Insegnare è questione di contenuto e metodo. Questo articolo si concentra sulla parte del metodo di insegnamento.
La domanda
Una questione che le università si trovano ad affrontare è come incorporare la tecnologia nei metodi didattici perché la tecnologia è parte della vita dei nostri studenti in modo piuttosto pervasivo (e poco comprensibile a molti di noi, che siamo nati quando questa tecnologia non c’era).
Accade la stessa cosa alle case editrici, alla televisione, ai libri, alle auto, alla grande distribuzione. Il tema è quello della digital transformation: come trasformare la propria organizzazione tradizionale attraverso Internet, le app, l’intelligenza artificiale, i big data. Sia nei confronti di studenti/utenti/clienti, sia nei confronti del personale aziendale e dei processi interni.
Non è un tema nuovo. Un articolo di Sloan Management Review (The digital transformation of traditional business, Andal-Ancion, Cartwright, Yip, 2003) ci propone una checklist di 10 punti per valutare la compatibilità di un settore con le tecnologie di cui sopra. Applicandolo all’educazione è chiaro che il potenziale di trasformazione è molto elevato. La didattica ha un elevato contenuto informativo, che può essere incapsulato in modo digitale, può essere distribuito in luoghi diversi dalle aule, gode di effetti di rete positivi e di benefici nell’aggregazione di un gran numero di contenuti in un portale ben accessibile da parte di docenti e discenti.
Posto che trasformare digitalmente le università sia possibile (e sicuramente lo è) possiamo chiederci i motivi per cui valga la pena intraprendere questa strada.
E’ importante che i motivi ci siano chiari e non si limitino a un generico “lo stanno facendo tutti, facciamolo anche noi”.
Attenzione, non si trasformano le università per essere più compatibili con i comportamenti cognitivi delle nuove generazioni. Si trasformano le università perché si può migliorare il livello medio di apprendimento degli studenti.
La tecnologia abilita molte attività, difficili da svolgere senza di essa: trasmettere know-how e leadership skill, simulare la realtà, aumentare l’interazione positiva docente-studente e studente-studente, aprire all’esterno i muri dell’aula, rendere sostituibile il docente in svariate attività, permettere di studiare e collaborare in qualunque luogo (e quindi disaccoppiare lo spazio fisico dall’apprendimento), misurare l’apprendimento in tempo reale, allargare lo sguardo degli studenti ad un mondo globale collegandoli con l’esterno.
Queste e altre possibilità consentono una ricostruzione dello spazio universitario e del rapporto con gli studenti. Essendo la tecnologia così potente, è necessaria una strategia didattica che sia anche essa chiara e potente.
Adottare una tecnologia è positivo se è chiara la relazione con le metodologie che si vogliono implementare. Altrimenti il rischio è di ingenerare numerose complicazioni, anche perché ci sono almeno tre grandi problemi da risolvere per ottenere un risultato di successo nella trasformazione della didattica di un’università in senso digitale.
Nelle righe che seguono presenterò gli obiettivi principali che gli atenei si possono prefiggere di raggiungere attraverso l’introduzione delle tecnologie e i problemi in cui possono incorrere, con una possibile soluzione progettuale basata sul concetto di “catalogo”.
Gli obiettivi
Come si diceva prima, la tecnologia è un vettore potente per ripensare l’università, in primo luogo perché può lenire alcune storiche caratteristiche del modello didattico caratterizzato dalla centralità del docente e facilitare il passaggio a modelli didattici maggiormente centrati sullo studente.
Gli obiettivi che gli atenei possono raggiungere attraverso la tecnologia sono almeno cinque (nella mia visione, poi, immagino si possano aggiungere molte altre cose). In primo luogo è possibile rendere maggiormente scalabile l’apprendimento. Come sappiamo, l’apprendimento è migliore se il docente ha di fronte a sé un numero limitato di studenti. I conti economici delle università, soprattutto in Italia, non consentono classi poco numerose. La tecnologia però ci aiuta decisamente in questo senso: attraverso l’uso di formati ibridi online /face-to-face è facile diminuire le ore che gli studenti passano in aula nei nostri atenei molto affollati. E’ una decisione strategica, che può diminuire gli investimenti in aule e aumentare l’interazione docente-discente nei corsi.
