Se la riduzione del tasso d’interesse potesse dimostrarsi di per sé sola un rimedio efficace, sarebbe forse possibile ottenere una ripresa senza il decorso di un intervallo considerevole di tempo e con mezzi sotto il controllo più o meno diretto dell’autorità monetaria. Ma di solito ciò di fatto non si verifica, e non è tanto facile resuscitare l’efficienza marginale del capitale, determinata com’è dalla incontrollabile e disubbidiente psicologia del mondo degli affari. Per esprimerci col linguaggio ordinario, è il ritorno della fiducia che è così poco suscettibile di controllo in un’economia capitalistica individualista
(J.M.Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, 2005: 509).
Primi spunti
1929 una crisi così non si era mai vista …
1973 una crisi così non si era mai vista …
1991 una crisi così non si era mai vista …
2008 una crisi così non si era mai vista …
Espressioni di senso comune, date convenzionali, intervalli asintotici tra una grande crisi e la successiva crisi forse ancora più grande, di certo più lunga.
Quella attuale attraversa tutte le economie occidentali. Ha assunto, è probabile, lo capiremo meglio, forse, nel giro di qualche anno, caratteri strutturali. Di certo drammatici. Nulla a che vedere con la tradizionale idea di ciclo economico così come definita da Keynes in poi, caratterizzata dall’alternarsi di fasi di espansione e recessione. Questa crisi ha più facce. Quella delle imprese che devono ripensare se e come crescere. O non crescere, facendo della dimensione piccola e media la propria forza. Quella delle famiglie che contraggono i propri consumi. Quella di un ceto medio che dopo avere scritto un pezzo importante dell’Europa moderna, sembrerebbe aver perso la propria forza e la capacità di accumulare, assistendo all’affermazione di nuove borghesie in grado di estollere se stesse e, contestualmente, rinnovati equilibri geopolitici.
Cosa può dire, e fare, la ricerca organizzativa di fronte a tutto questo? Che contributo può dare chi si occupa di Organizzazione Aziendale a una partita così delicata, perché vitale? Possiamo, come comunità di aziendalisti focalizzati sugli studi organizzativi gettar luce sul volto buio delle crisi? Ovvero sulla crisi interna alla produzione di pensiero, di idee e modelli alla base dei possibili modi, in realtà mai scontati e certi, per ek-sistere[1] e, quindi, di stare-insieme? Possiamo considerare, cioè, i plurali modi di costruzione e condivisione delle regole del gioco le determinanti dei processi di creazione di valore economico e sociale per le nostre imprese come per la nostra comunità scientifica e accademica?
Su queste domande così complesse e certamente di non facile soluzione, il punto di vista di seguito proposto[2] è filtrato dal cristallino dell’inclusione: categoria che da un lato si riallaccia al consolidato dibattito sulla crisi della razionalità che sottende i processi decisionali; dall’altro spinge i confini stessi della ricerca organizzativa verso territori da esplorare.
Nel paragrafo 2 lancerò “il punto su cui lavorare”: partendo da una concezione estensiva di Diversity Management[3], presenterò il costrutto dell’inclusione, così come declinato in una ricerca in corso da diversi anni, insieme ai colleghi Paolo Valerio e Stefano Oliverio[4]. Ascoltando la voce degli esclusi, ai margini rispetto a chi occupa il centro, ma centrali proprio nei momenti di crisi, ché nella crisi sanno svolgere un ruolo propulsivo.
Nel paragrafo 3, alcuni “appunti”: tornerò su temi classici dei nostri studi, a partire dal dibattito su la natura dell’organizzazione. Innanzitutto (a) con una riflessione sull’evoluzione del concetto di razionalità che sottende i processi di decision making, fino a ripensare (b) il ruolo stesso delle organizzazioni aziendali come mediatori sociali di contenimento dell’ansia, nella duplice accezione del verbo contenere, da con-tinère: qualcosa che è dentro qualcos’altro. Quindi fermare, tenere insieme che, per traslato, è trattenere, tenere in sé, arginare[5]. Fondamento di politiche inclusive per il diversity management.
Nel paragrafo 4 offrirò “un punto di vista sul diversity management”, presentando, in sintesi, il menzionato progetto portato avanti nell’ambito delle attività di ricerca, didattiche e di servizi (prima, seconda e terza missione) del centro SInAPSi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che indica un modo di essere dell’Ateneo federiciano. Come afferma il Magnifico Rettore dell’Ateneo, Gaetano Manfredi, nella prefazione a questa ricerca condotta con Valerio e Oliverio (p. 20):
… mi sembra importante che nel nuovo statuto dell’Università degli Studi di Napoli Federico II la garanzia «della parità e pari opportunità di genere» e dell’assenza «di qualunque forma di violenza morale o psicologica, di discriminazione diretta e indiretta relativa al genere e all’orientamento sessuale», rientri fra le «finalità istituzionali» (art. 4, comma 2) dell’Ateneo. Mi piace sottolineare la collocazione di questo richiamo: porlo fra le finalità istituzionali significa che l’Università manca al suo compito non solamente se omette di favorire «l’organizzazione, l’elaborazione e la trasmissione delle conoscenze, la formazione culturale e professionale, la crescita della coscienza civile degli studenti» (art. 2, comma 2), come da tradizionale impostazione, ma anche se fallisce la piena inclusione di tutti.
Ciò significa che l’inclusione non è un ammennicolo o l’ottemperanza a una norma esteriore, ma è nel DNA di un’istituzione accademica che sia all’altezza della sua missione propria.
Nel conclusivo paragrafo 5 proporrò alcune considerazioni su come l’intera riflessione possa consentire ulteriori potenzialità per l’evoluzione della nostra disciplina, da affidare innanzitutto alle prossime generazioni di studiosi.
Il punto su cui lavorare: un costrutto per l’inclusione organizzativa
L’inclusione avviene attraverso le sollecitazioni che, chi è al centro (con ruoli di governo delle pratiche vigenti), riceve da chi abita i margini. Sono i margini i luoghi in grado di stimolare una rilettura delle prassi prevalenti e del pensiero ad esse sotteso[6]. È da qua che si sprigionano le fonti del valore. A partire, parafrasando il filosofo José Medina[7], da quelle voci d’altrove che impongono una ricostruzione degli assetti dominanti che, per definizione e statuto, in quanto tali, necessariamente producono esclusione. Per la necessità di affermare se stessi. Parlare di inclusione si può, dunque, sempre e in linea di principio, a partire dai margini, dall’interno di quelle situazioni in cui l’inclusione è violata: insomma, l’inclusione come non-esclusione, lì dove il non, però, sta a indicare la re-sistenza, necessaria alla Ek-sistenza[8].
Riprendendo quanto affermato nella menzionata ricerca con i colleghi Oliverio e Valerio[9], potremmo dire che l’inclusione è una forma di ex-marginalizzazione, in triplice accezione. Ovvero: (a) un modo di far uscire dal confino ai margini; (b) partendo però dai margini in modo tale che (c) i margini vengano sorpassati e quindi divengano ex.
