Condividere la conoscenza per far progredire l’archeologia: implicazioni organizzative e tecnologiche

L’archeologia è un dominio ad alta intensità di conoscenza dove però fino ad oggi le tecnologie per la gestione delle informazioni sono spesso usate poco e con modalità che non ne assicurano la conservazione, condivisione e valorizzazione. Tutto ciò rappresenta un serio ostacolo all’avanzamento della ricerca, e alla possibilità per l’archeologia di rispondere alle domande più importanti.

Introduzione

L’archeologia, in quanto scienza, ha un ruolo importante nello studio dei processi di evoluzione della cultura e della civiltà umana. La ricerca in archeologia dipende dalla disponibilità di informazioni e dalla condivisione della conoscenza per lo studio dell’evoluzione della civiltà umana. Uno studio di Kintigh, Altschul, Kinzig, Limp, Michener, Sabloff, Hackett, Kohler, Ludäscher e Lynch, pubblicato nel 2015 sul journal Advances in Archaeological Practice, mette in evidenza una serie di difficoltà che contrastano la possibilità dell’archeologia di generare conoscenza, derivanti da pratiche e strumenti che rendono difficile la condivisione di dati e informazioni tra le diverse comunità di archeologi (Kintigh et al. 2015).

Dati ed informazioni sui reperti archeologici sono di vitale importanza per la generazione della conoscenza in archeologia. Per il solo fatto di essere scoperto in una specifica area, profondità, e in prossimità di altri oggetti, un reperto archeologico possiede un grande potenziale in termine di contributo alla conoscenza anche nel caso in cui non sia possibile risalire alla forma o alla funzione originale dello stesso. Ad esempio, la scoperta di un gruppo di frammenti di bucchero (ceramica etrusca nera) in una specifica zona del nord Italia accanto a reperti del V secolo a.C., anche se non si può identificare l’oggetto a cui appartenevano, testimonia l’esistenza di una qualche relazione tra quell’area e l’Etruria in quel periodo.

Ogni evento – restauro, studio, mostra – che il reperto attraversa può poi generare ulteriore conoscenza sullo stesso reperto e sul suo contesto. Ad esempio, la scoperta di una parte di un meccanismo ad ingranaggi datato tra l’anno 80 e 50 a.C. fatta da pescatori nelle vicinanze dell’isola di Antikythera nel 1900 ha contribuito a retrodatare dal medioevo al periodo dell’antica Grecia la conoscenza relativa alla costruzione di macchine calcolatrici. Tale risultato è stato possibile grazie allo scambio di conoscenza tra i tanti ricercatori che hanno studiato il reperto, anche se di fatto questo costituiva solo una frazione dell’oggetto originale (Edmunds and Morgan 2000; De Solla Price 1975).

Le pratiche e gli strumenti per la condivisione della conoscenza sono cruciali per permettere all’archeologia di generare conoscenza su domande fondamentali circa l’umanità e lo sviluppo delle culture, e di contribuire anche allo sviluppo di altre discipline. Lo studio mette in evidenza una serie di possibili domande alle quali sarebbe possibile rispondere se fossero superate queste difficoltà.

Perché le comunità sociali di piccole dimensioni crescono dal punto di vista spaziale e demografico in strutture organizzative più complesse? Tale problema di complessità organizzativa è stato affrontato in numerosi studi che, a diversi livelli, hanno tentato di formulare modelli di dipendenza dalle risorse, spiegando lo sviluppo di contesti organizzativi e sociali come tentativo di riduzione della dipendenza da tali risorse. Questi studi rimangono però esperienze distinte, che difficilmente avranno un’occasione di sintesi, mentre un approccio integrato e comparativo permetterebbe di generare ulteriore conoscenza su percorsi teorici che spiegano l’accrescimento della complessità organizzativa nel tempo.

Come le persone e le comunità percepiscono e reagiscono ai cambiamenti climatici nel medio e nel lungo termine? Esiste, sotto forma di numerosi casi di studio, un’ampia documentazione dei cambiamenti sociali come risposta a mutamenti climatici di breve o lungo periodo. Si tratta di analisi sempre ex-post, con interpretazioni anche persuasive, ma con grosse difficoltà nell’identificare correlazioni e generalizzazioni applicabili a contesti diversi da quelli del singolo caso.

