Come organizzare l’innovazione nel settore biotech: suggerimenti dal mondo di Hollywood

L’articolo suggerisce l’adozione di un modello alternativo per finanziare l’attività di ricerca e sviluppo delle imprese che operano in settori ad alta intensità di capitale in ricerca e sviluppo e che affrontano investimenti ad alto livello di rischio. Per gestire nella maniera più efficace gli orizzonti di lungo termine dei processi di innovazione, si propone di utilizzare organizzazioni costituite ad-hoc (project-focused organization, PFO), focalizzate su specifici progetti di ricerca e sviluppo, sul modello di quanto accade nell’industria cinematografica americana per produrre i singoli film.

Introduzione

Come evidenziato in un rapporto di recente pubblicazione (Assobiotec, 2016), l’industria biotecnologica italiana è protagonista di un rilevante percorso di crescita: a fine 2015, sono quasi 500 in Italia le imprese di biotecnologie, attive in tutti i settori di applicazione (il numero è più che raddoppiato negli ultimi 20 anni). Più della metà di queste (256) è costituita da imprese dedicate alla R&S biotech, vale a dire da aziende che dedicano oltre il 75% dell’investimento totale in R&S ad attività di ricerca biotech. La grande maggioranza delle imprese biotech italiane (75%) è costituita da aziende di microscopica o comunque di piccola dimensione. Il fatturato biotech totale supera i 9,4 miliardi di euro, gli investimenti in R&S gli 1,8 miliardi e il numero totale degli addetti biotech le 9.200 unità. L’intero mercato del Venture Capital rimane ancora poco sviluppato in Italia e le modalità strategiche per lo sviluppo per la larga maggioranza (63%) delle imprese dedicate alla R&S biotech a capitale italiano si collega alla possibilità di concludere accordi di co-sviluppo o partnership con altre imprese, evitando possibili joint venture (33%) con altra impresa ed operazioni di M&A (5%).

Il quadro appena descritto fa subito emergere due temi critici che caratterizzano il comparto in Italia: l’esigenza di sostenere i processi di innovazione e la ridotta dimensione delle aziende. Diviene, quindi, fondamentale provare a lanciare una discussione sui nuovi modelli di finanziamento, che non hanno a che fare solamente con le tecniche e gli strumenti finanziari, ma anche con le scelte organizzative e di governance. L’articolo di Lo e Pisano suggerisce l’adozione di un modello alternativo per finanziare l’attività di ricerca e sviluppo per le imprese che operano in settori ad alta intensità di capitale in ricerca e sviluppo e che affrontano, pertanto, rischiosi investimenti. I due autori propongono di creare delle organizzazioni basate sul progetto per affrontare i rischi di lungo termine dell’innovazione.

I settori industriali basati sulla scienza come quello farmaceutico e delle biotecnologie, offrono alti potenziali di crescita, ma allo stesso tempo soffrono di un forte potenziale di rischio. Il profitto, se arriva, ha bisogno di molti anni prima di realizzarsi. A causa dell’enorme pressione dei mercati finanziari per il raggiungimento di obiettivi di breve termine, anche grandi ed importanti aziende hanno difficoltà a giustificare investimenti in ricerca e sviluppo con così alti profili di rischio e a lungo termine. Molti concordano nel ritenere che queste tipologie di settori non vedono investimenti diretti delle aziende, ma sono maggiormente propensi ad investimenti da parte di società di venture capital soprattutto nelle fasi iniziali della ricerca.