In questo senso, il costrutto dell’inclusione è ben diverso dalla logica della integrazione che prevede cornici invarianti, mentre viene richiesto a chi è fuori di modificare se stesso per essere, appunto, integrato nel contesto dato. L’inclusione, insomma, come riorganizzazione attivata dalla sollecitazione di chi è fuori, imponendo a chi è dentro di rivedere – insieme con chi (era) inizialmente fuori – vocabolari teorici, procedure, istituzioni, in modo da rimuovere le cause dell’esclusione.
Una diversità che fonda sulla possibilità di ribaltare l’angolo visuale delle visioni tradizionali di diversity management, assumendo quello proprio di coloro che sono in posizioni liminali. Non tanto, insomma, perché questi ultimi possono entrare nella funzione di utilità marginale decrescente da intersecare con quella dei rendimenti di scala crescenti quando la capacità produttiva è sottoutilizzata e decrescenti in prossimità di pieno regime. Ovvero un’idea dei margini, ancillari alla prospettiva (il centro) di chi governa i processi decisionali. I margini, piuttosto, possono avere un’altra responsabilità: quella di essere fonte di apprendimento e di conoscenza manageriale. E nel momento in cui le categorie apprendimento e fonte di conoscenza anticipano quella fondante la tradizione del pensiero economico, l’utilità, si apre la necessità di riflettere sulle plurali forme di razionalità che orientano i modi di stare e di stare insieme, di imparare, distinguendo tra obiettivi di breve, medio e lungo periodo[10].
Lungo questa stessa linea di pensiero, la ricerca in materia di organizzazione aziendale, attraverso il costrutto dell’inclusione così come su presentato, mostra, nel lungo periodo, forti potenzialità di Ek-sistenza, agganciate alla nostra capacità di re-sistenza, come a grandi pennellate proporrò nei prossimi paragrafi. Confidando, naturalmente, che questo approccio possa trovare elaborazione in futuri percorsi della nostra comunità.
Appunti sulla natura delle organizzazioni
Quando nel 1985 la nostra comunità fu fecondata da Organizzazione & Mercato[11], si provocò una visione potente, rigorosa e integrata sui criteri che orientano l’efficienza delle strutture economiche, da valutare, di volta in volta, attraverso la validità, in una prospettiva manageriale, dei possibili assetti. L’impresa era spiegata a noi, allora studenti, come costrutto che attraverso la gerarchia consentiva di comprendere la natura dell’organizzazione, in alternativa ai mercati che operano attraverso i prezzi[12]. Le domande che orientavano la nostra formazione erano quelle della recente evoluzione della teoria economica: perché esistono le imprese? Perché un grande segmento delle attività di produzione non viene coordinato attraverso gli scambi di mercato? Perché esistono “isole di potere” che si muovono non in virtù di scambi di mercato, ma dell’autorità dell’imprenditore? Domande basate su idee largamente diffuse: il concetto di rendimento decrescente della funzione imprenditoriale in ragione dei limiti del management nel coordinamento di un numero crescente di attività; l’assunto che la scelta tra le due forme dipende dal confronto tra costo di una transazione addizionale sul mercato e costo dell’organizzazione interna della stessa transazione; tradizione marginalista. Su questa scia, Organizzazione & Mercato ci proponeva il contributo di Williamson[13] (coronato nel 2009, con il Nobel “per la sua analisi della governance economica specialmente per i limiti dell’impresa”), con una lettura delle relazioni contrattuali che presiedono l’esistenza stessa dell’impresa[14].
Parallelamente, in un saggio del 1985[15], negli anni, cioè, in cui si dibatteva dell’identità della ricerca economico-aziendale, Sergio Vaccà raccomandava, per una comprensione profonda dell’allora emergente economia post fordista e, specularmente, per definire con rigore teorico le rappresentazioni e le formulazioni nella teoria d’impresa, di riconoscere il ruolo centrale dell’impresa industriale, dove centrale sta a indicare anche la sua posizione intermedia (di regolazione, appunto) tra le dinamiche macroeconomiche (tagliate sempre di più sul sistema di relazioni internazionali con il territorio) e le dinamiche di comportamento micro, che interessano quindi i singoli, siano essi imprenditori o manager, i consumatori, i cittadini etc.: si tratta di “una frontiera non eludibile” (p. 13)
perché l’impresa genera il cambiamento che si osserva a livello di macrosistema; e simmetricamente, il cambiamento del macrosistema non è osservabile in modo teoreticamente satisfattivo nella realtà delle singole imprese. La dinamica evolutiva e innovativa della realtà industriale connette infatti continuamente micro e macro, in una dialettica interattiva che non rende ormai comprensibile l’uno senza l’altro.
Come agganciarci, oggi, con la nostra tradizione, alla comprensione di contesti competitivi connotati da una crisi come su enunciato? Come articolare quel dibattito, percorrendo ulteriori sentieri? Possiamo ipotizzare che la natura dell’impresa (The nature of the firm) debba essere ampliato? E che il ruolo principale delle organizzazioni, nella regolazione dei modi di stare insieme (re-sistenza ed Ek-sistenza) mai univoci e dati per scontati, possa arricchirsi attraverso un sano meticciato, tutto interno ai saperi umanistici e sociali?
Per accennare qualche risposta, vorrei proporre di seguito due ordini di suggestioni anch’esse nel solco della tradizione dei nostri studi, consolidate nella letteratura economica e organizzativa: (a) quello dell’eclissi della razionalità assoluta, che si afferma da tempo nelle teorie e nelle pratiche e organizzative, che consente (b) di considerare le organizzazioni, negli odierni sistemi competitivi, mediatori sociali per la gestione dell’ansia. Direi che questo doppio registro opera da premessa al paragrafo 3, in cui illustrerò a grandi linee la ricerca in corso in Ateneo sul diversity management.
(a) Limiti alla razionalità
Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che definiremo senso della possibilità […]. Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è[16].
L’assenza di qualità à la Musil getta luce su un’idea di gestione strategica delle organizzazioni che si afferma in corrispondenza del declino del concetto di decisione razionale in nome della “produzione di nuove possibilità d’azione”, non necessariamente improntate al calcolo a priori. Quest’ultimo appartiene per definizione al senso della realtà, mentre la gestione strategica afferisce al senso della possibilità (“quello che è […] quello che non è”)[17].
Il costrutto dell’inclusione, afferendo al senso della possibilità, va raccordato a questioni più ampie che da sempre interessano noi studiosi di organizzazione aziendale. Una per tutte quella delle plurali forme di razionalità sottostanti i processi di decision making. Razionalità plurali, che regolano, in ultima analisi, anche i modi di stare insieme, dati per scontati nei tempi di normale crescita e non più così facili e sicuri se si pensa a quanto stiamo vivendo a partire dal fatidico 15 settembre 2008[18].
