Creativi sì, ma come? La sfida del contesto culturale per la creatività e l’innovazione

Molto si è scritto su creatività ed innovazione. È infatti di tutta evidenza che gran parte della sfida del cambiamento nel lavoro che stiamo vivendo passa attraverso una più approfondita comprensione di cosa queste significhino e di come possano essere utilmente favorite e rafforzate con appropriati strumenti di gestione. Tende però a restare nell’ombra il tema della cultura (sia organizzativa che nazionale) e del ruolo che questa gioca a supporto di creatività ed innovazione, tema che ci pare possa invece contribuire all’efficacia delle riflessioni in argomento. In questa prospettiva, qualche spunto interessante ci viene da una ricerca recentemente pubblicata, dalla quale partire per inquadrare la questione e proporre ulteriori suggestioni.

Introduzione

Il nesso tra cultura (organizzativa e nazionale), da un lato, e creatività ed innovazione, dall’altro, rappresenta un tema relativamente inesplorato, in particolare nell’ambito degli studi sulle risorse umane e la gestione delle persone. Da un lato, negli ultimi anni si sono moltiplicate le ricerche su creatività e innovazione variamente intese e si è rinnovato l’interesse rispetto alla gestione delle persone in diversi contesti culturali a partire dalle specificità culturali e con riguardo ad una forza lavoro sempre più internazionale e internazionalmente distribuita. Dall’altro, il problema di come la (gestione della) cultura nelle sue due dimensioni si interfacci con creatività ed innovazione non è diventato un focus specifico nell’ambito dell’HR Management. Tuttavia, è evidente come la cultura giochi un ruolo di crescente importanza nelle varie manifestazioni connesse al lavoro, e come creatività e innovazione occupino uno spazio rilevante nel lavoro contemporaneo: l’esame di tale relazione quindi rientra nel perimetro del dibattito sulla gestione delle risorse umane di oggi.

Nel presente articolo ci proponiamo di illuminare il rapporto tra queste dimensioni – cultura e creatività/innovazione – a partire da un articolo apparso recentemente sulla prestigiosa rivista Administrative Science Quarterly in cui si indaga su un particolare aspetto della cultura ovvero la cultural tightness-looseness – che potremmo tradurre con il binomio rigidità-elasticità della cultura stessa. Tale legame viene messo in relazione con due output relativi alla creatività a livello individuale, nello specifico l’engagement e il successo con riferimento a compiti creativi (Chua et al., 2015). L’ipotesi centrale di questo studio è che la cultura funga da fattore di mediazione tra le determinanti tipiche della creatività– e che questo avvenga in modi non del tutto scontati, con risultati che sfidano alcune comuni credenze alla cui formazione la letteratura “classica” su creatività e innovazione hanno normalmente condotto.

Dopo un excursus sulle relazioni tra cultura e creatività ed innovazione (viene presentata, contestualizzata e discussa l’idea centrale del contributo di Chua e colleghi. L’articolo si conclude con una riflessione in merito alle implicazioni sul modo di intendere la creatività nella pratica manageriale, e in particolare dai manager delle risorse umane, che intende rilanciare il dibattito sulla rilevanza che la cultura assume rispetto alla ricerca di strategie atte a favorire creatività ed innovazione nei lavoratori.

Cultura, creatività e innovazione

L’impatto della cultura su creatività e innovazione è stato variamente affrontato dalla letteratura.

 Anzitutto, è possibile individuare due orientamenti di base negli studi condotti (sia concettuali o empirici). Il primo fa riferimento al concetto di cultura organizzativa tout court. In questa prospettiva, la cultura organizzativa è stata considerata un fattore contestuale, che interagisce con le determinanti individuali e di gruppo della creatività sia a livello individuale, sia di team (Montanari, 2018; Oldham e Cummings, 1996). Come suggerito da Flynn e Chatman (2001: 266), “As a system of social control, organizational culture can influence members’ focus of attention, behavior, and commitment”. Il secondo orientamento si aggancia al concetto di cultura nazionale, e riguarda in particolare le differenze ravvisabili tra sistemi culturali orientali e occidentali, anche riguardo agli effetti su creatività e innovazione (Anderson, Potočnik e Zhou, 2014: 1300-1). In questo senso, la cultura è considerata come un moderatore tra determinanti e output creativi-innovativi a diversi livelli, ad esempio nella relazione tra caratteristiche del task e del contesto sociale e creatività individuale, o nella relazione tra “controllo paternalistico” a livello organizzativo e motivazione intrinseca e creatività di team. A tal proposito, Zhou (2006) ha mostrato come tale relazione sia positiva nei contesti orientali ma negativa in quelli occidentali, agendo in questi ultimi come un fattore inibente della motivazione (quindi deprimendo la creatività) a livello di gruppo.

