La 24^ esposizione internazionale “Inequalities” della Fondazione La Triennale di Milano pone al centro del dibattito globale le diseguaglianze economiche, geografiche e sociali, grazie al contributo di economisti, artisti, scienziati provenienti da 43 paesi diversi del mondo. Un tema interdisciplinare di stretta contemporaneità che viene affrontato attraverso una serie di mostre, installazioni e progetti speciali ma anche di dibattiti curati da figure di spicco nel panorama culturale mondiale e che vede la collaborazione scientifica dei cinque atenei milanesi: Bocconi, Cattolica del Sacro Cuore, Statale di Milano, Università degli Studi di Milano-Bicocca e Politecnico di Milano. L’obiettivo è creare un forum di riflessione sulle tendenze e contraddizioni del presente e sulle sfide urgenti che il nostro pianeta sta affrontando e sempre più dovrà affrontare.
Al margine della cerimonia di inaugurazione dello scorso 12 maggio, il professore Michael Spence, premio Nobel per l’Economia, keynote lecturer della giornata, mi concede questa preziosa intervista.
Nasciamo disuguali. Le diseguaglianze e le differenze segnano fin dall’inizio la vita di ciascuno di noi. A volte come opportunità a volte come vincoli. Lei ha spiegato con grafici e numeri che ricchezze immense sono oggi nelle mani di un pugno di individui. Il progresso tecnologico potrà consentire la riduzione delle diseguaglianze planetarie?
È una domanda interessante. Storicamente, il progresso scientifico e tecnologico è stato il motore della crescita. E questo è ancora vero. Ma il suo effetto sull’uguaglianza o sulla disuguaglianza dipende dal modello di diffusione della sua applicazione. La vera crescita in senso moderno è iniziata con la rivoluzione industriale, a partire dalla fine del XVIII secolo. Ha dato origine a una crescente disuguaglianza globale, perché circa il 15% della popolazione mondiale in quelli che oggi chiamiamo Paesi sviluppati ha sperimentato questa crescita in termini di reddito, ricchezza, salute, ecc. Il restante 85%, per la maggior parte, non l’ha sperimentata. Una tendenza andata avanti per quasi due secoli, fino alla metà del XX secolo. A quel punto, le disuguaglianze tra i Paesi erano più grandi di quanto fossero mai state.
Questo schema è cambiato (in realtà si è invertito) dopo la Seconda guerra mondiale e i Paesi in via di sviluppo hanno iniziato a crescere. La tecnologia si è spostata nuovamente dalle economie avanzate a quelle emergenti, in combinazione con un’economia globale aperta e la scomparsa degli imperi coloniali. Quindi, a livello globale, la disuguaglianza è diminuita negli ultimi 75 anni. Centinaia di milioni di persone hanno oggi redditi più alti e maggiori opportunità rispetto al passato. Si tratta di un enorme cambiamento positivo.
E’ importante tenere presente che il processo di crescita e sviluppo richiede decenni. Un Paese povero con un reddito pro capite inferiore a 1.000 dollari annui può diventare un’economia ad alto reddito. Se cresce del 7% l’anno e raddoppia ogni decennio, in cinque decenni può comunque entrare a far parte dei paesi più ricchi. Tuttavia una crescita sostenuta al 7% non è solo elevata, ma anche molto difficile da realizzare.
La scienza e la tecnologia sono un elemento critico della crescita e dell’espansione della prosperità. Ma il loro rapporto con la disuguaglianza è complesso e dipende dai modelli di impatto e di adozione.
Possiamo fare qualche esempio?
Sì, credo sia utile. Negli ultimi vent’anni, la tecnologia digitale ha permesso la sostituzione di lavori di routine con macchine digitali. La maggior parte di questi posti di lavoro persi/sostituiti sono quelli a medio reddito. Questo particolare elemento dei modelli di crescita tecnologica delle economie sviluppate ha quindi aumentato le disuguaglianze.
Siamo ora in una nuova fase di trasformazione digitale basata su varie forme di IA. Poiché siamo agli inizi, non sappiamo se la sua adozione ed evoluzione aumenterà o ridurrà le disuguaglianze, anche se aumenterà la produttività. Ma c’è la ragionevole speranza che queste nuove tecnologie possano essere guidate in direzioni che riducano le disuguaglianze.