La questione, in chiave aziendale, riguarda, almeno in parte, la non separabilità del piano (pensiero formale) dalle decisioni (azione), ampiamente trattata nelle nostre ricerche e di fatto punta dell’iceberg di un più articolato percorso che trova spazio su prestigiose riviste internazionali, con una attenzione sempre più sofisticata, nella messa a fuoco dei meccanismi che orientano i processi di decision making. Il riferimento naturale e più semplice è al contributo di Mintzberg[19]: allora giovane e dirompente, rispetto alla tradizione centrata sulla pianificazione formale di matrice harvardiana, assegnava un ruolo dialettico (e non automaticamente gerarchico) agli emisferi del sistema nervoso centrale, destro e sinistro, per la corretta costruzione dei processi decisionali. Di fatto lo stato dell’arte della ricerca più avanzata in materia di neuroscienze sa davvero poco di come funziona il cervello nei processi decisionali, ma la suggestione di Mintzberg spesso empiricamente corroborata (e da collocare nella metà degli anni Settanta, a ridosso della prima grande crisi dopo l’espansione ininterrotta dal Secondo Dopoguerra), resta un utile sparring partner specie se liberamente associata, a mio avviso, a un contestuale movimento che ha interessato gli studi economici, con l’assegnazione, nel 1978, del premio Nobel per l’Economia a Herbert Simon “per le sue pioneristiche ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche”. Un contributo che, irrompendo nella tradizione economica neoclassica, introduce il concetto di razionalità limitata (bounded rationality), centrale per il pensiero e l’azione manageriale guidata da limiti cognitivi e da un ammontare finito di risorse in presenza di costi associati a contratti incompleti[20].
(b) Organizzazioni come mediatori sociali per la gestione dell’ansia
A fronte dell’incompletezza dei contratti, della centralità dell’impresa industriale nel connettere dimensione micro e macro, tenuto conto dei plurali percorsi per declinare i limiti della razionalità economica ipotizzata dal pensiero neoclassico, considerato l’andamento delle crisi, vorrei affermare l’esigenza di locupletare la natura dell’organizzazione aderendo, contestualmente, a quella idea di azione cooperativa [21] che è alla base degli studi sull’organizzazione. Da alcuni anni, in quella direzione, sta crescendo l’attenzione su percorsi tesi a evidenziare come questa natura sia più articolata di quanto la letteratura di industrial organization ci abbia proposto. Sto pensando, per esempio, al Tavistock Institute di Londra[22] che ha saputo raccogliere la sfida di fare incontrare ambiti di conoscenza tra loro (forse solo apparentemente) molto diversi, offrendo metodologie di analisi delle istituzioni, sia a scopi di ricerca-azione sia di diagnosi organizzativa. In tal contesto si afferma l’idea che oltre alle funzioni dichiarate, esplicite, visibili, formalizzate e condivise, ne esistono altre che arricchiscono la natura delle nostre organizzazione: sono quelle invisibili, ma non per questo meno importanti. Anzi, direi il contrario. Le dimensioni invisibili sono naturalmente anche quelle più marginali e, in quanto tali, seguendo il costrutto dell’inclusione presentato al paragrafo 2, sono nel lungo periodo (attraverso il senso della possibilità che arricchisce quello della realtà) potenti fonti di apprendimento, di conoscenza e di creazione di valore.
Insomma, le nostre organizzazioni, quelle che abitiamo tutti i giorni, hanno sia compiti espliciti e visibili, come quelli su richiamati (costi di transazione, interazione micro-macro, creazione di valore economico e finanziario, etc.); sia compiti invisibili, nascosti, impliciti. Questi ultimi hanno come ufficio primario, benché non esclusivo, la mediazione sociale, a partire dalla gestione dell’ansia.
Se considerate come sistemi specializzati nella gestione dell’ansia, le organizzazioni assurgono a contenitori, sia nell’accezione di spazio che contiene qualcosa (le ansie), sia nella “funzione di contenimento”, di marca propriamente infantile. È questo il duplice significato derivato dal modello “contenitore/contenuto” di W.R. Bion (allievo di Freud e tra i padri del Tavistock) per evidenziare una funzione (anche in senso matematico di relazione fra due entità), imprescindibile per il procedere mentale e per comprendere lo sviluppo della personalità[23]. Le moderne organizzazioni aziendali svolgono anche questo ruolo: danno lavoro, conferiscono identità, scandiscono i tempi del sonno e della veglia, della produttività e degli affetti, stabiliscono il grado di aggressività socialmente necessario e la quota sanzionabile. Sono metronomo. Segnano il principio di inizio e fine. È questo, in ultima analisi, un ruolo assai significativo che, su più ampia scala, si può attribuire a quel recente modo di organizzare le attività umane, che chiamiamo capitalismo industriale. La questione riguarda dunque tutte le organizzazioni che, per definizione, a mio avviso, svolgono funzioni di mediazione sociale[24]: una grande impresa industriale, una organizzazioni di servizi, una media impresa manifatturiera, una istituzione scolastica, un partito politico, una organizzazione religiosa etc.
Per chiarire, vorrei proporre un esempio, quello delle Università, perché queste sono organizzazioni che ben conosciamo e abitiamo tutti i giorni.
Le nostre Università hanno il compito di fare ricerca (prima missione); di fornire istruzione, educazione, conoscenze e competenze attraverso la didattica (seconda missione); di essere in dialogo con la società e con il territorio (terza missione). Questa è, grosso modo, la declaratoria odierna, esplicita e visibile.
A un livello meno esplicito, si tratta di organizzazioni destinate a gestire l’ansia rispetto a tutto ciò che (peraltro paradossalmente, di questi tempi) non è fino in fondo davvero misurabile, palpabile, finalistico o finalizzato. A ben guardare la funzione dell’università è associabile (anche) alle attese che le famiglie (che investono sui percorsi di formazione dei figli) attribuiscono a noi docenti: a volte, queste attese non sono consapevoli e, quindi, è possibile che non trovino esplicita formalizzazione contrattuale. Analoga incompletezza dei contratti risiede nei ruoli associati alle fantasie degli stessi studenti sul nostro accompagnar loro lungo le fasi più vicine al diretto contatto con la disciplina del mondo del lavoro. E fin qua per ciò che concerne la didattica. Se poi l’esempio si estendesse alle attività di ricerca (pensiamo, in ambito scientifico, a quelle legate ai grandi temi della salute che contengono importanti speranze collettive), la dimensione implicita (nel senso di non esplicitata) dell’agire organizzativo guidato da fantasie inconsce e aspettative assume connotati ulteriormente complessi che necessariamente interessano il coordinamento, la natura dell’impresa, i nostri studi, sia quando ci occupiamo di progettazione delle strutture, sia di comportamento organizzativo e risorse umane. Sia, ovviamente, quando ci immergiamo nelle aziende, con realismo, confrontandoci praticamente con l’incompletezza dei contratti che attraversa la dialettica tra design e behaviour[25].
In proposito, vorrei riprendere tre tipi di ansie che incidono su queste dinamiche, operative e mai eludibili, design/behaviour e, di conseguenza, sulla nostra prospettiva di studiosi di organizzazione aziendale:
- ansia primitiva, onnipresente, onnicomprensiva, che appartiene al destino dei singoli e dell’umanità[26]
- ansia che deriva dalla natura della microstruttura del lavoro. Essa, entrando in risonanza con quella primitiva, innesca aspetti di
- ansia individuale. Quest’ultima va letta dunque in relazione con le prime due, allo scopo di comprendere correttamente il cambiamento, con le associate potenzialità e resistenze.