Riguardo al primo orientamento, sono stati proposti diversi elementi connessi alla cultura organizzativa che possono influenzare i processi e gli outcome creativi e innovativi. Nello specifico, un clima organizzativo a supporto dell’innovazione è stato trovato essere un importante fattore che facilita l’innovazione a livello organizzativo (Martins e Treblanche, 2003). Baer e Frese (2003) hanno poi trovato che un clima organizzativo che favorisce l’iniziativa personale e la psychological safety – la percezione di essere in grado di mostrare le proprie capacità, senza timore di ripercussioni sull’immagine di sé, sul proprio status o sulla carriera – rinforza l’effetto positivo dell’innovazione di processo sulla performance organizzativa. Questo conferma la tesi secondo la quale “valori e norme che valutino positivamente e incoraggino l’apertura alle novità, la messa in discussione dei modi tradizionali di fare le cose, la condivisione delle informazioni e la collaborazione” (Montanari, 2018: 51) incidano positivamente sulla creatività e l’innovazione a diversi livelli. La cultura organizzativa può avere anche un’influenza indiretta agendo sulla composizione della popolazione di un’organizzazione; per esempio attraendo e trattenendo coloro che possiedono caratteristiche individuali come l’apertura mentale, che propiziano la creatività, e l’attuazione di pratiche (relative alla gestione dei team ed agli stili della leadership) che favoriscono la creatività e l’innovazione.

Relativamente al secondo filone, la ricerca ha utilizzato vari approcci allo studio dell’impatto che diversi sistemi di norme e valori alla base di un impianto culturale producono sugli output creativi e innovativi delle organizzazioni. Un filone coerente con il noto e diffuso approccio ai valori della cultura nazionale di Hofstede ha puntato a comprendere l’effetto sulla creatività e l’innovazione di dimensioni come l’individualismo vs. il collettivismo, la maggiore o minore avversione all’incertezza, la maggiore o minore distanza di potere. Per esempio, Flynn e Chatman (2001) hanno suggerito che la creatività e l’innovazione siano, a parità di altre condizioni, favorite nelle organizzazioni collettivistiche. Inoltre, all’interno di queste, risulterebbe premiante un orientamento al pensiero divergente nella fase di generazione delle idee; mentre un orientamento al pensiero convergente sarebbe più efficace nella fase di “messa a terra” della creatività. Nonostante l’interesse suscitato da tali premesse, gli studi empirici che hanno seguito uno stretto approccio ai valori non hanno portato a risultati coerenti (Anderson et al., 2014; Chua et al., 2015).

Un passo in avanti significativo si è avuto grazie agli studi basati sulla psicologia cross-culturale, che parte dal presupposto generale che le differenze culturali nei processi cognitivi e nei comportamenti siano spiegate dalle percezioni individuali relative alle norme condivise all’interno delle culture di appartenenza (e.g., Zou et al., 2009). In questo senso, invece di postulare che un set di valori (ad es., il collettivismo e un elevato orientamento verso l’incertezza) porti intrinsecamente a migliori risultati in termini di creatività e innovazione, ci si focalizza sul tentativo di comprendere in che modo gli individui rispondano a norme radicate in diverse culture, comportandosi secondo le aspettative di comportamento “appropriato” sottostanti a quelle norme. Ad esempio, lo studio di Mok e Morris (2010), che ha per oggetto individui biculturali (si pensi ad esempio alle persone con doppia nazionalità, nel caso specifico asiatico-americane), suggerisce che uno stesso individuo abbia diversi comportamenti creativi a seconda che le norme culturali “agganciate” in una specifica situazione si riferiscano all’una o all’altra cultura, evidenziando come la performance creativa possa dipendere dal contesto culturale di riferimento più pertinente.