Il progresso tecnologico è in gran parte legato alla conoscenza, all’uso delle informazioni che creano valore. Oggi si progredisce usando immense banche dati e riuscendo a farle dialogare con algoritmi che elaborano le informazioni. L’IA viene applicata nei campi più disparati, a partire da quelli della knowledge economy (ricerca scientifica, software, medicina, giurisprudenza). Quali saranno le conseguenze sul lavoro di questa rivoluzione tecnologica in atto?
Le prime probabili aree di grande impatto, come lei indica, saranno le scienze. Nel 2024 sono stati assegnati cinque premi Nobel per la fisica e la chimica. Tutti erano direttamente collegati all’applicazione dell’IA in fisica e biologia. Le IA stanno fornendo strumenti potenti che portano a nuove scoperte e accelerano il progresso in molti campi. Le previsioni meteorologiche, comprese quelle accurate e molto precise (in termini di tempi e luoghi) di eventi climatici gravi, sono ora possibili grazie all’IA. In pratica, la scienza raccoglie e utilizza strumenti potenti non appena sono disponibili.
Per quanto riguarda l’economia e l’occupazione, il processo è più complicato. C’è un periodo di sperimentazione ed esplorazione per capire dove e come utilizzare le nuove tecnologie IA. Siamo ancora in questa fase. Poi l’implementazione comporta la modifica dei comportamenti, dei modelli di business, lo sviluppo di nuove competenze e il cambiamento di mentalità. Alcune aziende stanno procedendo più rapidamente di altre. Il processo richiede quindi più tempo man mano che le tecnologie si diffondono nell’economia e oltre i confini nazionali.
Molti fattori influenzano il tasso di diffusione. Ma prima di tutto lasciatemi dire che io e altri economisti crediamo che il potenziale per un aumento della produttività ampio e sostenuto sia reale. Ci sono scettici al riguardo: in verità non lo sapremo finché non accadrà.
Se avremo un aumento sostenuto della produttività, come credo, sarebbe questo il momento migliore. Perché abbiamo bisogno di una forte crescita e di un aumento della produttività come contrappeso in questo momento? Per compensare i vincoli dell’offerta, la frammentazione dell’economia globale, le recenti tendenze di bassa produttività, l’invecchiamento della popolazione, l’aumento del tasso di dipendenza che colpisce negativamente i giovani, l’aumento dei livelli di indebitamento e dei tassi di interesse reali e le complicate questioni legate all’immigrazione.
Credo che il miglior uso naturale dell’IA generativa sia la collaborazione tra l’uomo e la macchina, piuttosto che la piena automazione e la sostituzione degli esseri umani. Il motivo è che gli esseri umani e l’IA hanno punti di forza relativi diversi che, insieme, aumentano la produttività e migliorano la qualità dei servizi. L’IA alla fine è una macchina di previsione, con una qualità di previsione variabile.
Tuttavia, esiste una sorta di pregiudizio sull’automazione e, almeno per un po’, l’IA potrebbe essere utilizzata in modo eccessivo come sostituto piuttosto che come complemento delle persone e dell’intelligenza umana. Inoltre, se l’effetto della produttività fosse grande, nei settori con una minore elasticità della domanda, potremmo assistere a una perdita di posti di lavoro, anche se il modello è quello del potenziamento invece che dell’automazione. Ciò varierà da settore a settore. L’occupazione si espanderà in alcuni e si contrarrà in altri.
Sembra ragionevole aspettarsi che ci saranno sconvolgimenti e turbolenze. Alcuni posti di lavoro scompariranno; molti saranno diversi e richiederanno una nuova formazione, nuove competenze ed esperienze. E ci saranno alcuni nuovi lavori, ma è difficile prevedere quali saranno. Il lavoro cambierà per quasi tutti noi, perché tutti utilizzeremo questi strumenti di IA. Il loro campo di applicazione è quasi universale. Anche nei lavori manuali, le capacità dei robot sono notevolmente migliorate dall’aggiunta dei LLM, che li rendono davvero interattivi per la prima volta.