Le organizzazioni abitate durante la maggior parte del tempo della nostra vita adulta aiutano proprio a gestire queste ansie e il relativo timore dell’ignoto: è la loro funzione invisibile[27], poiché quel che accade nei processi di divisione del lavoro e di coordinamento è influenzato da molte funzioni associativo-difensive, per tollerare l’ansia primitiva[28].
Per concludere questi “appunti sulla natura delle organizzazioni” possiamo affermare che il ruolo delle organizzazioni come regolatori dell’ansia è forse da sempre attivo anche se considerato liminale perché poco visibile. Nel prossimo paragrafo presenterò sinteticamente il punto di vista di una ricerca sul diversity management, che fonda su una visione ampia della natura dell’organizzazione, inclusiva sia di dimensioni visibili che di dimensioni invisibili. In quella ricerca la gestione dell’ansia è un fattore critico, proprio perché considerato marginale dalla letteratura mainstream e dalle pratiche istituzionalizzate. E la marginalità, come si è detto, è a sua volta l’ingrediente principale delle strategie inclusive di diversity management.
Un punto di vista sul diversity management
“L’auspicio, naturalmente, è che si possa giungere, nel tempo, a non doverne più parlare”.
È con questa affermazione che aprivo il mio intervento conclusivo alla Tavola Rotonda: “Transitare al lavoro: inclusione e buone pratiche”, organizzata dal Centro di Ateneo SInAPSi dell’Università di Napoli Federico II il 28 febbraio 2013, nella cornice della manifestazione “Diversitalavoro” [29]. In quella affermazione, si collocano le radici della menzionata ricerca, relativa alle sfide connesse all’inserimento lavorativo e nel mondo delle aziende delle persone gender nonconforming[30].
Il carattere di sfida deriva anzitutto dalla peculiarità del contesto economico italiano che, come ribadito in un recente rapporto dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale (UNAR) presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (p. 18) [31]:
costituisce, all’interno dei paesi cosiddetti industrializzati, un ambiente particolarmente critico in termini di pervasività e frequenza della discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, e che le persone LGBT[32] in Italia subiscono maggiore esclusione sociale e minore qualità della vita rispetto alla maggioranza dei paesi occidentali
Il medesimo rapporto, pur sottolineando che “l’aspetto geografico non sia assolutamente l’unico rilevante”, segnalava come “[a]ll’interno dell’Italia, sembra esserci evidenza di un ambiente più ostile nei confronti delle persone LGBT nelle regioni del Sud”. Il significato dell’iniziativa federiciana era, quindi, legato all’esigenza di interrogarsi proprio a partire dal Mezzogiorno, probabilmente più resistente a pratiche inclusive.
Questa attenzione all’inclusione (anche nel solco della migliore tradizione meridionalista) risponde a una precisa filosofia di SInAPSi sostenuta dal costrutto che ho indicato al precedente paragrafo 2, rispetto al quale l’inserimento nelle organizzazioni aziendali di persone gender nonconforming rappresenta un ganglio vitale.
In proposito, rileva il menzionato rapporto UNAR (p. 7):
il mercato del lavoro [è] un ambito prioritario e centrale per il processo di rimozione delle discriminazioni subite dalle persone LGBT:
(i) perché per la maggior parte degli individui, in particolare per quelli a maggior rischio di esclusione sociale, il mercato del lavoro costituisce la principale fonte di reddito, e quindi di empowerment (ovvero di crescita delle possibilità materiali di sostentamento, di autonomia individuale e quindi di azione sociale);
(ii) per la centralità sociale e culturale del lavoro nelle società capitalistiche, e il conseguente status e prestigio sociale legati alla posizione ricoperta da ogni individuo nella divisione sociale del lavoro.
Grazie ad azioni mirate, il lavoro può dunque costituire il veicolo di efficace e maturo potenziamento della cultura dell’inclusione, contro ogni tipo di discriminazione per la promozione delle pari opportunità, favorendo il superamento di stereotipi riferiti alle persone LGBT.
Inoltre se, in linea di principio, il lavoro è cardinale per l’inclusione sociale degli adulti (sul duplice registro dell’autonomia individuale, per la disponibilità di reddito che ne deriva e per lo status sociale a esso collegato)
[n]el caso delle persone LGBT, […], c’è un terzo fattore che fa del mercato del lavoro un ambito cruciale per le politiche contro la discriminazione: poiché in Italia il Welfare State è fortemente legato all’esperienza lavorativa, ma anche crucialmente dipendente dalle reti di assistenza famigliare e dalla produzione domestica di beni e servizi (ad esempio di cura), il minor grado di supporto famigliare di cui le persone LGBT godono per via della discriminazione anche in questo ambito […], fa sì che dal lavoro dipenda anche l’accesso a una serie di beni e servizi pubblici la cui fruizione sarebbe altrimenti molto difficile per le persone LGBT[33].
In tempi di crisi, quando diminuiscono i tassi occupazionali, vengono ridotte le risorse allocate per il welfare e la coesione sociale rischia di sfarinarsi, le persone ai margini vengono maggiormente toccate e rese oggetto di discriminazione, minore è l’apertura alla diversità, quasi che l’inclusione non fosse il motore di una società democratica, ma un lusso delle società opulente[34].
In tale contesto, questa nostra ricerca appare una risposta diretta alla crisi, intesa come crisi di pensiero, innanzitutto. Una crisi che sottende la prassìa del quotidiano. Nella convinzione che le teorie fanno da sgabello alle pratiche che ci riguardano. E, in particolare, nella convinzione che le teorie date come buone negli anni buoni, non funzionano più quando le cose non vanno come previsto o, almeno, come ci era stato raccontato. Occorre allora, innanzitutto, ri-pensare. E poi, diversamente, agire.
La nostra è dunque, innanzitutto, una proposta di metodologia della ricerca: mettere sotto la lente del microscopio un tema finora considerato di nicchia, in parte anche di confine o marginale, soprattutto nelle nostre discipline di marca aziendale e, attraverso esse, vedere ingrandite, come avviene sotto la lente di un microscopio, dinamiche dell’agire organizzativo in realtà presenti anche altrove, lontano dal contesto di partenza, anche in quelle organizzazioni più studiate e centrali nella letteratura prevalente. Rinnovando così, nelle pratiche della ricerca, il costrutto dell’inclusione sopra proposto. Questa prospettiva epistemologica è figlia dell’esperienza che ha accompagnato il mio lavoro di ricerca dalla metà degli anni Novanta in poi nel settore della cultura e dello spettacolo[35]: le premesse sulle fonti della conoscenza manageriale e organizzativa[36] restano in parte costanti, mentre cambia, qua, l’area di interesse e l’asse interdisciplinare[37] che, come afferma il Rettore Manfredi nella prefazione a Transformare (p. 21),
in questa esperienza ha coinvolto da un lato esperti dei più diversi campi, dall’altro l’intera catena del valore della nostra comunità accademica: gli studenti dei Corsi di Studio triennali e magistrali fino agli studenti di dottorato, tutti partecipi, con differenti livelli di maturità, nei focus group tenuti da Oliverio, Sicca e Valerio. Questo volume testimonia, dunque, la dimensione processuale della triade ricerca-didattica-servizi, lungo una progettualità integrata che consente a una università che voglia essere competitiva di rivolgersi anche ad attori non accademici.