Il tradizionale modello venture capital/imprenditoriale ha avuto successo in molti settori ad alta intensità di conoscenza e di contenuto tecnologico (software, computer, Internet, elettronica, etc.), ma non è stato progettato per gestire i costi, i rischi ed i tempi di rientro dei settori guidati direttamente dalla ricerca scientifica. Nelle biotecnologie, ad esempio, i tempi che passano dalla scoperta all’approvazione del farmaco possono durare dai 10 ai 20 anni e richiedere investimenti che superano i 2 miliardi di dollari. Inoltre solo una piccola percentuale di progetti farmaceutici in R&D si trasformano in farmaci da poter commercializzare; un recente studio pubblicato su Nature Biotechnology ha calcolato un tasso di successo in questo settore, dalla fase iniziale all’approvazione da parte dell’Autorità americana preposta (la Food and Drug Administration, FDA), del solo 10%. Valore che si abbassa ulteriormente al 7%, rispetto ad importanti categorie scientifiche quali l’oncologia. In altri settori i tempi sono molto più ridotti, basti pensare al caso di Google, che ha impiegato un anno circa da quando Sergey Brin e Larry Page (cofondatori di Google Inc.) hanno iniziato a sviluppare la loro ricerca.

Per affrontare efficacemente tali situazioni gli autori dell’articolo suggeriscono di adottare una soluzione, già presente in altri settori, basata sulla possibilità di utilizzare delle organizzazioni costituite ad-hoc secondo la logica della project-focused organization (PFO), o organizzazione focalizzata sul progetto. Unico obiettivo di questa entità sarebbe quello di condurre uno specifico progetto in ricerca e sviluppo; una volta che l’obiettivo viene raggiunto, la PFO si scioglie e la proprietà intellettuale e i relativi asset vengono alienati.

Una PFO è, pertanto, un’organizzazione che ha un forte orientamento al lavoro per progetti e che si organizza per favorirne l’evoluzione come base della propria attività e che quindi necessita di strutture organizzative capaci di rispondere alle esigenze di innovazione e ai cambiamenti di contesto.

Innovazione e logica di progetto

In molti settori, se un innovatore ha una nuova idea per un progetto, crea un’impresa per attrarre capitali e talenti per realizzarlo. Se il progetto ha successo, l’innovatore, il team e gli investitori sono in genere ricompensati dall’incremento di valore di mercato dell’impresa, attraverso la quotazione in borsa, o la vendita dell’azienda a un’altra società. Infatti, anche se il fallimento è comune tra le start-up, in genere a livello cumulato gli utili superano le perdite, mentre in settori come il biotech ciò non avviene, perché una innovazione nelle biotecnologie rappresenta un nuovo avanzamento scientifico la cui natura è intrinsecamente imprevedibile.

Ad esempio, tra il 1984 e il 2004, le perdite cumulate nelle transazioni azionarie in borsa delle aziende biotecnologiche hanno superato i profitti. Anche per le società di maggior successo rimanere indipendenti è sempre stato un obiettivo ambizioso. Negli ultimi 5 anni, due dei competitor più performanti, Genentech e Genzyme, sono stati acquistati da aziende farmaceutiche più grandi. La natura stessa della ricerca in questa scienza determina i risultati: è impossibile definire il dopo. Mentre in altri settori scoperte rilevanti avvengono nell’alveo delle cose note alla stessa comunità scientifica, nelle biotecnologie si affrontano questioni sconosciute all’interno di contesti non noti.

La combinazione di alti tassi di insuccesso e alti ritorni potenziali spesso significa che c’è un disallineamento degli incentivi tra le imprese e progetti. Per questo gli autori propongono una forma di governo incentrata sul progetto piuttosto che sull’impresa. In un certo senso è quello che fanno alcune grandi aziende quando acquisiscono una start-up, che rappresenta una sorta di progetto singolo. Le piccole aziende, invece, hanno difficoltà ad adattarsi a questo modello. La scelta di preferire il progetto all’impresa potrebbe facilitare la capacità di fare innovazione perché potrebbe rendere più semplice ed efficiente la ricerca di capitali di investimento e garantirebbe maggiore flessibilità.

Prima di cercare di spiegare come tutto ciò sia possibile, però, i due autori ci segnalano che quest’idea non è una novità in assoluto, ma è ben radicata in altri contesti. Tale modello, infatti, esiste già ad esempio nell’industria cinematografica, settore per certi versi simile a quello della scienza in quanto costituito da un elevato rischio di fallimento ed alto livello di incertezza.

Oggi, gli studios di Hollywood ad elevata integrazione verticale hanno lasciato il posto a progetti di film individuali costituiti da unità organizzative centrare sulle attività di produzione.