Nel recente libro Permacrisis, che ha scritto con Mohamed El-Erian e Gordon Brown, si spiega che viviamo in una permacrisi, che non vuol dire una crisi permanente ma un periodo prolungato di instabilità e di insicurezza, derivante da una serie di eventi catastrofici. La lezione è chiara, non si torna più indietro: l’iper-globalizzazione è finita. Come si può riparare il mondo fratturato?
Dopo la pandemia, abbiamo scritto e creduto che l’economia globale fosse cambiata in modo fondamentale e non temporaneo. Uno dei motivi era l’insorgere di shock frequenti e spesso gravi provenienti da più fonti: pandemie, guerre, eventi climatici estremi, tensioni geopolitiche, polarizzazione politica e sociale, nazionalismo crescente e considerazioni sulla sicurezza nazionale che hanno sostituito quelle puramente economiche, prevalenti per gran parte del dopoguerra.
Quando abbiamo scritto il libro, era in corso la guerra in Ucraina. Da allora, si è aggiunto il conflitto israeliano di Gaza e, più recentemente, i cambiamenti dirompenti nella politica internazionale statunitense.
E ci sono forti cambiamenti secolari e tecnologici che spingono a ulteriori scenari, sia positivi che negativi. Ne sono un esempio l’invecchiamento, la frammentazione delle catene di approvvigionamento globali, la carenza di manodopera, le pressioni inflazionistiche che non si vedevano da decenni.
Ci è sembrato e ci sembra tuttora chiaro che l’effetto combinato di questi shock e forze è che il sistema globale e le sue varie parti sono costantemente fuori equilibrio e in continuo adattamento. Questo è positivo ed è meglio della stagnazione. Ma la probabilità di tornare al “vecchio” modello di globalizzazione è molto bassa.
Nessuno ha un piano completo per risolvere le crisi del mondo, tanto meno noi tre. Ma riteniamo che si possano adottare misure concrete e vantaggiose. Una prima serie è quella di guidare, indirizzare e utilizzare con saggezza i potenti strumenti scientifici e tecnologici per cercare di raggiungere modelli di crescita e sviluppo inclusivi e duraturi. Una seconda è quella di mantenere gli impegni sul multilateralismo e i suoi benefici, ma riconoscere che abbiamo bisogno di una nuova versione, più complessa e pratica, che valorizzi le sensibilità in materia di digitale, sicurezza nazionale e distribuzione o disuguaglianza. Una complicazione recente è che la nuova amministrazione americana è aggressivamente disinteressata al multilateralismo e alle istituzioni che lo gestiscono quotidianamente.
Se col ritorno di Trump gli Usa sembrano intenzionati ad abbandonare le istituzioni multilaterali e la cooperazione internazionale, il resto del mondo attraverso quali vie potrebbe costruire una versione light della globalizzazione, un’interdipendenza adattata alla situazione attuale, che mantenga apertura su commercio, investimenti, tecnologia e mobilità delle persone?
Credo che ci siano tre scenari plausibili. Il primo, è un rapido declino della cooperazione internazionale in tutti i settori, compresi quelli cruciali come il cambiamento climatico. Ciò significherebbe abbandonare gli sforzi multilaterali. I costi di questa strada sono molto elevati, quindi non mi sembra l’esito più probabile.
Un secondo scenario è quello di una nuova guerra fredda, con gli Stati Uniti e la Cina come attori principali in ogni ambito. Questo è certamente possibile. Tuttavia non viviamo in un mondo bipolare: c’è l’Europa, che è un’economia enorme, e ci sono anche molte economie emergenti a medio reddito, grandi e in crescita, tutti attori chiave di un mondo multipolare. Nessuno dei mercati emergenti vuole essere costretto a scegliere tra relazioni economiche e di sicurezza produttive con gli Stati Uniti o con la Cina. E si opporranno, così come l’Europa.