Insomma, cambia il contesto empirico, ma l’impostazione che sottende la metodologia è in continuità con un movimento lungo i margini e le frontiere della ricerca e delle pratiche organizzative, preziosa fonte, specie in tempi di crisi.
Ulteriori piccoli spunti: prospettive per la ricerca organizzativa
Ho proposto uno sguardo sul mondo (paragrafo 1) da approfondire, indagare in futuro con gli strumenti della ricerca applicata e i linguaggi della comunità accademica internazionale che ci stimola a un confronto sempre più ampio, ricco e impegnativo. Uno sguardo sulla crisi che stiamo vivendo in questi anni, da pensare, leggere e interpretare, a mio avviso, come crisi di pensiero e di strutture teoriche. Assegnando quindi a ciò che è visibile (per esempio la crisi finanziaria internazionale) il ruolo di sintomo, punta dell’iceberg di dinamiche più profonde, complesse e di difficile soluzione.
Ho evidenziato, in questa cornice, come dal potenziale di discernimento e di critica che nasce dalla crisi, possa essere ripensato il rapporto tra ciò che in tempi normali è considerato centro e ciò che è considerato periferia, margine, liminalità[38]. Giungendo così a proporre un costrutto teorico sull’inclusione (paragrafo 2), fonte di conoscenza e di saperi organizzativi e manageriali, in movimento costante intorno alle plurali tipologie di razionalità che orientano i processi di decision making dei nostri manager (paragrafo 3/a). Un esempio immediato di questo essere fonte di conoscenze organizzative e manageriali è dato da un apparente paradosso che è emerso nel paragrafo 3 (b): da un lato, in tempi di crisi, le principali strutture di mediazione sociale che il Novecento ci aveva consegnato (impresa, partiti politici, scuole e università, parrocchie) si stanno sgretolando. Dall’altro, proprio in questi anni di crisi, quella funzione di mediazione (tradizionalmente ritenuta invisibile e implicita, comunque non pienamente formalizzata nei contratti, per definizione incompleti, secondo la tradizione della teoria economica) risulta – in quasi absentia – sempre più necessaria, visibile ed esplicita. Ne deriva un primo quesito: potremmo ritenere, per esempio, questa apparente contraddizione una manifestazione reale del concetto di inclusione come su proposto? Un caso di specie, cioè, di quella ex-marginalizzazione, che nasce da dimensioni invisibili dell’agire organizzativo, per affermarsi sollecitando chi è al centro con ruoli di governo?
Ho poi illustrato (paragrafo 4), in estrema sintesi, le linee di una ricerca in corso, che ha visto una tappa pubblica in un volume che si interessa di un specifico aspetto interno al dibattito sul diversity management: quello dell’identità di genere e delle sue complesse e articolate varianze, a confronto con il mondo del lavoro.
Il costrutto dell’inclusione, come declinato attraverso la centralità della liminalità, rimanda a due categorie trasversali al lavoro di ricerca che ho costantemente richiamato nel corso delle precedenti pagine. Due categorie al tempo stesso saldamente ancorate alla storia del pensiero e, forse proprio per questo, di grande stimolo per il presente e il futuro della ricerca organizzativa: mi riferisco a re-sistenza e a Ek-sistenza. Ne ho discusso l’etimologia allo scopo di evidenziare come Ek-sistere sia, insomma, l’agire organizzativo, il progetto, la tensione a muoversi in avanti, in dialogo con la nostra storia (la re-sistenza), il nostro passato: un’organizzazione che ek-siste solamente, ossia esclusivamente proiettata in avanti, ovviamente rischia di dissolversi, in quanto non ancorata al senso del tempo. In quel caso è proprio la re-sistenza lo strumento di espressione – più o meno funzionale – della continuità[39].
Lungo questo duplice versante ci stiamo lavorando su, in questi anni, in numerosi contesti: in seno all’ European Academy of Management (EURAM)[40], con il contributo di autorevoli colleghi, la nostra esperienza nell’ambito del SIG 01: Business for Society sta crescendo con interesse e ampi riscontri, anche con ricerche tarate sul tema dell’inclusione nell’accezione illustrata nelle precedenti pagine. Il termometro della comunità scientifica internazionale sembra registrare sincero interesse a questa impostazione: è oramai un dato, specialmente tra i giovani ricercatori, che stanno arricchendo la sfera degli studi organizzativi sul diversity management. La cifra più significativa è data da un massiccio lavoro empirico, fondato sullo studio di casi, con la finalità di cogliere le forme che, di volta in volta, connettono passato, presente e futuro: in tal senso, segnalo la partnership tra Università degli Studi di Napoli Federico II e il centro Equality and Diversity dell’Università dell’Essex, come anche il costante lavoro di interazione con le istituzioni sul territorio, come il Dottorato in Management del nostro Ateneo in convenzione con l’Università Parthenope e la Seconda Università degli Studi di Napoli; il tavolo bilaterale Unione Industriali di Napoli-Università Federico II, il Gruppo di lavoro “Pluralità identitarie, questioni di genere, orientamenti sessuali” del Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica (CIRB)[41].
Le condizioni di crisi della razionalità a supporto delle analisi organizzativa e l’approfondimento della dialettica tra re-sistenza ed Ek-sistenza trova terreno fertile nella crescente attenzione rivolta al simbolismo come metodo di ricerca: come annunciato anche in occasione dell’ultima Assemblea ASSIOA[42], il 35°convegno della Standing Conference on Organizational Symbolism (SCOS) si terrà a Roma dal 10 al 13 luglio 2017, ponendo la parola chiave Carne al centro della Call, oggi a disposizione della nostra comunità scientifica: una provocazione e uno stimolo a tutti noi, secondo la tradizione SCOS. Keynote speaker sarà il collega e amico Antonio Strati, testimone sin dalle origini di quella storia, dal 1980 in poi. Ascolteremo i vissuti nel corpo di SCOS, inizialmente costola di EGOS, da anni realtà autonoma e preziosa per alimentare ulteriori punti di vista.