Ciascun progetto-film è organizzato in maniera indipendente ed acquisisce una propria autonomia giuridica: le differenti risorse necessarie per realizzare il film (finanziarie ed umane) provengono da fonti differenti, ma sono tutte focalizzate unicamente su quel singolo film. Il progetto non è un’entità permanente ma opera come una sorta di camera di compensazione rispetto ai ritorni degli investitori iniziali e degli altri soggetti coinvolti.

Una volta che il film inizia la distribuzione, l’entità progetto scompare, tranne che come strumento legale per i trasferimenti di denaro durante tutta la vita del film. Ci sono alcune similitudini tra il mondo del cinema e il settore delle biotecnologie. Ad esempio i tempi degli investimenti: i diritti per la realizzazione di Spiderman sono stati opzionati per la prima volta nel 1985 ed il film è stato realizzato esattamente 17 anni dopo, quando conseguì un successo incredibile ai botteghini con più di 40 milioni di dollari negli Stati Uniti e più di 800 milioni di dollari nel mondo. Certo la maggior parte dei film negli Stati Uniti sono ancora finanziati e realizzati in modo tradizionale, grazie ai noti studios, quali Paramount Pictures, Twentieth Century Fox, e Warner Bros.

L’industria cinematografica tuttavia, non è l’unico ambiente delle PFO. Le ritroviamo infatti nel business dei videogiochi; oppure in quello della musica pre-internet in cui gli album venivano trattati come singoli progetti e non come un output continuativo di una specifica organizzazione; oppure ovviamente nelle imprese che hanno nella commessa il core del proprio business: come infrastrutture o impiantistica.

Uno dei primi esempi di PFO è legato al musicista rock David Bowie ed era basato sulle royalties frutto dei primi 25 album dell’artista. Bowie ha guadagnato 55 milioni di dollari, e gli investitori introiti per un periodo di 10 anni.

L’applicazione del modello PFO al settore delle biotecnologie

Nel settore delle biotecnologie sarebbe possibile secondo gli autori applicare il modello della PFO. Ciascun progetto avrebbe un referente che svolgerebbe la funzione del produttore, un ricercatore che crede in una nuova medicina e lavora per sviluppare una nuova terapia medica. Ma invece di presentare la sua idea ad un venture capitalist o ad un’azienda farmaceutica, il ricercatore andrebbe da una PFO, uno studio per l’innovazione, che potrebbe essere finanziato da un singolo fondo di investimenti o da un consorzio di investitori. Nel caso il progetto avesse una valutazione positiva le strutture della PFO sarebbero messe a disposizione del ricercatore.

In questo schema la maggior parte delle attività sarebbe data in outsourcing (ad esempio, valutazione e testing, studi tossicologici, etc.), allo stesso modo in cui un network di servizi è utilizzato nella produzione di un film (ad esempio set design, costumi, luci, effetti speciali, etc.). L’idea è di esternalizzare il maggior numero di attività per mantenere il progetto il più leggero possibile.

La maggioranza dei partecipanti al progetto lavorerebbero come consulenti per la realizzazione di compiti specifici. Probabilmente gli unici dipendenti full-time sarebbero il direttore del progetto ed un piccolo team di talenti, che dovrebbero essere in una posizione privilegiata nella eventuale distribuzione futura di profitti.

I ricercatori migliori dovrebbero essere in grado, anche grazie alla loro notorietà, di coinvolgere altri partecipanti e negoziare bonus e ritorni economici. Gli studi dell’innovazione svolgerebbero il ruolo tradizionalmente svolto dalle grandi aziende farmaceutiche o gruppi di imprenditori, raccogliendo i finanziamenti per il progetto iniziale.

Dreamworks SKG, lo studio fondato, tra gli altri, dal regista Steven Spielberg, e dall’ex Disney executive Jeffrey Katzenberg, è un esempio di studio per l’innovazione. Finanziato inizialmente con una cifra pari a 500 milioni di dollari dal cofondatore di Microsoft Paul Allen, la Dreamworks ha emesso successivamente asset-backed securities basate sui propri diritti intellettuali e sui previsti incassi futuri, per finanziare la propria operatività: lo studio di innovazione ha quindi supervisionato il progetto di start-up.