Come evolve l’organizzazione dei processi di urbanizzazione e come reagiscono le dinamiche sociali e demografiche? La città è una forma di organizzazione della società che ha avuto origine più di 5.000 anni fa, e oggi più del 50% della popolazione vive in contesti urbani, con un trend in continuo aumento. Gli archeologi possono fornire dei modelli predittivi che spiegano l’evoluzione delle moderne città, ma un risultato più avanzato in termini di conoscenza può derivare solo dallo studio comparato e dalla simulazione di contesti urbani diversi, combinando variabili quali: tempo, popolazione, area geografica, infrastrutture, risorse, clima e ambiente.

Oltre alle pratiche di condivisione della conoscenza, anche gli strumenti a supporto della condivisione di dati e informazioni, e le strutture organizzative e gli approcci alla pratica presenti in archeologia hanno un loro ruolo nelle difficoltà attuali (Braccini and Federici 2010; Federici and Braccini 2012).

Requisiti fondamentali per la condivisione della conoscenza in archeologia

Quali sono i principali requisiti per la condivisione della conoscenza in archeologia? Lo studio di Kintigh et al. ne mette in evidenza tre: la sintesi, il cambiamento delle pratiche di studio, e la disponibilità di una cyber-infrastruttura.

Lo studio dell’evoluzione della cultura umana richiede la raccolta, l’analisi e la sintesi di grandi quantità di dati. Se nella prima metà del XX secolo era ancora possibile per singoli ricercatori padroneggiare una vasta area della letteratura scientifica in archeologia, l’esplosione dimensionale dei dati prodotti dalla ricerca negli ultimi 40 anni ha reso di fatto impossibile per i singoli seguire le diverse traiettorie di ricerca. Le nuove tecnologie hanno spinto gli archeologi a raccogliere sempre maggiori quantità di dati. Anziché espandere la significatività degli studi, questo ha contribuito ad una iper-focalizzazione delle domande di ricerca su ambiti locali. Mentre, quindi, esistono grandi quantità di dati, la capacità di sintesi della conoscenza è ostacolata dall’assenza di capacità di individuazione, acquisizione, manipolazione, analisi e visualizzazione dei dati stessi.

Se le difficoltà di gestione di questi dati influenzano le traiettorie di ricerca in archeologia, la disponibilità di infrastrutture – tuttora inesistenti – per il trattamento degli stessi potrebbe costituire una soluzione. L’uso di una infrastruttura di ricerca per il trattamento dei dati e delle informazioni in archeologia potrebbe, in primo luogo, consentire agli archeologi di analizzare dati del passato in una maniera diversa rispetto a quella alla quale sono abituati. In secondo luogo, potrebbe anche contribuire a rendere la conoscenza generata accessibile ad altre discipline (es: biologia, geografia, economia).

In ultimo, dal momento che le cyber-infrastrutture offrono sempre nuove opportunità di raccolta, memorizzazione e trasformazione dei dati, gli archeologi potrebbero sfruttare le possibilità per l’integrazione e la sintesi delle grandi fonti di dati già disponibili offerte dai nuovi strumenti. In analogia a quanto successo in ambiti disciplinari diversi, lo sviluppo di queste cyber-infrastrutture in archeologia dovrebbe prendere in considerazione il ciclo completo di generazione della conoscenza, partendo dalla raccolta dei dati e meta-dati, alla conservazione, ricerca, integrazione, analisi e visualizzazione.

Ostacoli alla condivisione della conoscenza

Secondo Kintagh et al., in archeologia una piena condivisione delle fonti della conoscenza incontra difficoltà addizionali rispetto ad altri ambiti. Gli ostacoli hanno natura diversa, essendo riconducibili a tradizioni culturali e a pratiche – individuali o dipartimentali – consolidate nel tempo, e alla grande differenziazione delle informazioni da trattare, dei supporti dove sono registrate e degli stessi oggetti da studiare.

In archeologia operano molte professionalità assai diverse – archeologo, restauratore, conservatore di magazzino, disegnatore, fotografo, archivista – ciascuna delle quali ha un proprio ambito specifico di osservazione, e registra con proprie metodiche e su supporti diversi i dati di rispettivo interesse. Su un unico reperto possono essere quindi disponibili anche molti dati con origine, formato, allocazione diversa. In assenza di una mappa agile ed efficace per rintracciare e ricomporre tutti i dati riferibili a un reperto, si perde gran parte della conoscenza che lo stesso reperto potrebbe apportare.