Quindi, il terzo scenario è la costruzione di una nuova struttura multilaterale, più complessa, che potrebbe essere definita globalizzazione leggera. I suoi sponsor per ora dovranno essere l’Europa, la Cina e altri grandi paesi emergenti come l’India. Questo scenario è incerto. Ma sembra più probabile degli altri due, perché i vantaggi sono grandi e, cosa importante, i costi di non percorrere questa strada sono enormi, addirittura catastrofici. Naturalmente, la novità è che gli Stati Uniti non saranno uno sponsor attivo, almeno durante l’attuale amministrazione, e questo è un cambiamento importante e negativo.
La frammentazione non aiuta l’emergenza ambientale e la transizione verso un modello di crescita sostenibile, come lei ha scritto parlando di Descructive decoupling. Saranno inevitabili altre migrazioni di massa?
Spero di no. Ma ci siamo vicini. È tardi per un’azione efficace sul clima. Certo, ci sono stati progressi reali. Ma le emissioni globali di CO2 non hanno raggiunto il picco e il cambiamento climatico è tra noi. Se le crisi derivanti dal riscaldamento globale aumentano perché non riusciamo a ridurre le emissioni di gas serra in modo sufficientemente rapido, allora la migrazione disperata è una possibilità reale e terribile.
È stato da tempo dimostrato che i precedenti cicli di adozione delle tecnologie digitali hanno esercitato una pressione al ribasso sui posti di lavoro e sui redditi di “routine” della classe media. Cosa succederà con l’adozione massiccia dell’intelligenza artificiale in particolare IA generativa?
Si tratta di una domanda importante, sulla quale ho riscontrato una notevole confusione. Il ciclo precedente (o uno di essi, abbiamo i personal computer, internet, l’internet mobile, la fintech, l’e-commerce e ora l’IA) ha comportato la sostituzione di lavori di routine con macchine digitali. In questo contesto, per routine si intendono lavori per i quali esiste una precisa sequenza di processi organizzativi che conosciamo e possiamo specificare. Questi passaggi vengono poi tradotti in un codice informatico e le macchine possono svolgere il lavoro. E questo ha avuto un effetto negativo sui posti di lavoro e sui redditi della classe media, come già detto, simile per certi versi all’impatto della globalizzazione nelle economie sviluppate.
Naturalmente, questa tendenza ha avuto dei limiti. Il motivo è che ci sono molte cose che le persone fanno nel corso del loro lavoro che non si prestano alla codifica. Riconoscere immagini o modelli, fare collegamenti, capire il contesto, sono funzioni cognitive importanti che non possono essere codificate e che gli esseri umani fanno senza codici o liste di controllo. Questo sembrava porre dei limiti all’intrusione delle macchine nello strato cognitivo e di elaborazione delle informazioni dell’economia.
Finché non è arrivata l’IA, in particolare, ma non esclusivamente, l’IA generativa. L’IA espande drasticamente l’impronta delle macchine digitali nell’economia in modi complessi. Un modo per pensarci è in termini di prestazioni relative dell’IA rispetto all’uomo. Il punto di riferimento di base per le IA in compiti cognitivi specifici è la prestazione dell’essere umano medio. A volte le IA sono inferiori di poco. A volte sono più o meno uguali. Sempre più spesso sono molto superiori all’uomo. Tutte queste tecnologie hanno un impiego importante, a beneficio dei lavoratori e delle popolazioni, a volte in settori in cui i servizi convenzionali sono limitati.
Nella categoria dei superumani, siamo vicini ad avere assistenti digitali IA per tutti gli abitanti del pianeta, IA che hanno letto tutto in ogni lingua e che in qualche modo lo hanno capito. Si tratta di un potente strumento per accelerare l’apprendimento in quasi tutte le dimensioni che si possono immaginare. Non si tratta di un sostituto dell’apprendimento umano, ma di uno strumento per accelerarlo.
Quindi pensa che l’IA generativa sarà abitualmente utilizzata anche nelle Università?
