dentro cui esistono confini debolmente definiti.

Un più sottile stimolo ai progettisti organizzativi e agli Operations Manager viene dalla considerazione del tempo. Che vuol dire quando le cose vanno fatte. Anche in questo caso ci si pongono domande nuove sul tempo opportuno letto 1) con la prospettiva del “producer”, che sottintende il focus sull’efficienza, intesa come saturazione delle risorse produttive, oppure 2) con la prospettiva dell’user, cioè del flusso di valore per il cliente (esterno o interno) che domanda quel valore nel momento esatto in cui ne ha bisogno, indifferente ai problemi di saturazione del fornitore. Due orientamenti che nella seconda rivoluzione industriale (mass production) erano in contrasto e nella terza (lean production) si è cercato di rendere compatibili.

La pandemia ha stimolato (ma credo non ancora a sufficienza) a ripensare l’organizzazione della produzione e del lavoro, liberando il pensiero creativo da vincoli di spazio e di tempo. La spinta è stata reattiva e la preoccupazione è stata in gran parte legata a quel “senza pregiudicare la prestazione”. In realtà da sempre gli studiosi di operations management si sono preoccupati del dove e del quando svolgere un determinato lavoro, di spostare il lavoro dal luogo e dal tempo consueti “per migliorare la prestazione”. Dal “lean thinking” toyotista in poi la prestazione dipende dalla capacità di rispondere all’azione “pull”, del cliente che chiede a suo piacimento (just in time), invece che all’azione “push” che cerca di generare e spingere più prodotto possibile verso il mercato.

La massimizzazione della prestazione si trova in una ridistribuzione ottimale del lavoro nello spazio (ad esempio, dove sta un magazzino contenente work in progress?) e nel tempo. Ottimizzazione che beneficia di tecnologie abilitanti, prevalentemente ICT, cioè relative all’informazione e alla comunicazione, che possono essere utilizzate per consentire la trasmissione, la conservazione e l’elaborazione dell’informazione, oltre alla collaborazione e alla cooperazione. Uno scenario in rapida evoluzione.

La fabbrica fordista ha per la prima volta affrontato tecnicamente le conseguenze della divisione scientifica taylorista del lavoro, combinata all’analisi dei tempi e dei metodi, per stabilire come i diversi pacchetti/postazioni di lavoro, e i job corrispondenti, si dovessero disporre, ad esempio, lungo una linea (meccanizzata) di flusso del valore. Ma anche che ad alcune attività operative fosse consentita una localizzazione distante. Ad esempio, le attività eseguibili da una sala dotata di telemisure, teleoperazioni e telecontrolli. I sistemi di registrazione delle informazioni (analogici e digitali) conferivano non solo la possibilità di remotizzare il lavoro di analisi dei dati di processo, ma anche di collocare tale attività nei tempi e nei luoghi adatti. Il passaggio da fordismo a toyotismo, dopo la metà del secolo scorso, ha modificato nel tempo le scelte spaziali e temporali. Ripensando, nella direzione del “lean thinking”, i flussi di valore, la disposizione delle postazioni di lavoro, in relazione anche ad aspetti connessi al tempo. Inteso come cadenza e come tempo di attraversamento. Il filtro concettuale dell’eliminazione degli sprechi (Muda), inteso come eliminazione delle attività non a valore aggiunto, ha dato agli operations manager una grande occasione di ripensamento degli spazi e dei tempi. Ad esempio, evitare spostamenti inutili di persone o cose e processi intricati come piatti di spaghetti. La cosa ha riguardato i layout degli impianti produttivi ma anche la collocazione e l’organizzazione degli uffici. Che venivano ripensati in modo da favorire sia la collaborazione lungo il processo (orizzontale), sia l’avvicinamento (verticale) degli gli spazi di lavoro dei tecnici e dei manager alle postazioni operative. Spazi, ad esempio, lungo la linea di produzione in cui riunirsi di frequente per la risoluzione di problemi consentivano di spostare attività di analisi e progettazione minuta nei luoghi in cui queste potevano essere svolte dalle maestranze assieme ai tecnici. Sistemi informativi integrati all’automazione di processo e all’automazione di base (il modello CIM del Computer Integrated Manufacturing) e cruscotti di supervisione a diversi livelli gerarchici di aggregazione delle informazioni, cambiavano i layout degli impianti come degli uffici, dallo shop floor all’ultimo piano dell’alta direzione.

Nel frattempo, il lavoro di sviluppo e progettazione, avvalendosi anche di sistemi CAD (Computer Aided Design), poteva realizzare modelli di “Concurrent engineering” in grado di ridurre il time to market, i costi e i rischi di sviluppo prodotto. Tutto questo avendo a disposizioni luoghi virtuali di progettazione condivisa intorno al digital twin del prodotto, e allo stesso tempo spazi di lavoro condivisi da tutti gli attori di un processo progettuale (co-location).

