Una grande quantità di risorse viene oggi investita nel tentativo di trasferire capacità cognitive alle macchine e ai robot. Molto meno viene investito per utilizzare meglio le persone espulse dai processi produttivi che queste capacità già le posseggono. La prima prospettiva non è incompatibile con la seconda a patto che gli interventi non procedano separatemene e siano invece integrati in un comune disegno strategico.
Il fenomeno è particolarmente evidente nell’industria bancaria che è oggi investita da processi di cambiamento indotti da dinamiche congiunturali e fattori strutturali che impongono un profondo ripensamento delle strategie e dei processi. L’andamento dei tassi d’interesse ha eroso i margini d’intermediazione in modo da intaccare la redditività. Secondo Prometeia nel 2015 il margine di interesse a livello aggregato è passato da 31,5 miliardi del 2014 a 30,1 miliardi del 2015 (-4,5%). A questo si aggiunge una accentuata pressione competitiva tra le banche tradizionali e tra queste e i soggetti emergenti quali il shadow banking (servizi relativi a pagamenti e crediti erogati da entità non bancarie) e le fintech (start up tecnologiche che operano nel mercato dei pagamenti e non solo).
Nelle banche di consolidata esperienza, una risposta tradizionale a fenomeni di questo tipo porta a tentare un recupero sul piano dei volumi di quanto è perduto nei margini unitari con una spinta verso l’aumento delle dimensioni attraverso fusioni, concentrazioni o conquista di nuove quote di mercato. La ricerca dell’efficienza passa attraverso la razionalizzazione dei processi aumentando la produttività del lavoro e di tutti gli altri fattori. In Italia, negli ultimi 15 anni 48 mila bancari sono andati in prepensionamento volontario o incentivato ed entro il 2020 ne dovrebbero uscire altri 23 mila. Gli sportelli sono passati da 57,1 a 51 per 100 mila abitanti (la media europea è di 41,9). Le operazioni presso gli sportelli diminuiscono a un tasso del 17% all’anno e il fenomeno è in accelerazione per lo sviluppo dell’home banking e del mobile banking. Le grandi banche denunciano elevate eccedenze trasformate nella maggior parte dei casi in riduzioni degli organici e, meno frequentemente, in riconversioni professionali.
Una risposta più innovativa e con qualche possibilità in più di successo richiede un profondo cambiamento del business model utilizzando tutte le opportunità offerte dalle nuove tecnologie oltre ad ampliare la gamma di servizi offerti al cliente e la qualità della sua esperienza di contatto. La leva per progettare e implementare il nuovo business model è costituita dalla tecnologia e dalle risorse umane a patto che non si valuti la tecnologia solo per la sua capacità di risparmiare lavoro e che la si utilizzi come fattore abilitante di nuove strategie di business. La tecnologia va infatti considerata per la sua capacità di produrre valore per il cliente attraverso un effetto leva sull’apporto degli individui e sullo stesso ruolo del cliente.
Questi infatti entra attivamente nella filiera di produzione dei nuovi servizi a maggior valore aggiunto. Che è quello che accade con l’home banking e il mobile banking dove il cliente mette a disposizione il suo hardware e produce da sé nei tempi e nei luoghi che ritiene più appropriati parte del servizio. Si concretizza così il monito di Richard Normann che nel suo celebre “La gestione strategica dei servizi” del lontano 1984 raccomandava vivamente di far lavorare il cliente, modo infallibile per aumentarne la soddisfazione. Gli stessi nuovi concorrenti se correttamente considerati possono entrare nella produzione del servizio. La standardizzazione e l’automazione del lavoro routinario libera risorse che possono essere dedicate a una personalizzazione del rapporto e a un ampliamento della gamma dei servizi offerti. Ma la vera rivoluzione avverrà con l’automazione del così detto knowledge work che è meno lontana di quanto possa ora apparire.
Per capire la direzione del cambiamento è utile usare una classificazione delle attività che si svolgono in banca, ma vale per qualsiasi tipologia aziendale. Da un punto di vista organizzativo, una ricerca McKinsey partendo da concetti ampiamente approfonditi in letteratura (Polanyi, Nonaka, Takeuchi) propone di distinguere tra attività di trasformazione e attività d’interazione[1]. Le attività di trasformazione sono quelle più tradizionali legate al “fare” e non presentano particolari problemi poiché utilizzano routine sempre più spesso governate dalla tecnologia e possono facilmente essere “esternalizzate” al cliente stesso o a fornitori specializzati. I problemi e le opportunità nascono con le attività d’interazione. Queste si possono a loro volta suddividere in interazioni transazionali e interazioni tacite. Nelle interazioni transazionali il personale deve essere in grado di decodificare situazioni sempre diverse, utilizzando procedure spesso automatizzate, per riconoscerle e per selezionare le soluzioni più appropriate che sfruttano la conoscenza accumulata dall’esperienza.