Nel campo dell’istruzione si discute se e come utilizzarla. A mio parere, il dibattito dovrebbe finire qui. Mi sembra evidente che l’unica possibilità sia quella di aiutare le persone/gli studenti a imparare a usarla, a rivelare le fonti proprio come si fa ora nelle note a piè di pagina, e non cercare di usarla come sostituto. Gli incentivi sono importanti. Gli studenti possono utilizzarla per scrivere tesine. Ma poi bastano 15 minuti di lezione, senza computer o iPhone, per capire se hanno compreso l’argomento. Quindi questo dovrebbe far parte del sistema di valutazione e degli incentivi per usarla nel modo giusto.
Per risponderle, dovremmo usarla tutti come strumento di apprendimento, come assistente digitale per scrivere la prima bozza di quasi tutto e come strumento per aumentare la produttività, con una definizione ampia di produttività.
L’accumulo di asset digitali può creare un enorme potere di mercato, specialmente per le piattaforme che possono essere nodi di una rete a supporto dell’innovazione. Ciò porta al rischio di comportamenti predatori e discriminatori. Come se ne esce?
Sì, è possibile. E questo richiede attenzione e regolamentazione. Credo che ci sia un consenso generale su questo punto, anche se la forma di regolamentazione è ancora un dibattito aperto. Il potere proviene da tre fonti. Quali siano importanti dipende dal contesto e dal caso d’uso. Le tre fonti sono i dati, in particolare i dati personali che vengono utilizzati per monetizzare la fornitura di servizi personalizzati. La seconda è la potenza di calcolo, che più dei dati è l’ingrediente essenziale per l’addestramento dei modelli di intelligenza artificiale. Non sorprende quindi che i modelli provengano da aziende che dispongono di grandi e potenti sistemi di cloud computing, soprattutto negli Stati Uniti e in Cina. La terza è il talento. Le mega-piattaforme possono competere ad alti livelli per i talenti ingegneristici, in concorrenza con altri e con il mondo accademico. Il mondo accademico è svantaggiato in questo settore così come nell’accesso a una potenza di calcolo comparabile. Correggere questa situazione attraverso investimenti pubblici aiuterebbe il mondo accademico ma, aumentando la probabilità di nuove startup nel settore dell’IA, ridurrebbe nel tempo il potere dei giganti tecnologici. L’Europa dovrebbe muoversi in questa direzione.
Infine, il rapporto 2025 AI Index di Stanford segnala alcune tendenze positive. I costi di formazione stanno scendendo grazie all’innovazione in Cina. Il divario tra Stati Uniti e Cina si sta riducendo, il segmento open-source è in crescita e si assiste a una proliferazione di modelli più piccoli e meno costosi da addestrare e interrogare. Tutto ciò è positivo per l’accesso a livello mondiale, in particolare per l’Europa, che deve cercare di colmare il divario digitale, e per la concorrenza.
Quali sono le sfide al benessere sociale causate dall’economia digitale?
La risposta breve è l’uso improprio della tecnologia. Ci sono molti possibili abusi e rischi negativi. L’elenco può diventare piuttosto lungo.
1. Internet è già una fonte di disinformazione, prima dell’IA. L’IA aumenta le sue capacità in queste dimensioni. Sebbene la ricerca sia lontana dall’essere definitiva, ciò potrebbe esacerbare in modo significativo le divisioni già esistenti nella società e la polarizzazione politica e sociale.
2. L’IA può essere e viene utilizzata per catturare l’attenzione in modi che creano dipendenza. Gli effetti negativi sullo sviluppo cognitivo, soprattutto nei bambini, sono oggetto di ricerca e sono piuttosto preoccupanti.
3. L’IA agenziale, ovvero l’IA che non si limita a rispondere alle domande ma compie azioni, è potenzialmente pericolosa a seconda del contesto e del caso d’uso, nel senso che possiamo chiedere a un agente di IA di fare qualcosa che poi esegue in un modo tale da violare norme e valori accettati, in parte perché tali norme e valori non sono stati pensati e imposti come vincoli all’agente di IA.
4. Le armi completamente autonome sono, a mio avviso, molto problematiche e richiedono vincoli concordati o un divieto assoluto.
5. Ci sono questioni che hanno a che fare con la proprietà intellettuale e il copyright che vengono sollevate dagli LLM e da altri modelli di IA generativa. Risolverle in modo equo è estremamente importante per le arti creative, in tutti i settori, e naturalmente per i media. Il processo è in corso, ma non è completo.