Gli anni 80-90 del secolo scorso erano stati pieni di promesse sul contributo del software di facilitare la collaborazione a distanza delle persone. Che comunque rimanevano nella propria postazione, all’interno di uno spazio aziendale.  Allora la tecnologia software abilitante era chiamata “groupware” e le tecnologie potevano essere suddivise in tre categorie a seconda della funzione di collaborazione abilitata:

Comunicazione, che abilita uno scambio di informazioni non strutturato. Una telefonata, un fax, una email o una discussione in chat ne sono un esempio.

Conferencing, che abilita il lavoro interattivo verso un obiettivo condiviso. Il brainstorming o il voto ne sono un esempio.

Coordinamento, che abilita un lavoro complesso e interdipendente verso un obiettivo condiviso. Il software “Doodle” per pianificare le riunioni ne è una delle espressioni più semplici e, in tempo di lockdown, popolari.

Tecnologie software abilitanti, spesso impacchettate in “suite” molto integrate, ad esempio quelle che sono dentro a sistemi di Product Lifecycle Management per l’ingegneria, o nei sistemi ERP per la pianificazione e la gestione, sono disponibili da molti anni e hanno reso possibile la globalizzazione delle value chain a livello internazionale, laddove i diversi contributi alla creazione di valore si andavano a collocare nel luogo al mondo più conveniente e laddove le organizzazioni non potevano che essere “a matrice”, con la possibilità di avere un capo funzionale al piano di sopra, un capoprogetto in una altra città, un esperto di dominio in un altro continente e colleghi del team sparsi ovunque.

La pandemia è un’occasione per recuperare quaranta anni di esperienza nel lavoro da remoto non solo per estenderlo ad ambiti diversi di quelli citati e ancora non maturi, ma anche per rivedere, in quegli ambiti maturi, il modo in cui l’organizzazione può essere ulteriormente migliorata per svincolare le attività da vincoli di tempo e di luogo. Non tanto per analizzare il problema, seppur interessante, del lavoro che può essere svolto da una persona isolata, tanto nel suo ufficio quanto nel tinello di casa, quanto per analizzare il lavoro che deve essere svolto in collaborazione con altri.

Un lavoro che oggi inchioda molti di noi alla scrivania in una sequenza di “call” di gruppo su piattaforme come Zoom, Meet, Teams, Webex, eccetera eccetera.

La pandemia ci deve indurre a domandarci se stiamo semplicemente sostituendo, per necessità di distanziamento, una sala di riunioni fisica con una virtuale oppure stiamo modificando delle abitudini e dei modelli organizzativi che abbiamo avuto riluttanza a cambiare nei quaranta anni trascorsi, in cui le tecnologie erano già pronte per poter abilitare tutto ciò e non si è fatto. Cogliendo le opportunità e difendendoci dalle minacce. Ma soprattutto per chiederci, piuttosto che quanto è smart o agile il nostro modo di lavorare, quanto sono smart o agili le organizzazioni.

 

Quali sono le esperienze da cui apprendere?

Alcune le abbiamo anticipate e riguardano gli spazi in cui già hanno luogo i processi aziendali (replicabili nella versione virtuale). Per quanto riguarda le operations dei processi a flusso teso di valore, le linee di produzione di massa, il problema era già stato risolto da Ford all’inizio del secolo scorso e poi da Taichi Ohno della Toyota a metà del secolo, cambiando un poco i layout di produzione e mettendo un po’di attività d’ufficio sullo shop floor.

Per quanto riguarda, invece, le attività ad output unico, come la soluzione di problemi e la progettazione, il problema della relazione tra job, task, tempo e luogo è stato risolto facendo evolvere gli spazi dedicati in sale in cui è facilitata la collaborazione nel momento questa viene richiesta dalla natura del lavoro e dalla contingenza, lungo un ciclo di attività non pianificabile una volta per tutte. A differenza che nella produzione di serie, per tali tipologie di attività non è possibile sapere con precisione con chi, cosa, come, quando e dove fare una certa attività per cui l’open-space diventava la soluzione privilegiata. In cui si accoglieva volentieri il cliente o il business partener. Ma è stata, in questi anni, una soluzione su cui si manifestava, negli occidentali diversi dai giapponesi per individualismo, prossemica, e gusto per la privacy, una certa resistenza. Resistenza psicologica e sociale subito superata dalla necessità di far funzionare tali processi non in modo sequenziale ma iterativo. Agile, appunto. Erano la strategia e l’organizzazione a diventare agili (richiedendo facilities adeguate) e, di conseguenza, il modo di lavorare degli individui e dei team.

Ma alla realizzazione di un Lean product development, un Agile project management, un Lean startup approach, mancavano spesso modelli organizzativi adeguati, più che un mindset dei lavoratori, più che tecnologie ICT abilitanti e più che la possibilità di creare spazi di lavoro open dedicati (fisici o virtuali).