L’accordo tra lo studio ed il progetto dovrebbe definire in modo puntuale i diritti tra le due parti. La più importante differenza con i tradizionali processi di acquisizione di una start-up è che in questo modo i diritti di proprietà intellettuale rimangono in capo al progetto finché non è terminato. Se raggiunge il successo, il progetto vende i suoi diritti allo studio e riceve in cambio una compensazione già definita dal contratto; se resta infruttuoso, il progetto può tentare una nuova avventura con un altro studio. In ultima istanza il team di progetto sarà sciolto e sarà pronto a raggiungere un nuovo progetto.

Organizzare l’innovazione seguendo questo modello comporta una serie di benefici. Per gli investitori, consente essenzialmente di diversificare i propri investimenti su diversi progetti da scegliere sulla base delle proprie preferenze. Per le aziende, il vantaggio risiede nella possibilità di minimizzare i costi generali, gestendo in-house solo il core team del progetto.

I problemi principali

Tuttavia per creare una PFO nel biotech bisogna affrontare due problemi principali.

Il primo è l’assenza di una piattaforma standardizzata utilizzabile dalle aziende per sviluppare farmaci attraverso l’uso di tecnologie correlate. Nel settore farmaceutico il termine piattaforma è impiegato per descrivere un insieme di tecnologie che le aziende utilizzano per creare nuove medicine, ma in altri settori industriali questo termine assume un significato più ampio, arrivando a designare un soggetto metaorganizzatore che intermedia gli scambi di mercato ed il processo di creazione di valore (ad esempio il ruolo svolto da Amazon nell’ecosistema delle transazioni di commercio elettronico, come soggetto che controlla gli scambi tra le parti e fornisce livelli di sicurezza elevati, accesso alla logistica e al sistema di pagamento, etc).

Uno dei motivi, infatti, per cui la PFO funziona così bene nell’industria cinematografica è l’esistenza di una piattaforma, che fornisce la gestione del progetto e l’integrazione dei processi, controllata dagli studios.

Nel mercato dei capitali destinati ai progetti biotech manca una piattaforma plug and play che accelererebbe le relazioni tra i soggetti coinvolti. Allo stato attuale comprendere il livello di esternalizzazione nel settore farmaceutico è piuttosto complicato. Ci sono in effetti molte aziende che offrono servizi diversi, dallo screening, a studi tossicologici, allo sviluppo pre-clinico, etc. Ogni organizzazione segue, però un approccio differente, adotta protocolli diversi, differenti standard analisi. Secondo Mark E. Davis, maggiore è il livello di esternalizzazione, maggiore è il rischio di fallimento: le persone coinvolte faranno quello per cui sono pagate, trascurando altre possibili attività critiche. Lo e Pisano affermano quindi che ciò che manca nello scenario attuale è appunto la presenza di una piattaforma che acceleri lo sviluppo del farmaco e riduca i costi. Quando si esternalizza, infatti, è necessario iniziare un difficile percorso di apprendimento nella relazione con il fornitore. O addirittura si potrebbe assistere a casi in cui programmi di sviluppo dell’azienda siano in concorrenza con quelli del fornitore creando disallineamento tra i partner. Come si è detto, il motivo per cui il modello PFO ha successo nel settore cinematografico è proprio la presenza di una piattaforma, controllata dallo studio che gestisce l’intero progetto ed integra le diverse conoscenze necessarie.

Nel settore farmaceutico un esempio di PFO è la partnership pubblico-privata I-PSY2 che sviluppa terapie per combattere il cancro al seno: coinvolge un gruppo di oncologi, biologi e biostatistici membri di enti diversi, il National Cancer Institute, la Food and Drug Administration, 20 tra i maggiori centri di ricerca sul cancro di Stati Uniti e Canada, e un certo numero di aziende, tutti focalizzati sullo sviluppo di una nuova terapia più efficace per la cura del tumore al seno. La collaborazione è organizzata come fosse una PFO: esiste per la sola durata dell’esperimento e poi è destinata a scomparire. I-PSY 2 offre una visione di quello che potrebbe essere considerato uno standard nel settore, un modo per facilitare l’integrazione, una piattaforma che realizza un processo il più trasparente possibile e anziché cercare ricavi da pochi grandi progetti, cattura valore da un gran numero di piccole iniziative progettuali.