Anche a causa di pratiche seguite più o meno da sempre, molti dei dati registrati, a partire dal ritrovamento di un reperto, e poi lungo tutta la catena del suo trattamento e conservazione, sono a grave rischio di perdita. Questo pericolo è diffuso praticamente ovunque, presso tutti i soggetti, istituzionali o non, che si occupano di archeologia nel mondo.

I dati possono andare persi perché registrati su supporti deperibili e non facilmente duplicabili: si va da blocchi per appunti, ai fianchi delle cassette che ospitano i reperti, o in alcuni casi a software scelti individualmente dal singolo studioso, spesso a forte rischio di obsolescenza. Ma i dati possono anche andare perduti perché registrati secondo le modalità e le strutture di acquisizione in vigore all’epoca del ritrovamento, spesso in base agli interessi o alle abitudini del singolo archeologo, che è quindi il solo in grado di interpretarli integralmente e ricavarne senso compiuto. In caso di trasferimento, pensionamento o morte di chi ha registrato quei dati, diventa in seguito difficile interpretarli, e la perdita è in genere molto grave, se non totale.

L’ingresso della tecnologia in questo settore, avvenuta di solito in forme spontanee e emergenti, senza un disegno adeguato dei sistemi e senza una costante gestione, paradossalmente aggrava il problema, perché questi dati nativamente digitali, non dispongono di copie su carta a cui eventualmente rifarsi, ne’ sono digitalmente ridondati.

Un altro serio problema derivante dalle modalità di acquisizione e conservazione dei dati risiede nelle difficoltà di ricerca e accesso. In sostanza, la stragrande maggioranza dei dati derivanti da ritrovamenti e studi precedenti all’era digitale sono difficilmente accessibili, a meno di trovarsi fisicamente davanti al supporto che li conserva. Le difficoltà di accesso ai dati derivanti da uno scavo o da un rilievo, fa sì che l’integrazione tra dati con origini diverse non avviene mai tra dati primari, ma può avvenire solo attraverso le sintesi contenute in un saggio pubblicato, con evidente limitazione per la conoscenza addizionale generabile.

A ciò si sovrappone una difficoltà contestuale tipica dell’archeologia: in genere non è possibile ripetere i rilievi che si svolgono in una campagna di scavo – durante i quali si acquisiscono gran parte dei dati fondamentali per la generazione di conoscenza – perché molti degli elementi da rilevare vengono alterati, spostati o distrutti nel corso della campagna, o in seguito.

I dati archeologici sono infine trattati per lo più a livello descrittivo: mancano strumenti evoluti per generare conoscenza dalle informazioni, attraverso la connessione di molti dati diversi e l’inferenza su di essi per ricavare modelli sui sistemi sociali e socio-ecologici, che dovrebbero essere l’obiettivo ultimo delle ricerche archeologiche.

Raccomandazioni per far avanzare la ricerca in archeologia

Rilevanti progressi nella ricerca archeologica saranno possibili solo attraverso le capacità di usare una quantità molto più grande di informazioni derivanti dai ritrovamenti, e di collegare tra loro queste informazioni, ricavandone sintesi e modelli in grado di gettare luce sui tanti aspetti tuttora oscuri. Ma secondo gli autori l’attenzione va posta anche sulle scelte organizzative e gli interventi sulla cultura, in grado di supportare l’avanzamento della scienza in archeologia come in altri settori.

Digitalizzazione delle informazioni

Il primo ambito sul quale è fondamentale lavorare per promuovere un salto quantico nella ricerca in archeologia è quello dei dati. Occorre allestire veri e propri data center, dove tutti i dati disponibili confluiscano in archivi ordinati, che siano gestiti e salvaguardati. Ciò scongiurerà le perdite di dati, e faciliterà l’accesso a una più vasta platea di ricercatori. Inoltre, renderà la ricerca tramite gli strumenti abituali di interrogazione semplice e fruttuosa, ancora di più se sono stati acquisiti e organizzati anche i metadati relativi.