Alle organizzazioni che stentavano a diventare lean o agili, oppure che fallivano nel condurre i processi di progettazione secondo i principi iterativi del “Systems engineering” o del “Design thinking”, non mancavano tecnologie, luoghi dedicati e lavagne o pareti con post-it colorati. Mancava una più avanzata gestione dei tempi.

La rivoluzione agile (o smart se preferite), richiede un diverso timeboxing, più granulare ma, allo stesso tempo, più regolare. Come avviene nella fabbrica fordista cadenzata dal ritmo di un metronomo (takt time).

In assenza di questo ritmo e di questa suddivisione serrata e regolare dei tempi viene a mancare il sincronismo. Le attività che ogni team sparso per l’orbe terraqueo (e ogni individuo, magari da casa propria) svolge per portare a termine un’impresa condivisa, un progetto comune, non si incastrano l’una con l’altra, nel momento in cui c’è da validare quanto fatto, ripianificare, far avanzare il progetto.

La cosa ci pare tanto ovvia quanto difficile da realizzare. Come è necessario e non banale individuare la dimensione ottimale (né troppo piccola né troppo grande) di un team coeso, in cui funziona il gioco di squadra e in cui chi non è “nel flusso” si esclude da solo (come il partecipante spaesato a una riunione reale o virtuale inutile o in cui egli steso stesso è inutile). Come è altresì difficile far funzionare in maniera sincronizzata e sintonizzata il “team di team” che deve collaborare ad un livello più alto di integrazione e l’azienda estesa tutta.

Riuscire a fare tutto questo è indipendente dalla necessità di far funzionare tutto questo a distanza (ad esempio in sale di riunione virtuali) e dalla propensione degli individui ad una nuova organizzazione dello spazio e del tempo.

Ad essere smart o agile dovrà essere l’organizzazione. Il viaggio in quella direzione è lungo e con risultati che si avvicinano asintoticamente all’ottimo.

Smart è il contrario di stupido

Prima di concludere, vorrei richiamare l’accezione data al termine “smart” da Morieux e Tollman del Boston Consulting Group nel 2015 (6). I due consulenti parlano di “Smart simplicity” come risposta alla crescente complessità delle imprese. La competizione sempre più accesa ha comportato – dicono gli autori – l’incremento dei requisiti, ovvero degli obiettivi di performance da soddisfare, e questo è un sinonimo di complessità, perché spesso, tra molteplici obiettivi da raggiungere, molti sono in conflitto tra loro. Questa “complessità” genera, secondo i consulenti del BCG, “complicatezza” nelle strutture e nei processi. Ad esempio, la crescita del numero delle unità organizzative preposte al raggiungimento di specifici obiettivi e degli organi e dei meccanismi di collegamento e coordinamento (comitati, gruppi di lavoro, task force, livelli gerarchici, matrici multidimensionali, ecc.). Questo, nel nostro sguardo ai processi di collaborazione, si traduce anche nella moltiplicazione delle riunioni e nel numero di persone coinvolte. Insomma, si reagisce alla complessità con la complicatezza. E un’organizzazione complicata non è smart ma è stupida. Immaginate che delirio di riunioni improduttive su Zoom in un’organizzazione stupidamente complicata con in mano il pulsante della convocazione facile online, che è tipica del video conferencing!

Preso atto di questo effetto che sembrerebbe inevitabile, Morieux e Tollman suggeriscono delle regole semplici volte a far crescere autonomia e collaborazione, con le quali è possibile svincolarsi dalla pesante complicatezza dovuta alla complessità.

  1. Capire cosa fanno effettivamente e in pratica i collaboratori in situazione e apprendere da essi
  2. Rafforzare nei team le figure di integratori cioè quelli spontaneamente vocati alle azioni di raccordo (che non sono dei coordinatori.
  3. Aumentare la quantità di potere circolante in azienda per poterne ridistribuire più generosamente e in modo meno accentrato a rafforzare l’agilità nell’ adattamento dei processi alle situazioni.
  4. Corresponsabilizzare invece che attribuire univocamente le singole responsabilità (e questo è contrario a un principio in uso).
  5. Lasciare il tempo che le persone si abituino a collaborare. mantenendo stabili i gruppi nel tempo in modo da generare fiducia e conoscenza reciproca
  6. Premiare chi coopera.

Le sei regole di Morieux e Tollman che ho riassunto in una recensione del 2016 (7), non fanno altro che descrivere i connotati di un’organizzazione che fa della snellezza e dell’agilità la propria arma vincente. Come un’azienda di software che applica l’Agile Project Management, con un timeboxing fitto e regolare che fa avanzare ordinatamente il lavoro di migliaia di tecnici sparsi per il mondo nello sforzo congiunto di soddisfare un numero elevatissimo di requisiti di un prodotto costituto da una grande quantità di moduli tra loro collegati.