In secondo luogo, si possono abbattere i muri delle nostre aule e favorire l’interscambio con realtà esterne come le imprese, gli ospiti internazionali, le fiere, i luoghi inaccessibili, attraverso sistemi avanzati di videoconferenza.
Terzo, le nostre università sono riconosciute all’estero per la ottima preparazione teorica. Le tecnologie (ad esempio quelle di simulazione) possono aiutarci molto nel formare uno studente che affianchi la teoria ad un know-how più approfondito e ad un maggiore allenamento delle leadership skill.
Quarto, è possibile monitorare con ottima precisione il livello dell’apprendimento raggiunto da ogni singolo studente durante il corso, e non solo alla fine. Ci sono strumenti per la valutazione degli studenti che automatizzano la correzione, senza svilire la sofisticazione della verifica. O ci sono strumenti per minimizzare il tempo di correzione di assignment qualitativi e quindi consentire al docente di includerne un maggior numero a parità di sforzo nel proprio corso. Si possono fare verifiche in aula o a casa.
Quinto, si possono digitalizzare i contenuti, con un’idea strategica che è molto più ampia del non avere più troppa carta in giro per l’università.
La digitalizzazione include articoli scientifici, e-book, business game, casi, software scientifici in cloud, dataset per simulare processi decisionali, lezioni registrate/in streaming, procedure amministrative.
L’obiettivo di questa digitalizzazione è quello di consolidare il legame tra tecnologia e didattica, in termini di manipolabilità e tracciabilità dei prodotti per apprendere o dell’apprendimento.
Un’università con le cinque caratteristiche elencate sopra, può disaccoppiare l’apprendimento dalle rigidità gestionali. La biblioteca digitale è aperta 24/7, l’iscrizione agli esami è a portata di click, l’analisi di un dataset è solo questione di impegno scientifico, non di perdere tempo a installare il software di turno, nella versione giusta. Questa università può trasformare le aule normali in laboratori per sperimentare, può mischiare il digitale e il mondo fisico a seconda delle esigenze didattiche e di conto economico.
Penso sia chiaro che la tecnologia è qui per rimanere (o per sostituirci tutti come dice Emanuele Severino). Alcune università hanno preso decisioni chiare rispetto al loro rapporto con le tecnologie, sia in direzione di una loro adozione, sia in senso di un loro sostanziale rifiuto. Naturalmente io sono con le prime, ma rispetto la posizione delle seconde. Quello che credo non ci possiamo permettere è di rimanere a metà del guado e investire un po’ di soldi senza una direzione precisa.
Sperimentiamo? Certamente i singoli apprendono per prove ed errori ad utilizzare Internet e le altre tecnologie; in questo senso è utile che ciascun docente approcci individualmente l’uso della tecnologia nella propria didattica. A livello di ateneo, credo che questo approccio non sia più necessario. Esiste un notevole insieme di pratiche per la didattica tecnologica, di cui si conoscono pregi, difetti e costi. Dal lato accademico, le pubblicazioni disponibili sono davvero molte. Da un punto di vista practitioner, molte università hanno laboratori sull’apprendimento con cui confrontarsi. Anche i fornitori si preoccupano della disseminazione della conoscenza. Ad esempio, quando si acquista o noleggia una piattaforma elearning, con essa arrivano manuali di pratiche eccellenti di altre università, tutorial, pratiche di gestione del cambiamento e così via.
Per le università che non lo hanno ancora fatto, è arrivato il momento di pianificare l’introduzione delle tecnologie con un approccio centralizzato. E’ utile definire un piano digitale per l’università, se si intende intraprenderne uno, con la definizione della strategia didattica. Non è necessario che tutti i docenti e tutti i corsi abbiano a disposizione tutte le tecnologie. Si può iniziare con un’area di contenuti limitata (matematica, management, …) ma è fondamentale che l’approccio sia progettato intenzionalmente e non solamente emergente dai singoli docenti. E che l’università abbia un traguardo chiaro e che ogni sforzo sia fatto con una logica di scalabilità. Altrimenti si incorre nei problemi del paragrafo successivo.
I problemi
I problemi sono tre: 1) costo della tecnologia e dei metodi didattici innovativi; 2) affidabilità della tecnologia; 3) competenze necessarie per gestire la tecnologia.