Una chiosa, tra re-sistenza ed Ek-sistenza, traslando il costrutto dell’inclusione (come presentato nelle precedenti pagine) ai processi di divisione del lavoro cognitivo della nostra comunità scientifica: programmi di ricerca proposti trenta, quaranta anni fa come pionieristici sono divenuti poi, nel medio lungo termine, proposizioni largamente riconosciute e adottate, in grado addirittura di avere impatto duraturo sulla vita delle imprese e per i mercati in cui esse operano. Questo è un processo di inclusione secondo i criteri proposti sopra: chi avrebbe immaginato, ad esempio, che i “modelli di pianificazione” o la riflessione sulla “gestione dello sviluppo dimensionale”, insieme a molte altre tesi provenienti per lo più dalle pratiche e dalla letteratura statunitense, avrebbero potuto trovare cittadinanza in un contesto accademico e industriale come il nostro, non avendo praticamente quasi nulla in comune con la tradizione italiana e con le teorie di riferimento degli anni Venti e Trenta?[43] Con quelle che, da Zappa in poi, proponevano come grandi innovazioni (“cambiamenti strutturali”), per esempio, il concetto di unitarietà della gestione e l’idea di un modo unico di misurare il risultato, alla fine della vita dell’impresa, considerando “espedienti” le analisi parziali? Chi avrebbe detto, allora, che il concetto stesso di reddito di esercizio o la capitalizzazione dei redditi futuri e altre analoghe tematiche considerate di frontiera sarebbero divenute, senza alcuna esitazione, grammatica del linguaggio mainstream negli studi aziendali?
Intorno a questo modo di interrogarsi, probabilmente, ruotano le potenzialità dei margini, la forza che hanno nello stimolare il centro, di includere e non di integrare, di produrre apprendimento e conoscenze manageriali, come affermato al paragrafo 2. Riproponendo così, innanzitutto, una questione epistemologica, filo conduttore e tensione costante della storia dell’economia aziendale[44], sia con riferimento all’evoluzione del pensiero che orienta le nostre ricerche, sia con riferimento alle agìti più diffusi. Tensione epistemologica che, da sempre, attraversa le mura delle nostre discipline, in ambito italiano e in quello internazionale: in proposito, ai primi anni Novanta un ristretto gruppo di studiosi[45] – assegnando al ruolo sociale dell’intellettuale una funzione propositiva piuttosto che di mero sacerdozio con la tradizione o di notariato di un cambiamento attivato da altri – presentava cinque aree su cui lavorare, relative a:
- i problemi di confine con altre discipline
- la soggettività e il soggettivismo nelle nostre discipline
- il carattere normativo o positivo
- il tema della misurabilità
- la falsificabilità degli esperimenti
giungendo ad affermare la centralità del metodo come linguaggio condiviso. Ecco, possiamo rilanciare, posizionando l’inclusione al rango di metodo, per affrontare sia questioni squisitamente teoriche, sia per orientare, eventualmente, le pratiche manageriali: una sfida consustanziale alla ricerca aziendale, da lanciare innanzitutto ai giovani che, con autentico senso dell’internazionalizzazione, tra re-sistenza ed Ek-sistenza dovranno necessariamente includere nel proprio orizzonte, tanto l’andamento asintotico dei cicli economici, delle crisi e dei contesti; quanto la frontiera del pensiero, della ricerca e dell’azione organizzativa.
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* Professore ordinario di Organizzazione Aziendale e di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane, Università degli Studi di Napoli Federico II, è membro del Consiglio Direttivo di SInAPSi (Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti), centro di Ateneo federiciano.
Note
[1] Su significato di questa espressione, traversale nell’esposizione di questo mio “punto di vista”, tornerò nelle prossime pagine, per darne più completa argomentazione nelle conclusioni avendo come riferimento M. Heidegger, Sein und Zeit, Halle, 1927 [I ed.], [tr. it. Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976].
[2] Desidero ringraziare l’amico e collega Marcello Martinez per avermi invitato a questo contributo, in occasione della giornata dal titolo: “Temi emergenti e prospettive a confronto nell’Organizzazione Aziendale” tenuta presso la LUISS, Mercoledì 20 aprile 2016. Ringrazio altresì i proff. Paolo de Vita e Paolo Valerio per l’attenta lettura e gli utili commenti.
[3] M. Pezzillo I., V. Esposito, L.M. Sicca, Diversity management: un problema di retorica del linguaggio manageriale?, in M.C. Di Guardo e al. (a cura di), Per lo sviluppo, la competitività e l’innovazione del sistema economico. Il contributo degli studi di Organizzazione Aziendale – Atti del X Workshop di Organizzazione Aziendale, Milano, Franco Angeli, 2009: 277-301; L. Solari, La non neutralità dei modelli di gestione delle risorse umane, in Oliverio, S., Sicca, L.M., Valerio, P. Transformare le pratiche nelle organizzazioni di lavoro e di pensiero, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015: 47-68.
[4] I cui risultati sono pubblicati nel volume: S. Oliverio, L.M. Sicca, P. Valerio, op. cit., 2015.
[5] L.M. Sicca, O l’impresa, o la vita. Storie organizzative ed epiche, Milano, Egea [II ed.], 2016.
[6] Le crisi che (con la ciclicità richiamata in incipit) accompagnano la nostra storia hanno la funzione cruciale di evidenziare questa dialettica tra centro e periferia. Perché spesso, in quelle fasi, ciò che si percepisce, anche nel senso comune, contiene una crisi del pensiero, dopo che esso ha attraversato la fase di maturità del proprio ciclo di vita. È questo, d’altra parte, il significato stesso della parola crisi, (κρίσις) dal greco (κρίνω) è separare. Quindi discernere, giudicare, valutare. Avere criterio (κριτήριον) è un modo di evocare il buon senso, quello che va in automatico, comunque precede, anche di poco, l’azione.
[7] J. Medina, Speaking from Elsewhere. A New Contextualist Perspective on Meaning, Identity, and Discursive Agency, Albany (NY), SUNY Press, 2006.
[8] Il prefisso re-, designa ciò che rimane indietro; la radice –sistere indica ciò che sta, sus-siste. Ora, se la resistenza è quella forma dello stare-indietro, ek-sistere è, al contrario, la proiezione in avanti dei modi di quello stare insieme menzionato in apertura. Nello spunto iniziale. Ek-sistere, insomma, è l’agire organizzativo, il progetto, la tensione a muoversi in avanti, in dialogo con (la re-sistenza) la nostra storia, il nostro passato.
[9] S. Oliverio, L.M. Sicca e P. Valerio, Una specie d’introduzione: l’inclusione come ex-marginalizzazione, in Oliverio, S., Sicca, L.M., Valerio P., op. cit., 2015: 23-34.
[10] Il distinguo tra breve, medio e lungo termine è questione connaturata alla storia del pensiero economico- manageriale ed è così formulabile: investire sulle logiche della convivenza e dello stare insieme; generare apprendimento organizzativo; creare nuove fonti di conoscenza, etc. sono mezzi o fini? Le risposte dipendono (anche) dagli orizzonti temporali e dalle caratteristiche dell’organizzazione che voglia investire in inclusione: avremo esiti diversi, per esempio in una media impresa di stampo famigliare, come ce ne sono tante nel contesto industriale italiano, o una multinazionale con vita scandita dagli obiettivi dei manager; in una Università radicata sul territorio; o una piccola start up, e cosi via. L’amplissima questione teorica (mai fino in fondo – probabilmente – davvero risolvibile) del rapporto tra mezzi e fini, va letta, a mio avviso, tenendo conto che i primi non sono, per definizione, mai neutrali rispetto ai secondi: insomma, apprendimento, inclusione, modi di stare insieme, etc, sono al tempo stesso strumenti e fini, in ragione dell’orizzonte temporale, che determina la specifica funzione di utilità di una data organizzazione. Ponendo quindi, a monte, una questione etica (quali sono le gerarchie che definiscono l’utilità?) che interessa gli studiosi di aziende: etica perché pone il decision maker di fronte a scelte responsabili (escludendone quindi altre), in ragione delle scale di valori assunte. Ho sviluppato questo tema in termini teoretici in diverse occasioni, essendo a mio avviso cruciale per comprendere le dinamiche, anche operative, che orientano i processi organizzativi. Rinvio a titolo esemplificativo a L.M. Sicca, Le ragioni di una ricerca, in Sicca, L.M. (a cura di) I linguaggi dell’organizzare. Musica e testo tra dono e disinteresse, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012: 7-29
[11] R.C.D. Nacamulli, A. Rugiadini (a cura di), Organizzazione & Mercato, Bologna, Il Mulino, 1985.