Un ultimo aspetto rilevante riguarda la caratterizzazione che è possibile operare rispetto alle diverse culture, ovvero come è possibile descrivere diverse culture nazionali e organizzative relativamente ad alcune particolarità. Ad esempio, le proposizioni di Flynn e Chatman sopra anticipate sono basate sulla distinzione tra “forza” della cultura (culture strength intesa come “the extent to which members agree and care about values and norms”) e contenuto della cultura (“the extent to which these norms and values differ across settings”) (Flynn e Chatman, 2001: 266)[1]. Ancora, sono state suggerite le nozioni di coesione (cohesiveness), di congruenza valoriale (value congruence)[2] e quella di rigidità-elasticità culturale (cultural tightness-looseness), già introdotta, su cui ci soffermiamo nella sezione seguente per esaminarla più in profondità.

Riprenderemo quindi alcuni studi, quello di Chua e colleghi in particolare, che hanno portato a risultati significativi e coerenti, da cui ci pare di poter trarre qualche interessante indicazione di prassi manageriale.

Dentro la cultural tightness-looseness

Per introdurci allo studio di nostro interesse, è utile anzitutto definire che cosa si intende per “rigidità-elasticità delle culture” (cultural tightness-looseness). Gelfand, Nishi e Raver (2006) sottolineano la necessità di prospettive articolate e multidisciplinari per catturare adeguatamente la complessità della cultura. A tal fine, gli studiosi hanno proposto un modello multi-livello (i cui ambiti riguardano la società, l’organizzazione e quello individuale) di tightness-looseness delle culture che tiene in conto gli outcome organizzativi. Essi definiscono la cultural tightness all’interno di una determinata società come la combinazione del livello di forza delle norme sociali e della severità dei meccanismi sanzionatori verso gli individui in caso di mancato rispetto delle stesse. Così intese, le culture “rigide” supportano il raggiungimento di obiettivi di ordine, efficienza e conformità attraverso l’esplicitazione di norme sociali chiare e non ambigue e di rigidi meccanismi di punizione per coloro che non le rispettano. Al contrario, in società con culture “elastiche”, le norme sociali sono meno trasparenti, e la società nel suo complesso tende ad essere più tollerante rispetto a comportamenti devianti. Se paragonate con quelle operanti in culture rigide, le società e le organizzazioni con culture elastiche appaiono meno prevedibili, meno ordinate e quindi meno efficienti, proprio perché non presentano norme definite né corrispondenti meccanismi di enforcement che regolino il comportamento. In un articolo pubblicato sulla rivista Science nel 2011, Gelfand e colleghi hanno trovato che alcuni paesi (Pakistan, Malesia, Giappone, Norvegia, Cina e Singapore) raggiungono livelli elevati di rigidità della cultura nazionale; nazioni come Ucraina, Ungheria, Brasile e Australia risultano invece essere contesti caratterizzati da cultural tightness relativamente ridotta.

L’impatto che una cultura tight può avere sugli individui viene spiegato attraverso il concetto di psychological adaptation. Come chiariscono Chua e colleghi (p. 193), “Social institutions such as schools, families, religious bodies, and the justice system work in concert to foster certain psychological adaptations in individuals. Over time, these institutional practices collectively foster individual-level psychological adaptations, such as self-regulation, cognitive styles, and propensity toward change, all of which have implications for creativity.” Si tratta quindi a questo punto di comprendere quali sono questi adattamenti psicologici a livello di individuo, che hanno rilevanza ai fini degli outcome creativi e innovativi.

In termini di meccanismi di auto-regolazione, il condizionamento delle culture rigide si riflette sulla tendenza da parte degli individui a concentrarsi sulla “prevenzione” dei comportamenti e dei risultati non appropriati, invece che sulla ricerca attiva o “promozione” di comportamenti e risultati desiderabili. La ricerca psicologica suggerisce che individui prevention-focused siano meno inclini al pensiero creativo rispetto agli individui promotion-focused, perché la creatività richiede l’assunzione del rischio relativo alla deviazione dalla norma e l’uscita dai canoni prestabiliti, comportamenti che un individuo prevention-focused tende ad evitare.

Quanto agli stili cognitivi, culture tight vs. loose sono state associate agli stili adaptor vs. innovator, rispettivamente. Mentre le persone con uno stile adattivo accettano assunzioni, teorie, norme e pratiche del sistema in cui sono inseriti, considerandole come validi punti di riferimento, coloro che hanno uno stile cognitivo innovatore sono spinti dal superare tali benchmark. Anche qui, la ricerca ha fornito evidenza che i secondi giungano più facilmente a soluzioni creative rispetto ai primi.