Per esempio, un operatore di call center deve essere in grado di capire il problema del cliente e ricondurlo a una fattispecie nota per la quale è stata predisposta la soluzione o comunque la risposta. Bisogna mettere il sistema in grado di apprendere in modo che ogni qual volta viene trovata la soluzione a un problema che si presenta per la prima volta questa viene trasformata in una nuova routine. Le interazioni transazionali sono in forte aumento in banca e sono suscettibili di elevati gradi di standardizzazione e di automazione. Il che limiterà l’impiego di personale nel front office e il suo livello di qualificazione.
Molto elevata sarà per contro la qualificazione di chi opera nel back office. Le interazioni tacite sono più complesse, producono più valore e richiedono persone in grado di affrontare situazioni ambigue nelle quali non possono essere usate procedure o algoritmi, mentre è necessario disporre di capacità di giudizio ed esercitare discrezionalità per produrre una soluzione innovativa. In questo caso, l’attività è sottoposta a una continua morfogenesi, governata dall’interazione con situazioni oggettive e soggettive che non si ripresentano mai uguali alle precedenti. Il massimo dell’interazione tacita si ha nelle decisioni strategiche e politiche nelle quali si “gioca”, e contemporaneamente si costruiscono le “regole del gioco”. All’epoca della ricerca McKinsey emergeva che nei Paesi più sviluppati quattro posti di lavoro su cinque riguardavano attività con contenuti d’interazione. Negli Stati Uniti, le occupazioni con un prevalente contenuto d’interazioni tacite aumentavano due volte e mezza più velocemente di quelle transazionali e tre volte più velocemente dell’intera occupazione nazionale.
Questa dinamica ha subito negli anni più recenti una forte accelerazione. Se si osserva la struttura occupazionale delle nostre banche si nota ancora una prevalenza delle attività di trasformazione, facilmente identificabili. Anche da noi però sono in aumento quelle interattive. Ma prevalgono le interazioni tacite o quelle transazionali? Per rispondere e per prepararci al futuro servono ricerche sul mercato del lavoro che non si fermino alle etichette. Non conviene però aspettare conferme di questo tipo per cambiare radicalmente i percorsi formativi di inserimento, di sviluppo e di mobilità interna. Con i clienti e i fornitori che entrano nel processo di produzione del servizio da una posizione mobile o remota, con la crescente dematerializzazione della moneta e dei documenti è possibile mantenere immutate le strutture organizzative e contrattuali? Certamente no. L’estensione spaziale e temporale del servizio non può non modificare le modalità di impiego delle persone.
Si intravvedono già alcuni (timidi) segnali di cambiamento. Qualche banca sta sperimentando un ampliamento delle fasce orarie di apertura degli sportelli ma anche nelle attività all’esterno presso il cliente. Deve però fronteggiare la competizione di nuove banche organizzate senza sportelli. Altre banche hanno avviato la sperimentazione dello smart working nel tentativo di conciliare esigenze individuali ed esigenze aziendali. Siamo ancora in un ambito tradizionale. I cambiamenti incombenti dovranno essere molto più incisivi.
Tra le attività di una banca, la concessione del credito è quella dove meglio si misureranno le possibilità di innovazione e cambiamento. Ci sono stati tempi in cui i banchieri e i bancari erano abituati a guardare più il cliente negli occhi che nei suoi bilanci. Questi tempi hanno dato tutto quello che potevano dare e anche di più, hanno dato il meglio e più recentemente il peggio di sé. E in ogni caso appartengono al passato. Molto può essere fatto per migliorare la capacità della banca di valutare in termini dinamici il merito di credito di un impresa senza limitarsi ad alcuni algoritmi patrimoniali (interazioni transazionali) ma dando il giusto peso a fattori di tipo qualitativo, sviluppando una capacità interpretativa di quelli quantitativi e soprattutto valorizzando la gestione della relazione al riparo da derive personalistiche (interazioni tacite). Testare sistemi di valutazione evoluti può generare innovazione e potenziali vantaggi competitivi anche in un settore fortemente regolamentato come questo[2]. La sfida si vince combinando la capacità degli individui di assumere decisioni con rilevanti e ineliminabili componenti di rischio e responsabilità con la capacità dei sistemi tecnologici di fornire supporti a queste decisioni al riparo di derive algoritmiche.
Bibliografia
[1] Beardsley S.C, Johnson B.C., Manyika J.M., “Competitive advantage from better interactions”, McKinsey Quaterly 2, 2006
[2] Chiacchierini C., Fischetti A., Perrone V., “La valutazione del merito creditizio 2.0: innovare per competere” in Rivista Bancaria n.3-4, 2015
Autori
Professore emerito di Organizzazione Aziendale
Università di Padova