Il primo problema è collegato alla scala degli investimenti. La tecnologia è costosa in sé. Ad esempio, una piattaforma per l’e-learning costa attorno ai 10 Euro a studente. Ristrutturare un’aula con proiettori multipli, touch screen, prese elettriche, costa da qualche decina di migliaia di euro in su. I corsi blended (parte in aula e parte a distanza attraverso i MOOC) costano anche loro molte decine di migliaia di euro a corso.
Molti problemi di costo si possono risolvere con l’open source software o con accordi di sponsorizzazione con i fornitori. O limitando le parti accessorie che non sono percepite come utili all’apprendimento dagli studenti. Il fattore esperienza permette economie incredibili. Un’azione utile a cui potremmo dare seguito è proprio la messa in comune delle nostre rispettive esperienze nei diversi atenei. E costruire una lista di interventi tecnologici anche a basso costo che possono aiutare a risolvere il problema degli investimenti.
Il punto centrale rispetto agli investimenti è comunque più legato alle persone che al costo delle tecnologie in sé. Il corpo docente di una università è abituato a una grande libertà di scelta di strumenti e metodi, con un approccio di tipo bottom-up. Ogni docente ha voglia (per fortuna) di sperimentare, di migliorare il proprio rapporto con gli studenti, di rendere più coinvolgenti le proprie lezioni.
Farlo con pennarelli, libri, post-it, giochi di ruolo e ospiti è intrinsecamente più facile da progettare e più flessibile da modificare che usare la tecnologia. Ad esempio, se ogni docente volesse usare una piattaforma diversa, diversi sistemi di rilevazione delle presenze, diversi sistemi di videoconferenza, questo moltiplicherebbe due tipi di costi in modo insostenibile: i costi di abbonamento/acquisto e i costi di assistenza.
(Sarebbe come se ciascun docente progettasse la propria lavagna e pretendesse di portarsela in aula sempre con sé, con a seguito le persone che fanno assistenza.)
Quindi, l’unica cosa che si può fare è acquistare un set finito e limitato di tecnologie, quelle che sono compatibili con i nostri obiettivi strategici e con la didattica che abbiamo in mente come università e non come insieme scoordinato di singoli docenti.
Il secondo problema, connesso strettamente al primo, è relativo all’affidabilità della tecnologia e alla usabilità. Più tecnologia si usa, più aumenta il rischio di malfunzionamenti. E’ un problema intrinseco ai mezzi usati. Quello che non c’è non si rompe, diceva Ford. E Le università devono essere parsimoniose, non possono acquistare le tecnologie senza un chiaro piano di qualità totale. Qualità totale significa definire gli obiettivi di prestazione a cui si vuole tendere, gli indicatori di prestazione, il livello di servizio da dare al docente per evitare abbandono di una tecnologia per difetti tecnici (questo poi sterilizza la voglia di riprovare. Meglio partire con meno cose, ma con un buon grado di affidabilità).
Staff e corpo docente devono lavorare fianco a fianco, per capirsi reciprocamente e allineare gli sforzi.
Il terzo problema è relativo alle competenze che servono per diventare digitali. E’ chiaro che usare le tecnologie significa anche avere le competenze per farlo. Quali competenze servono? Esplorazione per i trend futuri, R&D per mettere insieme tecnologie e metodi didattici, disegno di metodi didattici, assistenza, controllo qualità, formazione continua a faculty e staff. La parte più interessante delle competenze per insegnare con la tecnologia è che sono, per la prima volta, non contenute tutte in una stessa persona (il docente).
La didattica tecnologica è una didattica di squadra, non di solisti. Ecco alcuni esempi: per fare esami in aula con i computer degli studenti e superare i vincoli delle aule informatiche, occorre che l’università trovi una soluzione affinché ogni studente abbia il proprio computer. Poi occorre progettare una rete wifi che funzioni con un numero alto di computer molto diversi tra loro (se uno studente acquista un pc, non ama sempre essere obbligato a scegliere un modello compatibile con le esigenze dell’università). Poi occorre monitorare la rete, vedere se il traffico regge, fare test approfonditi e frequenti. Poi occorre che il docente impari a usare la piattaforma messa a disposizione dall’università per costruirsi gli esercizi da dare agli studenti, magari parametrici o pescati in maniera casuale per minimizzare i rischi di cheating. E moltissime altre cose.