Gli autori, facendo riferimento nel loro caso al contesto statunitense, suggeriscono la creazione di un solo data-center in quel paese, per valorizzare al massimo la condivisione, la facilità di accesso per tutti e le possibilità di sviluppo di collaborazione tra istituzioni diverse, rendendo neutrale la proprietà e la gestione delle risorse infrastrutturali. Un ragionamento simile può essere applicato anche a una prospettiva europea, tenendo conto dello sviluppo delle civiltà antiche (greca, romana ecc.), che travalicano gli attuali confini nazionali.

Tenendo presente che in archeologia solo una piccolissima parte dei dati è già organizzata in archivi simili, occorre concepire una campagna di digitalizzazione dei dati relativi a reperti e documentazione, almeno quelli più significativi, attualmente su supporti non digitali. Allo stesso tempo, occorre rendere disponibili a tutti i dataset ricavati da specifiche ricerche, ad esempio derivanti da analisi chimiche sulle condizioni contestuali.

Un altro ambito sul quale lavorare, riguarda la ricerca di modalità di integrazione semplificata, attraverso meccanismi di interoperabilità, tra dati provenienti da ricerche svolte in settori disciplinari diversi, ciascuno dei quali è portatore di una chiave di lettura importante alla ricostruzione di un quadro unitario di conoscenza.

Nuovi strumenti digitali

Gran parte delle informazioni più facilmente accessibili sono contenute nei documenti pubblicati in varie forme: articoli, libri, report ecc. Con approccio pragmatico, Kintagh et al. affermano che digitalizzare la massa di documenti non ancora digitali, anche se ovviamente meno ricchi di dati dettagliati, è di gran lunga più facile che fare la stessa cosa con i dati primari, dispersi tra diversissimi supporti e spesso di difficile cattura. E tuttavia, per poter utilizzare poi tutti questi documenti digitalizzati come fonte per ulteriori studi, servono nuovi strumenti digitali in grado di compiere ricerche più intelligenti di quelle normalmente disponibili attraverso i motori di ricerca testuale.

Servono tecnologie in grado di interpretare il linguaggio naturale, di estrarre tutti i dati le informazioni e la conoscenza incorporata in questi documenti, e di rappresentarli poi in una forma utile a successive analisi. Dal momento che le relazioni chiave tra i concetti raramente sono espresse direttamente a parole, l’estrazione dovrebbe anche ricostruire la struttura e i legami dei concetti trattati: al riguardo rilevanti esperienze sono state fatte (Hakenberg et al. 2010; Tari et al. 2012), ma il contesto archeologico aggiunge alcune sfide ulteriori.

Servono anche strumenti – come i modelli ad agenti o dinamici – in grado di generare una comprensione profonda di sistemi complessi a partire da tante fonti diverse, e di costruire modelli che rispondano a interrogativi interdisciplinari (“quando questo territorio fu abbandonato e quali erano le condizioni climatiche?”) come base per fare inferenza. E, inoltre, occorrerebbe condividere i modelli via via costruiti e i dati utilizzati.

Cambiamenti culturali

Come in altri casi di ingresso di una nuova tecnologia, occorre investire in formazione sul suo uso e per favorire la piena comprensione dei vantaggi connessi. Ma serve anche costruire in tutta la comunità, dagli studenti a chi già lavora nel settore, la figura di archeologo-esperto di dati. Gli autori citano al riguardo un esempio di programma – basato su un mix di e-learning e workshop frontali con esperti – che si è già dimostrato efficace (http://www.icpsr.umich.edu/icpsrweb/sumprog/).

Notevoli opportunità possono derivare dallo sviluppo della collaborazione tra archeologici accademici e applicati, che avviene soprattutto nelle grandi sfide riguardanti la gestione del patrimonio archeologico, dove spesso le scelte basate sul soggettivo concetto di “rilevanza” del bene, vengono fatte ad hoc e sulla base delle capacità persuasive dell’archeologo assegnatario del bene. Ricomprendere queste grandi sfide, che incorporano un interesse pubblico, con gli abituali processi di gestione dal patrimonio, può contribuire ad allinearne le pratiche e anche a trasferire i risultati, di solito importanti, provenienti dalle ricerche svolte in occasione dei grandi progetti. Si tratta comunque di un intervento di natura più sociale e culturale che archeologica.