Il secondo problema è l’assenza di un mercato dinamico per il testing: se i controlli proof of concepts (studi che si propongono di provare nell’uomo il concetto biologico e farmacodinamico di fondo circa il meccanismo di adozione di un nuovo farmaco[1], sono quindi una parte fondamentali nelle fasi di sviluppo di un nuovo farmaco) fossero sviluppati da terze parti, private, neutrali e ben specializzate, il processo sarebbe più efficiente e trasparente.

La validità del modello PFO si baserebbe, infatti, anche sulla possibilità di valorizzare questa fase della ricerca attraverso la vendita ad un’azienda farmaceutica. Il compratore si incaricherebbe delle fasi successive, quali l’approvazione da parte degli enti di regolazione e controllo, la commercializzazione ed il marketing. Oggi, anche se molte aziende comprano progetti nella fase proof-of-concept mediante vari tipi di licenze e accordi, il processo è estremamente complicato: negoziazioni, due diligence, e autorizzazioni interne posso richiedere anche parecchi mesi, la valutazione è altamente soggettiva e l’asimmetria informativa tra acquirente e venditore piuttosto alta.

Sarebbe quindi auspicabile, secondo Lo e Pisano, concentrare tutti gli sforzi per creare un mercato efficiente in grado di favorire accordi commerciali in questa fase specifica di sviluppo del farmaco. Secondo Phillip A. Sharp, sarebbe utile provare ad istituire delle istituzioni terze (agenzie di regolazione) in grado di definire che cosa è il proof of concept e come sia possibile valutarlo in modo certo e accettabile per tutti. La realtà però, è che questo settore è caratterizzato da un’incertezza di fondo elevatissima, che rende forse troppo complicato perseguire un tale risultato: la variazione dei bisogni clinici e in alcuni casi di indici di riferimento affidabili che possano mostrare la natura della patologia e la risposta al trattamento, rendono il processo troppo incerto.

Le PFO, comunque, potrebbero migliorare l’efficienza del processo globale di R&S nel settore farmaceutico consentendo una migliore diversificazione del rischio, una più dinamica allocazione delle risorse e un migliore allineamento degli incentivi. La loro adozione potrebbe, inoltre, diffondersi anche in altri settori, quale ad esempio quello delle imprese operanti in mercati a minore dinamismo, come quelli della consulenza. Le PFO sono, infatti, una risposta alla necessità di gestire operazioni con caratteristiche di unicità, novità e temporaneità.

D’altronde i due autori sono consapevoli che questo modello per gestire l’innovazione non andrebbe ad eliminare quelli già esistenti, più tradizionali, ma si affiancherebbe ad essi entrando in competizione. Le PFO, per altri versi, non rappresentano certo la soluzione perfetta: se da un lato garantiscono vantaggi, dall’altro sono carenti su elementi che costituiscono elementi di successo delle forme organizzative tradizionali: coordinamento trasversale di risorse, accumulo di competenze funzionali, economie di scala. Sarebbe quindi necessario proseguire il confronto su alcuni dei punti illustrati nell’articolo, nella consapevolezza che stimolare il dibattito su come organizzare l’innovazione è una assoluta priorità non solo nell’ambito della ricerca accademica.

Bibliografia

Assobiotec (2016) The Italian Biotech Industry: Facts & Figures.BioinItaly Report, Federchimica.

Bacchieri A., Della Cioppa G. (2004) Fondamenti della ricerca clinica, Springer.

Lo A.W., Pisano G.P. (2016) Lessons From Hollywood: A New Approach to Funding R&D, Sloan Management Review, Winter.

[1] Bacchieri e Della Cioppa, Fondamenti della ricerca clinica, Springer, Milano, 2004

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