Infine, con riguardo alla propensione verso il cambiamento, poiché le culture tight promuovono l’aderenza alle norme esistenti, è stato trovato che gli individui immersi in tali culture sono più resistenti al cambiamento.

Poste queste basi, i nostri autori introducono un’ulteriore dimensione importante per le conseguenze in termini di creatività e innovazione, relativo alla “localizzazione” del task creativo. L’idea è che vi siano due tipi di task creativi, quelli condotti nel contesto culturale di appartenenza (o in un contesto simile), e quelli condotti in un contesto “straniero” (foreign). Questo rileva poiché, come dimostrato dagli studi sulla dimensione sociale della creatività (e.g. Csikszentmihalyi, 2003), il “successo” della stessa dipende in parte anche dai canoni e parametri utilizzati dalle audience (i “valutatori” della creatività stessa), canoni e parametri che possono essere “vicini” o “distanti” rispetto a coloro che svolgono il task.

L’idea insomma è che se, in generale, la teoria sembra puntare su una minore propensione creativa da parte degli individui immersi in culture tight, i risultati del processo creativo (creative engagement e performance in questo studio) dipenderanno anche (i.e. saranno “moderati”) dalla prossimità vs. distanza culturale tra i lavoratori impegnati nel task creativo e i valutatori (le audience) del task stesso. Questo implica che qualora un individuo influenzato da una tight culture si misurasse con un task creativo valutato da un’audience aderente a una cultura loose, la valutazione di “bassa creatività” sarebbe maggiore; ma anche che lo stesso individuo, quando valutato da audience vicine alla sua cultura, possa essere maggiormente apprezzato in termini di creatività. Questo anche nel caso di foreign tasks in cui la cultura delle audience sia vicina a quella degli innovatori: “individuals from tighter cultures are more likely to engage and succeed in foreign creative tasks from culturally similar countries” (Chua et al., 2005: 213).

Quali implicazioni per la gestione delle risorse umane?

Gli spunti offerti dallo studio presentato consentono di trarre qualche indicazione operativamente utile sul versante della gestione delle risorse umane e qualche suggerimento per chi a questi temi dedica la sua attività di ricerca, per ulteriormente affinare il supporto al mondo manageriale.

Il dato maggiormente interessante nell’analisi di Chua e colleghi è quello che sottolinea come una persona che provenga da un contesto culturale di tipo tight abbia, a parità di condizioni, meno probabilità di un’altra, che affondi le sue radici in una ad impronta loose, di avere successo in compiti creativi. Inoltre, viene sottolineato come questa “penalizzazione” in termini di creatività nelle culture rigide venga amplificata tanto più quanto maggiore è la distanza culturale tra audience e innovatore.

È però utile rimarcare che vale anche la situazione opposta. Quando individui provenienti da una cultura loose si misurano con compiti inseriti in un contesto aderente ad una cultura tight, questi tendono a subire una valutazione negativa, in quanto la loro creatività non viene compresa perché “eccessiva” rispetto ai parametri di una cultura tight. In questo senso, quanto più stretta è l’ampiezza culturale di coloro che sono deputati a valutare l’apporto creativo, tanto minore è la probabilità che l’iniziativa creativa abbia successo. In altri termini, persone provenienti da culture rigide possono essere specificamente inclini allo svolgimento di compiti creativi nel loro contesto culturale di riferimento. Questo perché le culture rigide hanno poco tolleranza nei confronti di soluzioni eccessivamente innovative e pertanto un innovatore deve essere in grado di setacciare correttamente tra un insieme di idee nuove ed identificare quelle che possono funzionare in uno specifico contesto locale. Tale sforzo richiede una profonda conoscenza della cultura locale ed una volontà di aderire alle norme. Inoltre, ponendo attenzione al dipanarsi del processo creativo, vale la pena sottolineare che il pensiero divergente risulta particolarmente utile per la generazione di nuove idee, mentre quello convergente appare necessario per verificare se queste idee sono utili in un dato contesto.