6. Abbiamo già parlato della perdita di posti di lavoro, della dislocazione e del cambiamento. Si tratta di questioni importanti. Il messaggio principale è che il modo in cui l’IA viene sviluppata e impiegata comporta delle scelte. Nessun percorso è inevitabile. Questo messaggio proviene da più fonti, tra cui il Rapporto sullo Sviluppo Umano di quest’anno, che parla dell’IA e della sua gestione in modo da migliorare il benessere e l’autonomia dell’uomo.
7. Ci sono altre questioni, alcune delle quali rientrano nella categoria dei rischi esistenziali.
La rivoluzione digitale accelera il processo di “distruzione creativa” ed elimina alcuni lavori tradizionali. Sebbene l’economia digitale abbia creato un numero significativo di nuovi posti di lavoro, il reimpiego delle risorse umane esistenti in nuove posizioni non è un processo rapido. Il miglioramento della produttività determinato dalle nuove tecnologie può essere complicato?
Sicuramente sì. La distruzione creativa è un elemento chiave dell’innovazione a livello industriale ed economico. È complicata e dirompente per le ragioni discusse in precedenza: eccessiva automazione, rapida crescita della produttività, declino di specifici posti di lavoro mentre altri aumentano, e tutti i lavori che cambiano con nuove competenze e mentalità. Inoltre, naturalmente, entrano nuove imprese e gli operatori storici cercano di tenere il passo, ma molti falliscono. Un esempio nel mondo digitale è stato il successo del Blackberry (di Research in Motion), seguito dalla sua scomparsa con l’avvento dell’IPhone, l’internet mobile. E lei ha ragione: spesso non si tratta di un processo rapido.
Le aziende cercano di navigare nella tempesta tra sfide e incertezze. Ha ancora senso dare priorità alla leadership e promuovere una forte cultura organizzativa?
Credo di sì. A patto che “forte”, applicato sia alla leadership che alla cultura, non significhi ristretto o inflessibile.
La leadership si rivela cruciale nelle prime fasi di crescita di un Paese. È necessaria una visione che le persone possano comprendere e in cui credere. Non un piano economico o commerciale dettagliato. Si tratta di un viaggio complesso che richiede capacità di navigazione, creatività e flessibilità. È come navigare con carte incomplete e imperfette. E occorre un impegno verso l’interesse pubblico in senso lato, un impegno inclusivo. Qualsiasi altra serie di obiettivi non riuscirà a produrre una crescita e uno sviluppo sostenuti.
Ho quindi concluso che la leadership e la cultura sono fondamentali, e che la leadership non è associata solo a un singolo individuo, anche se a volte può essere importante e fonte di ispirazione – ad esempio Mandela. Ma si tratta di un tipo particolare di leadership: non ostinata, non eccessivamente impegnata in un unico percorso, flessibile, ad alta integrità e particolarmente efficace nella comunicazione.
L’impatto della trasformazione digitale sui processi di cambiamento organizzativo è rivoluzionario. Quale ruolo gioca la governance etica nel garantire trasparenza, responsabilità ed equità durante i processi di cambiamento?
Credo sia fondamentale. È difficile immaginare un processo di cambiamento efficace senza principi etici, senza un quadro di riferimento e senza guardrail.
Sono stato per 15 anni prima preside della facoltà di Arti e Scienze ad Harvard e poi preside della Business School a Stanford. Non pretendo che tutto questo sia originale. Ma sono arrivato a credere che il cambiamento sia costante. In una barca a vela, il vento non soffia mai dalla stessa direzione. In questo contesto, un’organizzazione senza una serie di principi etici chiari e un sistema di governance che li incarni è come una barca senza timone. Soffia con il vento prevalente e va alla deriva. Non raggiunge nessuna meta. E il tipo di persone che si desidera attrarre nell’organizzazione non arriveranno né rimarranno.
Diversità, equità e inclusione possono migliorare l’innovazione, la collaborazione e la risoluzione dei problemi durante le trasformazioni organizzative?