[12] R.H. Coase, The Nature of the Firm, “Economica”, 4/16: 386-405, 1937.
[13] Oliver E. Williamson, Markets and Hierarchies: Analysis and Antitrust Implications, New York, Free Press, 1975 [tr. it. (del capitolo 2) Mercati e gerarchie, in Nacamulli, R.C.D., Rugiadini, A. (a cura di), op. cit., 1985: 161- 186]; Oliver E. Williamson, The Economics of Organization: The Transaction Cost Approach, “American Journal of Sociology”, 87/3: 548-577, 1981 [tr. it. L’economia dell’Organizzazione. Il modello dei costi di transazione in Nacamulli, R.C.D., Rugiadini, A. (a cura di), op. cit., 1985: 285- 315]; Oliver E. Williamson, The organization of work a comparative institutional assessment, “Journal of Economic Behavior & Organization”, 1/1: 5-38, 1980 [tr. it. Strutture alternative di lavoro ed efficienza economica, in Nacamulli, R.C.D., Rugiadini, A. (a cura di), op. cit., 1985: 513- 550].
[14] Per un più ampio inquadramento delle posizioni di Williamson si rinvia a J.R. Commons, Institutional Economics, “American Economic Review”, 21/4, 1931: 648–657; J.R. Commons, Institutional Economics—Its Place in Political Economy, New York, Macmillan, 1934 ; H.A. Simon, op. cit., 1947; K.J. Arrow, L. Hurwicz, Decision making under ignorance, in Carter C.F., Ford, J.L. (eds.), Uncertainty and Expectations in Economics. Essays in Honour of G.L.S. Shackle, Oxford, Basil Blackwell, 1972: 1-11; K.J. Arrow, The Limits of Organization, New York, Norton, 1974; A.D. Chandler, Strategy and Structure: Chapters in the History of the American Industrial Enterprise, Cambridge, The Mit Press, 1962 [tr. it. (IV ed.), Strategia e struttura. Storia della grande impresa americana Milano, Franco Angeli, 1993]; A.D. Chandler (1977), The Visible Hand: The Managerial Revolution in American Business, Harvard University Press [tr. it. (II ed.), La mano visibile. La rivoluzione manageriale nell’economia americana, Milano, Franco Angeli, 1992].
[15] S. Vaccà, L’economia d’impresa alla ricerca di un’identità, “Economia e Politica industriale”, 45: 87-118, 1985.
[16] R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt Verlag, Berlin, 1930-1933 [tr. it. L’uomo senza qualità, Milano, Einaudi, 1957: 12].
[17] S. Faccipieri, Concorrenza dinamica e strategia d’impresa, Padova, Cedam, 1988.
[18] Data spartiacque, in cui Lehman Brothers Holdings, in piedi dal 1850, con quartier generale a New York, dichiara di volersi avvalere del Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense, ovvero di una procedura che si attua in caso di bancarotta, annunciando debiti bancari per 613 miliardi di Dollari, debiti obbligazionari per 155 miliardi e attività per un valore di 639 miliardi. Nulla, dopo di allora, sembra essere stato più come prima. Molto, dopo quel crollo, è ancora da scrivere, allo scopo di ridefinire le logiche di una convivenza, in grado di ragionare, riflettere e ripensare i criteri che orientano la gestione e il consumo delle risorse e delle relazioni interpersonali.
[19] H. Mintzberg, Strategy Making in Three Modes, “California Management Review”, 16/2: 44-53, 1973; H. Mintzberg, Planning on the Left Side and Managing on the Right, “Harvard Business Review”, 54/4: 49-58, 1976.
[20] H.A. Simon, Administrative Behaviour, New York, Mcmillan, 1947 [tr. it. Il comportamento amministrativo, Bologna, Il Mulino, 1958].
[21] C. Barnard, The Functions of the Executives, Cambridge, Harvard University Press, 1938 [tr. it. Le funzioni del dirigente, Torino, Utet, 1970]. Questo aspetto dell’azione cooperativa l’ho declinato, in termini di apprendimento organizzativo e con riferimento a un’aula universitaria di Organizzazione Aziendale, in L.M. Sicca, Cultura e diagnosi organizzativa, de Vita, P. e al. (a cura di), Organizzazione Aziendale. Assetto e meccanismi di relazione, Torino, Giappichelli, 2007: 339-363.
[22] http://www.tavinstitute.org
[23] W.R. Bion, A theory of thinking, “International Journal of Psycho-Analysis”, 43: 306-310, 1962; W.R. Bion, Learning from Experience, London, William Heinemann, 1962.
[24] Questa funzione di mediazione sociale è probabilmente lo stilobate su cui poggia la lezione, seminale per gli studi di organizzazione, di Chester Barnard (op. cit., 1938): concetti oramai di senso comune come, per esempio, la coesistenza di informalità e formalità; di fini organizzativi e personali; la dialettica tra efficacia ed efficienza o, ancora, i distinguo tra incentivi materiali e non, etc., assumono poi differente tematizzazione nelle nostre organizzazioni, a seconda della fase del ciclo macroeconomico e delle condizioni di contesto. Condizioni invisibili nel procedimento euristico di Barnard, perché astratto e universale, con l’ambizione di offrire una teoria valida per qualsiasi tipo di organizzazione. Da cui significato e ruolo di una “parabola”, come quella del masso.
[25] L.M. Sicca, Progettazione dell’organizzazione aziendale e comportamento organizzativo. Cosa i manager – andando all’opera – possono imparare in materia di management ?, in Cherubini, S. (a cura di), Scritti in onore di Giorgio Eminente, Milano, Franco Angeli, 2008: 775-807.
[26] E. Bick, The experience of the skin in early object-relations, “International Journal of Psychoanalysis”, 49/2-3: 484-486, 1968, parla di timore dell’individuo di essere “perso nello spazio”; mentre altrove si parla di “ansia di separazione”, J. Bowlby, Separation: anxiety and danger, in Attachment and loss, London, Hogarth, Vol. I, 1969, Vol. II, 1973, Vol. III, 1980.
[27] M. Perini, L’organizzazione nascosta. Dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni, Milano, Franco Angeli, 2007.