Infine, secondo gli autori sono da perseguire anche la creazione di contesti favorevoli al cambiamento culturale, come la creazione di piccoli gruppi che favoriscono dinamiche collaborative, e il diretto coinvolgimento di ricercatori e operatori nelle scelte organizzative fondamentali per attuare le pratiche definite in ambito scientifico.

Una prospettiva organizzativa dei problemi della condivisione della conoscenza in archeologia

Gli ostacoli alla condivisione della conoscenza in archeologia non hanno solo un fondamento di natura tecnologica, ma anche dei presupposti di natura organizzativa. Questi aspetti sono stati già affrontati in altri lavori (Braccini and Federici 2010; Federici and Braccini 2012), ai quali si farà riferimento nel prosieguo per ampliare anche in questa direzione l’esposizione dell’innovazione nel settore archeologico.

In primo luogo un reperto archeologico è un elemento condiviso tra diverse professionalità, ciascuna delle quali interessata ad un aspetto specifico. Archeologi, restauratori, archivisti, magazzinieri, fotografi, svolgono tutti attività diverse sui reperti archeologici, e ciascuna attività svolta può generare conoscenza. Le loro azioni sono però separate sia dal punto di vista temporale che organizzativo. Questi diversi professionisti lavorano in unità funzionali separate, all’interno dei soggetti preposti alla tutela istituzionale del patrimonio archeologico, artistico e paesaggistico (vedi Figura 1). Per queste diverse professionalità il reperto archeologico è un vero boundary object (Star and Griesemer 1989), ed è spesso l’unica forma di coordinamento tra le loro attività.

Figura 1. Tipica differenziazione funzionale interna ad una soprintendenza ai beni culturali

Le loro modalità operative sono poi fortemente condizionate da fattori contingenti e contestuali. Soprattutto nel contesto europeo – dove risiede una importante porzione del patrimonio culturale mondiale – i reperti archeologici vengono spesso individuati durante interventi relativi alla costruzione o manutenzione di infrastrutture, o durante le opere pubbliche. Al contrario delle campagne di scavo in sito, in queste situazioni archeologi e altri professionisti sono chiamati ad effettuare rilievi e a pianificare interventi in tempi rapidissimi. In effetti, l’intervento in sé costituisce un ritardo per il completamento dell’opera, e un corrispondente aumento dei suoi costi.

È facile comprendere come in queste condizioni non è in genere possibile seguire fedelmente la sequenza di operazioni che meglio assicura una completa raccolta di dati e la loro corretta registrazione. Le routine e le procedure operative non sono quindi né rigide, né immutabili, e i tentativi di disegnare workflow “ideali” non hanno successo, perché per lo più inapplicabili. Le pratiche effettive seguono le consuetudini dei diversi professionisti, e sono frutto del necessario adattamento alle condizioni contestuali che si verificano.

In ultimo, le modalità lavorative adottate dai professionisti impegnati nell’archeologia spesso sono di natura individuale, e fortemente legati all’esperienza maturata dalle singole persone. La raccolta delle informazioni sui reperti è spesso più importante del singolo oggetto. Se in alcuni casi il reperto in sé non è affatto significativo – in quanto frammento non idoneo ad essere mostrato in un museo – lo è invece la conoscenza creata a partire dalla sua scoperta, e le modalità con le quali questa viene estratta, conservata, e condivisa influenzano le potenzialità di generarne di altra. Questa cosa può essere anche vista sotto un’altra prospettiva: un reperto richiede trattamenti e conservazione che hanno un costo, la cui contropartita è la fonte di informazioni per la generazione di conoscenza che esso costituisce. Se, a causa di pratiche errate nella rilevazione o nella registrazione di dati, il reperto cessa di essere una fonte di informazioni, non trova più giustificazione la sua conservazione (Braccini and Federici 2010; Federici and Braccini 2012).

Allo stato attuale non è di fatto inusuale per un reperto archeologico tornare nell’oblio una volta scoperto. Ad esempio, i lavori di costruzione di Via dei Fori Imperiali a Roma nel 1939 hanno contribuito a ritrovare un certo numero di reperti archeologici. Una volta estratti e catalogati sono stati uniti insieme ad altri reperti provenienti da campagne di scavo del XIX secolo sui colli Palatino e Celio. I reperti sono stati conservati in 500 casse di legno in attesa di una decisione finale sul loro utilizzo. Gli eventi della seconda guerra mondiale che seguirono a breve ne fecero però perdere la memoria. Gli stessi reperti sono stati “ri-scoperti” nel 2010 nei sotterranei del Museo della Civiltà Romana a Roma, e il tempo necessario per ri-studiare e ri-catalogare il contenuto di tutte le casse è stato stimato in due anni (Fulloni 2012).