Sicuramente sì. Credo che ci siano molte ricerche convincenti al riguardo. La diversità aiuta in tutti i modi, a capire e a relazionarsi con i vari stakeholder, compresi i clienti e i dipendenti.
L’obiettivo dell’inclusività era quello di assicurarsi che i membri dei gruppi presenti in una lista avessero opportunità pari a tutti gli altri. Spesso i membri di questi gruppi hanno affrontato ostacoli e discriminazioni in passato. Il problema è che se ci sono persone che non fanno parte dei gruppi elencati, ci si chiede se l’inclusività in termini di opportunità li comprenda. La situazione peggiora. Alcuni dei quadri DEI si sono evoluti ulteriormente fino a caratterizzare coloro che non sono inclusi come il problema o come gli oppressori. A parte la discutibile validità di questa idea, soprattutto se applicata a livello intergenerazionale, essa porta a politiche identitarie e a strutture sociali e vanifica l’idea di inclusività. Divide piuttosto che unire, e alla fine provoca una risposta negativa.
Molte organizzazioni, tuttavia, continuano a impegnarsi per ottenere il giusto tipo di diversità e inclusione, quella globale, nonostante i venti contrari della politica. Si tratta di uno sviluppo positivo, importante per la coesione politica e sociale.
Quali sono le sfide e le opportunità critiche associate all’integrazione della sostenibilità e della responsabilità sociale nelle strategie di cambiamento organizzativo?
Un’altra buona domanda. Adottando l’ESG, le aziende accettano di fatto di fare la loro parte. Promettono di allineare i propri obiettivi, compreso il modo in cui misurano le proprie performance, con imperativi più ampi relativi a sostenibilità, sviluppo e benessere sociale. Ma raggiungere questo obiettivo richiede incentivi efficaci, e crearli non è una questione semplice. Molta attenzione si è concentrata sul passaggio dalla supremazia degli azionisti a un modello multi-stakeholder. Gli Stati Uniti hanno avuto principalmente il modello della massimizzazione del valore per gli azionisti e il recente passaggio (negli ultimi 10 anni) al modello multistakeholder è stato complesso.
Se il modello di business e le pratiche di un’azienda sono percepiti come contrari ai valori ampiamente condivisi, è probabile che essa abbia difficoltà ad attrarre e fidelizzare clienti e dipendenti. Al contrario, se le attività di un’azienda sono considerate responsabili o vantaggiose, sarà molto più facile attrarre e fidelizzare entrambi. Questi possono rappresentare incentivi potenti. Ma dov’è il confine tra responsabile e irresponsabile, vantaggioso e dannoso?
A volte, la risposta è chiara: le aziende hanno subito pressioni pubbliche per affrontare la questione delle condizioni di lavoro non sicure e del lavoro minorile nelle loro catene di fornitura. Ma nella maggior parte dei casi, ci sono dei compromessi; non è possibile massimizzare simultaneamente due o più variabili a meno che non siano monotonicamente correlate funzionalmente (cioè aumentano o diminuiscono sempre insieme). Consideriamo l’esternalizzazione dell’attività manifatturiera nei paesi in via di sviluppo. Questo riduce i prezzi per i consumatori nel mercato interno dell’azienda e sostiene la crescita, lo sviluppo e l’occupazione nel paese in cui la produzione viene esternalizzata. Ma danneggia anche le comunità che un tempo producevano i beni in questione e dipendevano fortemente da quell’occupazione. Anche se i benefici complessivi superano i costi, la comunità continua ad avere un problema. A complicare ulteriormente le cose ci sono le enormi differenze tra i tipi di imprese. Alcune hanno un’impronta di carbonio elevata, altre no. Alcune danno lavoro a migliaia di persone che potrebbero essere vulnerabili al licenziamento a causa dell’automazione, ma molte altre no. Alla luce di ciò, non può esistere una formula valida per tutti per allineare il modello di business e le pratiche di un’azienda agli obiettivi ambientali e sociali.
