La doppia polarizzazione del lavoro

Mario, cinquantenne operaio metalmeccanico, non sa che tra una decina d’anni il suo vicino di postazione in catena di montaggio molto probabilmente sarà un robot intelligente, e non sa nemmeno che nella (per lui) lontana Guangzhou in Cina stanno progettando la fabbrica senza operai, che promette livelli di produttività inimmaginabili per noi umani.

Tania, trentenne odontoiatra in carriera, sa molto bene che i progressi delle stampanti 3D nelle applicazioni dentali sono molto promettenti, e con i giovani partner del suo studio dentistico ha già in cantiere la riprogettazione del layout dell’ambulatorio, la riconfigurazione dei rapporti con i fornitori e la ridefinizione del portafoglio di attività e servizi da offrire ai clienti.

Enrico, ventitreene studente universitario, la sa molto lunga sull’uso intelligente dei new media, tanto da farsi prendere da un’azienda vitivinicola con quasi duecento anni di storia alle spalle per aiutarla a definire nuove politiche di marketing per avvicinare le generazioni più giovani al consumo responsabile di vino di qualità.

Gli sviluppi tecnologici non risparmiano nulla e nessuno. I confini tra settori diventano sempre più labili e permeabili, fino a far nascere nuovi territori competitivi. I modelli di business delle imprese evolvono in continuazione, vanificando rendite di posizione consolidate (si pensi a Uber) e aprendo nuove opportunità imprenditoriali per chi mai avrebbe pensato di potersi mettere in proprio (si pensi a Airbnb). Su questi due fronti c’è un ampio dibattito in corso, che rischia di essere poco incisivo perché fa i conti senza l’oste: il lavoro.

I tre esempi descritti sopra (ma se ne potrebbero fare molti altri) ci dicono che il mercato del lavoro sta inesorabilmente procedendo verso una doppia polarizzazione (quasi) senza ritorno, di cui si sono accorti in pochi ma con la quali imprese, istituzioni e società dovranno mettersi attorno a un tavolo per fare i conti.

La prima polarizzazione è tra chi sa e chi non sa.

Se le stime dell’Economist e di McKinsey si riveleranno corrette, nei prossimi anni la manifattura industriale sarà invasa da robot con livelli di versatilità e capacità di elaborare e interpretare informazioni mai viste prima, venduti a prezzi alla portata anche delle imprese più piccole. Queste nuove macchine faranno sì che nel 2025 l’automazione dei lavori industriali oscillerà tra il 5% e il 15% nei Paesi in sviluppo e tra il 15% e il 25% in quelli avanzati come l’Italia. Spariranno molto lavori e ci saranno molti lavoratori con uno skill gap talmente elevato da non essere più impiegabili nei processi produttivi. Per affrontare in tempo utile questo scenario apocalittico serve un approccio alla tedesca anche per coloro che sono già nel mercato del lavoro: alternanza tra lavoro in fabbrica e studio applicato nei laboratori degli istituti professsonali. Nuovi modelli di rappresentanza cercasi.

La progressiva divaricazione tra chi sa e chi non sa, si estende anche ai segmenti più qualificati del mercato del lavoro. L’esempio dell’odontoiatra Tania è la punta di un iceberg, sotto il quale ci sono schiere di lavoratori in posizione intermedia (dai middle manager, ai medici, ai liberi professionisti), che rischiano di essere risucchiati verso il basso a causa della commoditizzazione di una parte delle loro attività, a meno che non riescano ad appropriarsi delle conoscenze per utilizzare le nuove macchine e le nuove tecnologie.

La seconda polarizzazione è tra chi ha la vita davanti a se e chi è (quasi) a fine carriera.

Se non bastasse l’annosa questione delle pensioni, lo scontro tra generazioni viene aumentato a dismisura dallo sviluppo delle tecnologie. In un mondo in cui l’innovazione è competence enhancing, la conoscenza cumulata dà un vantaggio competitivo nel mercato interno del lavoro alle persone più mature, il suo valore è risconosciuto e si specchia nelle strutture retributive delle imprese. Ma quando le tecnologie sono competence destroying, come spesso succede negli ultimi anni, l’esperienza professionale diventa il principale ostacolo per mantenere la posizione e l’occupabilità, perché oltre allo sforzo di imparare il nuovo, impone anche la fatica di disimparare in tutto o in parte quanto appreso nel corso di una carriera. E in più, il tempo gioca contro di loro, perché rende poco convenienti gli investimenti in formazione. Ci piaccia o no, su questo fronte servono azioni di soft landing, sia con moderne politiche di organizzazione del lavoro sia con un welfare intelligente.

* Questo articolo rielabora alcuni spunti emersi nel corso del 44° Congresso AIDP “Lavori in cerca di imprese”, Verona 5-6 giugno 2015, di cui l’autore è stato coordinatore del comitato scientifico.

Autori

Università degli Studi di Padova

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