L’implicazione – che sfida quanto precedentemente sostenuto sul tema e può in questo senso essere stimolante per gli HR manager – è dunque che, per i compiti creativi inseriti in un contesto di appartenenza culturalmente coerente, la rigidità culturale stessa aumenta le probabilità di successo e di apprezzamento della componente creativa. Questa suscita un‘ulteriore considerazione, ugualmente utile per chi si occupa di gestione delle persone con la dovuta attenzione alla dimensione organizzativa. Essa è riassumibile in un richiamo alla cautela che deve essere posta nel comporre il quadro culturale complessivo in cui l’azienda si muove, con riferimento alla sua natura tight piuttosto che loose. Il modello di Gelfand e colleghi, con la sua impostazione multilivello, ci richiama esattamente a questo: la cultura del contesto di riferimento (che può essere ulteriormente articolata al suo interno per la compresenza di varie anime ed etnie, diversamente posizionate su questo versante) e quella che caratterizza l’azienda di per sé devono essere scandagliate e considerate per gli effetti che producono sugli atteggiamenti delle persone che vi lavorano. Su questo si innesta, occupando una posizione centrale per chi si occupa di gestione delle risorse umane, il livello individuale. Qui entrano in gioco, ad esempio, i livelli di stress sperimentati da coloro che passano da contesti elastici (per appartenenza e residenza) a rigidi (nell’ambito aziendale) e la percezione di ambiguità riguardo alle attese di comportamento che ne consegue; stress che può essere colto solo attraverso una lente che catturi queste dimensioni e su di queste imposti coerentemente le politiche di gestione, a partire dai processi che presidiano le fasi di ingresso sino a quelli che si occupano di valorizzare le prestazioni lavorative, proponendo modelli di individuazione degli obiettivi e della loro valutazione.

Da questo emerge una esigenza che si ribalta immediatamente sugli HR manager, che devono essere sensibili alla questione della cultura (in particolare alla sua connotazione tightness-looseness), divenendo le “antenne” del tipo di cultura organizzativa, della sua pervasività e diffusione (coesione culturale), della congruenza tra contesto delle audience, cultura organizzativa e cultura delle persone (in termini di necessario fit tra le persone e la cultura organizzativa, tra le persone assegnate ai diversi progetti creativi ed i rispettivi contesti  – ad es. subsidiary estera, cliente, partner, altra unità organizzativa, ecc.).

Emerge inoltre – ed è terreno sul quale gli HR manager svolgono un importante ruolo di supporto – quanto sia centrale la composizione dei team creativi, in modo che vi sia coerenza/prossimità culturale tra i “produttori” e i “recettori” degli outcome creativi. Questo significa consapevolezza che, in situazioni in cui ci si avvale di forza lavoro multiculturale (con varianza quindi sulla dimensione di provenienza in termini di culture tight vs. loose), occorra appropriata valutazione del potenziale e dei modelli di performance creativa delle persone; significa altresì assegnare persone a ruoli diversi a seconda della fase del processo (come già sottolineato, laddove prevalga la necessità di pensiero divergente, persone provenienti da loose cultures e viceversa).

Resta vero, però, che la conoscenza di questi temi deve ulteriormente essere affinata. Servono ulteriori ricerche che approfondiscano le specificità dei tipi di contesti in cui diversi stili cognitivi (quelli che abbiamo definito come pensiero divergente vs. convergente) possono essere più efficaci per creatività e innovazione, con specifico riguardo alle varie fasi del processo creativo (e.g., Cropley, 2006). Questo richiede anche di indagare su come, a seconda del contesto in cui si trova ad operare, un HR manager possa meglio individuare quali caratteristiche debbano prevalere nelle risorse selezionate, e quale supporto fornire ai manager di linea, specialmente a quelli con ruolo di leader, nella promozione di quelle azioni che possono propiziare i processi creativi secondo i diversi stili e processi creativi. C’è insomma spazio per una collaborazione tra professionisti e studiosi su questi temi, che non potrà che dare frutti interessanti per gli uni e per gli altri. La partita è quindi appena iniziata.

Bibliografia

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  • (v. https://science.sciencemag.org/content/332/6033/1100 per l’elenco completo degli autori).
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[1] Per una disamina dell’impatto delle “culture forti” sulla performance organizzativa, si veda Sørensen (2002), che le definisce come quegli insiemi di norme e valori che sono largamente condivisi e sostenuti nelle varie parti dell’organizzazione.

[2] La coesione culturale fa riferimento alla misura in cui i membri di un’organizzazione concordano sull’importanza di specifici valori: se il consenso sull’importanza di tali valori è ampio, la cultura è coesa e forte (Arogyaswamy e Byles, 1987); se il consenso è limitato, la cultura è debole e poco coesa. Similmente, la value congruence è stata definita come il grado a cui i membri organizzativi percepiscono valori organizzativi simili (Khazanci, Lewis e Boyer, 2007).

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