Per fare un corso puramente a distanza o blended (parte in presenza e parte a distanza) occorrono un certo numero di persone: l’esperto di metodi didattici, il docente, il producer, i videomaker, il gestore della community, e così via. I MOOC che BETA (il learning lab di Bocconi) ha prodotto hanno richiesto squadre di più di 15 persone.
Le soluzioni
Il punto centrale per la diffusione della didattica che incorpora la tecnologia è la creazione di un catalogo. Il catalogo è un patto esplicito e formalizzato tra faculty e staff dell’università, in grado di chiarire l’offerta di metodi e tecnologie e di tenere la diffusione dell’innovazione e i costi sotto controllo.
Un’università senza catalogo è un luogo in cui non ci sono limiti di sperimentazione, detto con un’accezione negativa. Ogni docente pensa al suo corso, sceglie le tecnologie da usare, le testa, le manutiene, le spiega agli studenti e fa assistenza.
Questo può andare bene se le tecnologie sono semplici (ad esempio un software statistico gratuito). Ma, come si diceva prima, si incorre nei tre problemi che bloccano il progresso dell’università verso un modello didattico più sofisticato, complesso e moderno.
Il catalogo stabilisce i limiti dell’azione individuale dei docenti ma garantisce che quanto offerto sia disponibile, funzionante e supportato da un disegno strategico e da un impegno dichiarato dell’ateneo. E’ contenuto: quali tecnologie, quali aule, quale livello di assistenza sono disponibili in università. E’ anche processo: chi lo usa, quali tempi per l’adozione, quali richieste di co-progettazione tra esperti di metodi didattici e docenti.
Il catalogo è la reificazione dell’ecosistema per l’apprendimento messo a punto dall’università. Ci sono due livelli, uno tecnico, uno metodologico, chiaramente integrati tra di loro. Al docente non serve solo sapere se esiste un’aula con un wifi evoluto o con le prese, ma anche serve capire quali metodi didattici utili all’apprendimento si possono integrare con queste tecnologie.
Il livello tecnico del catalogo include la possibilità di scegliere le aule flat o ad anfiteatro, le funzionalità avanzate della piattaforma di e-learning (assessment dello studente, gradebook, server video, …), videoconferenza, contenuti digitali (articoli, libri, dataset, simulatori).
Il livello metodologico del catalogo aiuta il docente nelle scelte pedagogiche supportate dalla tecnologia. Nel livello metodologico ci sono i format, cioè le istruzioni per includere nei propri corsi e nelle proprie lezioni l’uso delle tecnologie per massimizzare l’apprendimento. Ad esempio, come realizzare un continuous assessment course, in cui gli studenti ricevono in aula o a casa numerosi assignment (ad esempio uno alla settimana) che vanno a comporre il voto finale. Le istruzioni per costruire un corso di questo tipo includono il tipo di comunicazioni da dare agli studenti, la costruzione di regole di ingaggio compatibili con la materia trattata, la costruzione di test che siano in grado di valutare con proprietà l’apprendimento, le procedure per evitare il cheating, le modalità per massimizzare l’affidabilità tecnica, gli esempi tratti da corsi che già usano questa tecnica, e così via.
Altri format da catalogo possono essere: corsi ibridi, in congiunzione tra due università distanti tra loro, che costituiscono un’unica classe in cui gli studenti usano groupware e videoconferenza per collaborare; corsi blended, in cui gli studenti studiano a casa e discutono in aula; corsi a distanza (MOOC, ad esempio); corsi a geometria variabile, con molti studenti per le lezioni frontali nella stessa aula e con gruppi di studenti di ridotte dimensioni e affidati ciascuno a un docente diverso per esercitazioni o discussioni.
Quindi, un catalogo è un insieme finito e definito di tecnologie (livello tecnico) e di metodi per trarre beneficio dalle tecnologie nei corsi (livello metodologico). Con un catalogo esplicito, l’università dichiara il suo intento strategico nell’uso didattico delle tecnologie. Si supportano tutti i docenti che vogliono usare le tecnologie ma che non possono gestirle in autonomia, data la complessità in gioco e le competenze poliedriche richieste. Si sostiene la voglia individuale di sperimentare, perché comunque il patto ateneo-docente è esplicito e il docente conosce i limiti del supporto che riceverà, e da li in poi dovrà fare da solo, con la consapevolezza di politiche istituzionali chiare e ben definite.