[28] I. Menzies L., The Functions of Social Systems as a Defence Against Anxiety: A Report on a Study of the Nursing Service of a General Hospital, “Human Relations”, 13: 95-121, 1959; A. Obholzer e V. Zagier Roberts (eds.), The Unconscious at Work: Individual and Organizational Stress in the Human Services, London, Routledge, 1994.
[29] Questo paragrafo riprende parte di quanto illustrato nel capitolo 1 di S. Oliverio, L.M. Sicca, e P. Valerio, op. cit. 2015, esito di un lungo percorso, scandito da diverse tappe e da un peculiare regime nel rapporto tra ricerca documentale e sulla letteratura e oralità, agìta in tavole rotonde, workshop tematici e focus group dei quali se ne rammenta almeno uno, particolarmente intenso, il 30 maggio 2014 al Palazzo degli Uffici dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, con la partecipazione di studiosi e professionisti, molti dei quali hanno poi contribuito con un proprio saggio al rapporto finale: Christian Ballarin, Massimo Bergami, Davide Bizjak, Simone Cangelosi, Rosario Diana, Daniela Lourdes Falanga, Gugliemo Faldetta, Paolo Fazzari, Vittoria Fiorelli, Porpora Marcasciano, Andrea Morniroli, Mariella Pandolfi, Cristiano Scandurra, Luca Solari, Gigliola Toniollo, Ottavia Vozza.
[30] Le dizioni transgender e gender nonconforming, sono proposte in: American Psychological Association, Guidelines for Psychological Practice with Transgender and Gender Nonconforming People, “American Psychologist”, 70 /9: 832-864, 2015.
[31] C. D’Ippoliti e al., Le buone pratiche antidiscriminatorie a livello internazionale nello specifico ambito dell’orientamento sessuale, Rapporto finale di ricerca, Roma, UNAR , 2012.
[32] [N.d.A.: LGBT è acronimo di Lesbiche Gay Bisessuali Transgender].
[33] C. D’Ippoliti e al, op. cit. 2012.: 47.
[34] Lo scenario entro cui si colloca questa ricerca è quello menzionato in apertura di questo scritto: quello della attuale crisi, che stimola, pungola, spinge dai margini, provoca chi occupa il centro ad agire inclusione, ad avere criterio. Crisi e criterio, dunque, per leggere il capitalismo industriale, inteso come una struttura di relazioni, al contempo di lavoro e affettive. Una struttura da mettere sotto osservazione, allo scopo di capirne potenzialità e limiti. Senza considerarla buona di default, come si pensava, invece, quando tutto andava bene, o così sembrava, scotomizzando i margini.
[35] L.M. Sicca, Management of Opera Houses: The Italian Experience of the “Enti Autonomi”, “The International Journal of Cultural Policy”, 4/1: 201-223, 1997; L.M. Sicca, Chamber Music and Organization Theory: Some Typical Organizational Phenomena Seen Under The Microscope, “Culture & Organization”, 6/2: 145-168, 2000; L.M. Sicca, L. Zan, Much Ado About Management. Managerial Rhetoric in the Trasformation of Italian Opera Houses, “International Journal of Arts Management”, 7/3: 46–64, Spring 2005.
[36] L.M. Sicca, Alla fonte dei saperi manageriali. Il ruolo della musica nella ricerca per l’ innovazione e per la formazione delle risorse umane, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012.
[37] F. Butera, La chiusura del cerchio: approcci multidisciplinari sulla organizzazione, Numero speciale di Studi Organizzativi, 3-4 (con scritti di Bagnara, F.M. Butera, Bontadini, Cindio, De Maio, De Michelis, Dioguardi, Gasparini, Mattana, Simone, Wegner etc.), Milano Franco Angeli, 1984.
[38] Rinviando al conclusivo capitolo 19 della nostra ricerca, mi limito a rammentare che in quella sede abbiamo trattato di liminalità1 quando la persona o il gruppo a rischio è costretta a occupare una posizione periferica, perché la sua identità non è riconosciuta nella pratica organizzativa; di liminalità2 quando la percezione che l’organizzazione ha delle dinamiche di esclusione condanna il gruppo o la persona a una quasi invisibilità, S. Oliverio, L.M. Sicca, P. Valerio, Diversi a se stessi: liminalità e inclusione organizzativa. Pedagogia, Organizzazione Aziendale e Psicologia clinica, in Oliverio, S., Sicca, L.M., Valerio, P. Transformare le pratiche nelle organizzazioni di lavoro e di pensiero, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015: 267-289.
[39] Wiederholung, nel vocabolario filosofico Heideggeriano richiama, all’infinito, i verbi riprendere, ripetere. In tal senso, la seconda parte di Essere e tempo (op. cit., 1976) è concepita dall’autore come “ripetizione” della prima, nella quale viene mostrato che il senso della “analitica dell’esserci” è la sua costituzione temporale. Credo sia necessario riconoscere il valore della ripetizione, come ripresa. Se è vero che di ripresa, in tempi di crisi, in questa come in tutte le crisi, avremmo davvero bisogno.
[40] Nell’ambito del SIG 01: Business for Society, con la T_01-03 Institutional resistance, war of positions and power maintenance, evoluta poi nel Convegno 2016 a Parigi, in ST 01_03 Institutional change, Power, Resistance and Critical Management. Chair, insieme a chi scrive e a Edoardo Mollona (Università di Bologna) sono: Ilaria Boncori (University of Essex); Jean-Francois Chanlat (Paris Dauphine); Stewart Clegg (University of Technology, Sydney); Alessia Contu (UMass Boston); Xavier Deroy (NEOMA Business School Reims Campus); Andrea Fumagalli (Università di Pavia); David Levy (UMass Boston); Mariella Pandolfi (Université du Québec à Montréal); Luca Solari (Università di Milano).
[41] Si tratta di un organismo di ricerca cui aderiscono le Università napoletane per mettere in comune la riflessione su questioni etiche sollevate dagli sviluppi della biomedicina.
[42] Napoli, 7 luglio 2016.
[43] L. Guatri, 50 anni di valutazioni aziendali. Dal pionierismo all’internazionalizzazione, Milano, Egea, 2006, in cui si scandiscono alcuni periodi significativi: 1950-1954, ultima fase zappiana, con i primi tentativi di quantificazione dell’economia aziendale; 1955-1979, il pionierismo; 1980-1995, definito come “travaglio delle idee”; fino ai primi processi di internazionalizzazione della ricerca, lasciando poi al decennio a cavallo di millennio 1996-2006 il merito dei processi, tuttora in corso, di una crescente apertura ai dibattiti internazionali.
[44] L. Guatri, (a cura di), Economia Aziendale. Com’era e com’è , Milano, Egea, 2015.
[45] Si veda, in particolare, A. Grandori, Epistemologia ed economia aziendale: note per un dibattito, in Vicari, S. (a cura di), Metodo e linguaggio nell’Accademia Economico-Aziendale Italiana, Milano, Egea, 1992: 5-33.
Autori
Professore ordinario di Organizzazione aziendale
Università degli Studi di Napoli Federico II