Conclusioni

Abbiamo scritto, qualche paragrafo fa: “La pandemia ha stimolato a ripensare l’organizzazione della produzione e del lavoro, liberando il pensiero creativo da vincoli di spazio e di tempo”. L’etichetta di “smart working” o di “lavoro agile” indirizza inevitabilmente l’attenzione al lavoratore, liberato da vincoli di spazio e di tempo e guidato solo dagli obiettivi di performance che gli sono stati assegnati. Ma, conferendo al lavoratore i vantaggi della libertà e di una maggiore autonomia, sposta su di esso maggiori carichi di responsabilità, spesso senza un adeguato supporto e con un’organizzazione che opera ancora con regole che non favoriscono la collaborazione. Per fare questo spostamento è necessario che l’organizzazione sia in grado di farlo. Cioè che l’organizzazione sia smart o agile. Non il lavoratore, o meglio, non solo il lavoratore e il lavoro che svolge.

Può andar bene usare un’etichetta come “lavoro agile” o “smart working” per denominare un nuovo tipo di contratto di lavoro che individui e regoli modalità di lavoro non strettamente vincolate ai tempi e ai luoghi. Un’etichetta vale l’altra. Ora, però, sta agli studi organizzativi contribuire a rendere veramente agili e smart le organizzazioni. Anche per fare leva su tecnologie ampiamente disponibili già da molti anni. Strumenti software utili non solo per l’eliminazione di grandi quantità di tempo non a valore aggiunto (il Muda degli spostamenti inutili, ad esempio per fare una riunione di gruppo o un incontro di persona), ma anche perché il tempo sia produttivo e generativo, perché il tempo e l’energia liberati dalla facilità con cui ci si incontra online, non si sprechi in un moltiplicarsi di riunioni inconcludenti, in un andirivieni di avanzamenti e arretramenti dei flussi di valore e in uno spezzettamento decisionale. Le tecnologie ci sono e sono anche ben chiari da tempo alcuni principi da adottare. Alcuni risalgono, come abbiamo mostrato, al pensiero agilmente disciplinato sperimentato negli anni 70 e 80 nell’impresa giapponese. Alcuni sono frutto dell’esperienza delle fabbriche del software.

Ci deve far riflettere l’esperienza, a volte penosa, di una vita quotidiana in cui Doodle ha incastrato una “call” dietro un’altra, giusto il tempo per un caffè con la moka di casa in uno “slack time”.

La granularità interstiziale del tempo di lavoro, impensabile fino all’epoca della pandemia, pone una sfida all’individuo (psico-fisicamente dotato dalla natura di un certo suo grado di agilità) che deve trovare capacità di concentrazione e di riflessione, assediato com’è dalle riunioni. Ma la sfida vera è alle organizzazioni che devono apprendere dalle esperienze del passato e anche dagli esiti di questo esperimento su scala mondiale che, purtroppo, la pandemia ci ha costretto a fare.

Non basta saturare, come è oggi tecnicamente possibile, il tempo delle persone riempiendolo di meeting. Sarebbe un principio contrario all’essenza del lean thinking. Quello che importa è che ad ogni riunione si faccia davvero un passo avanti. In sincronia e sintonia con quello che fanno nelle altre stanze, fisiche o virtuali.

La crescita folle delle riunioni che la situazione pandemica ha generato e la tecnologia ha facilitato, non ha creato solo un disturbo da deficit attentivo, ma ha anche sottratto tempo ad attività riflessive e di elaborazione individuale. Si va in onda con troppa leggerezza. Basta un click. Il costo in ore/uomo di ciascuna riunione è elevatissimo e calcolabile facilmente. Il valore prodotto, invece, è quasi impossibile prevederlo e calcolarlo. Un ragionamento elementare di cost-deployment ci indurrebbe ad una certa prudenza. Anche perché ci sono dei costi nascosti che si generano nella sfera della relazione e della motivazione.

Abbiamo iniziato accennando agli impatti “disruptive” delle grandi rivoluzioni industriali sull’organizzazione dello spazio e del tempo (anche su scala geografica e urbanistica). Le rivoluzioni industriali non si sono certo fermate per paura di questi impatti. Accadrà anche alla quarta. E ne risentiranno i prezzi di locazione degli uffici, gli esercizi commerciali dei centri direzionali delle grandi città, le mense e le caffetterie aziendali, i produttori di carburanti. Altrimenti che rivoluzione sarebbe senza morti o feriti? Non ci siamo occupati di questo tipo di fenomeni catastrofici. Ma li citiamo in chiusura per dare il senso dei grandi cambiamenti che ci aspettano per il futuro. Per imparare ad affrontarli.

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