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[toggle_item title=”Il concetto di Boundary Object (Star & Griesemer; 1989)” active=”true”]

Alcuni contesti lavorativi, tipicamente ad alto contenuto di conoscenza, sono caratterizzati dalla presenza di persone provenienti da diverse comunità professionali (mondi sociali). Queste dispongono di conoscenze e competenze diverse, si trovano a lavorare in un gruppo che condivide un obiettivo comune, e devono individuare meccanismi di coordinamento e routine comuni per collaborare. È questo il caso di contesti quali quello descritto nell’articolo dove ricercatori di diverse discipline, tecnici, e personale amministrativo condividono l’obiettivo di portare a termine progetti di ricerca.

Affinché il gruppo stabilisca una effettiva collaborazione è necessario comunicare e riconciliare diverse interpretazioni degli stessi fenomeni, e questo richiede un notevole sforzo.

In contesti simili i boundary object possono aiutare comunicazione e coordinamento. Un boundary object è un oggetto – sia fisico che astratto – con una struttura sufficientemente malleabile (in senso metaforico) da poter essere adattato al contesto specifico e alle necessità dei diversi soggetti che lo usano, ma al tempo stesso sufficientemente strutturato da poter mantenere una identità comune attraverso i diversi soggetti. Per il gruppo questi oggetti hanno una identità poco definita, mentre per ciascun componente hanno un significato specifico. Per questo, pur se possono assumere diversi significati, ciascun componente del gruppo proveniente da un diverso mondo sociale è in grado di riconoscerlo ed assegnarli un significato specifico. In questa maniera i boundary object facilitano la comunicazione e il coordinamento tra mondi sociali diversi che si intersecano in un gruppo di lavoro.

Nel caso descritto nel presente articolo i boundary object sono i singoli reperti archeologici con il loro patrimonio di conoscenza, e i diversi mondi sociali sono quelli delle comunità di archeologi, archivisti, fotografi, restauratori e storici che intervengono a vari livelli e relativamente a vari aspetti nella gestione dei reperti e delle relative informazioni. [/toggle_item]
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Bibliografia

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Edmunds, M. G., and P. Morgan. 2000. “The Antikythera Mechanism: Still a Mystery of Greek Astronomy?” Astronomy & Geophysics 41(6): 6.10-6.17.

Federici, Tommaso, and Alessio Maria Braccini. 2012. “The Interplay Between Practitioners and Technological Experts in the Design Process of an IS in Archaeology.” Journal of Cases on Information and Technology 14(1): 26–45.

Fulloni, Alessandro. 2012. “Fori Imperiali, Il Mistero Delle 500 Casse – Corriere Roma.” http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_settembre_12/fori-impieariali-mistero-500-casse-1703745805200.shtml (July 10, 2013).

Hakenberg, J et al. 2010. “Efficient Extraction of Protein-Protein Interactions from Full-Text Articles.” IEEE/ACM Transactions on Computational Biology and Bioinformatics 7(3): 481–94. http://ieeexplore.ieee.org/document/5473210/.

Kintigh, Keith W. et al. 2015. “Cultural Dynamics, Deep Time, and Data.” Advances in Archaeological Practice 3(1): 1–15. https://www.cambridge.org/core/product/identifier/S2326376800000310/type/journal_article.

De Solla Price, D. 1975. Gears from the Greeks: The Antikythera Mechanism: A Calendar Computer from Ca. 89 BC. New York: Science History.

Star, Susan Leigh, and James R. Griesemer. 1989. “Institutional Ecology, `Translations’ and Boundary Objects: Amateurs and Professionals in Berkeley’s Museum of Vertebrate Zoology, 1907-39.” Social Studies of Science 19(3): 387–420. http://sss.sagepub.com/cgi/doi/10.1177/030631289019003001.

Tari, Luis et al. 2012. “Incremental Information Extraction Using Relational Databases.” IEEE Transactions on Knowledge and Data Engineering 24(1): 86–99. http://ieeexplore.ieee.org/document/5611526/.

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