Naturalmente la misurazione è fondamentale. Senza un’efficace misurazione dell’impatto, si ottiene il greenwashing, ovvero il trattamento dell’ESG come un problema di marketing. Ma peggio ancora, si sminuisce il valore dell’impegno reale delle organizzazioni nei confronti dell’ESG, perché non è facile distinguerle dal gruppo di greenwashing. Si tratta di un problema di segnalazione o, in assenza di misurazioni e segnali, di una forma di selezione avversa.
Lei vanta una lunga lista di studenti eccellenti, a partire da Bill Gates e Steve Ballmer. Quali consigli dà ai manager di oggi per guidare la transizione e il cambiamento?
È stato un privilegio avere studenti talentuosi e fantasiosi in questi anni. Bill Gates e Steve Balmer erano compagni di classe ad Harvard negli anni ’70, laureati in matematica applicata. Con il mio permesso hanno seguito il corso di dottorato in teoria microeconomica. Se la cavavano molto bene, non sempre in classe. Bill lasciò Harvard prima di laurearsi per fondare Microsoft. Steve finì Harvard, venne alla Stanford Business School e se ne andò dopo un anno (o due), per unirsi a Microsoft e aiutare Bill a costruire l’azienda.
Non sono la persona più qualificata per dare consigli ai manager. Tuttavia, osservando altri ottimi manager e leader nel corso degli anni, emergono alcune evidenze. Il talento è importante, ma è necessario attrarre un team di persone più intelligenti di voi e con una vasta gamma di esperienze e intuizioni.
Avere una visione e saperla comunicare è fondamentale nelle aziende, in altre organizzazioni e persino nel governo. Alle persone piace sapere dove stanno andando.
Parlate con tutti, all’interno e all’ esterno dell’organizzazione. Non si sa mai da dove può arrivare un’intuizione importante. Penso che l’integrità e l’umiltà siano davvero cruciali e che la loro assenza sia corrosiva.
La più grande e antica disuguaglianza è forse l’accesso alla conoscenza. Riusciremo mai a eliminarla?
Probabilmente no. Ma potremmo ridurla. Credo che l’economia digitale, soprattutto con la diffusione globale di Internet mobile, e alcune delle potenti innovazioni dell’intelligenza artificiale, ci forniscano gli strumenti per contribuire a colmare le lacune nell’accesso alla conoscenza.
Un esempio speculativo può aiutare il ragionamento. Si stima che nel mondo ci siano ancora 750 milioni di persone (2/3 sono donne) analfabete. È normale pensare che questa condizione renda difficile colmare il divario di conoscenza, compreso l’accesso ai nuovi strumenti digitali emergenti. Ma anche in questo caso credo che i progressi siano possibili. Agli albori del personal computer, l’accessibilità è stata migliorata/trasformata con l’adozione di quella che è stata definita l’interfaccia grafica utente o GUI. È difficile sopravvalutare l’importanza di questa evoluzione nel rendere i computer accessibili alla stragrande maggioranza di noi, che non è addestrata a interagire con il codice informatico. Ora l’interfaccia grafica è onnipresente su tutti i dispositivi che utilizziamo.
Con l’IA generativa e i relativi progressi nel riconoscimento vocale e nella traduzione, si può immaginare la creazione di un’interfaccia utente udibile e funzionale per l’Internet mobile, basata sul linguaggio e sulle immagini. Se fosse vero, ciò contribuirebbe a colmare il “divario di analfabetismo”, poiché l’analfabetismo è la mancanza di istruzione nella lettura e nella scrittura, ma non è un problema per il linguaggio, la comunicazione, l’udito e la vista.
Vorrei quindi concludere con una nota moderatamente ottimistica: possiamo ridurre gli ostacoli che precludono a molti l’accesso alla conoscenza, non riusciremo mai del tutto a eliminarli, è chiaro, ma possiamo tentare di fare il massimo, ciascuno la propria parte, per riuscirci.
A cura di Pamela Palmi, Università del Salento
Michael Spence
È Philip H. Knight Professor Emeritus of Management presso la Graduate School of Business della Stanford University, Senior Fellow della Hoover Institution di Stanford e Distinguished Visiting Fellow del Council on Foreign Relations. È professore aggiunto all’Università Bocconi di Milano e Honorary Fellow del Magdalen College dell’Università di Oxford.
Nel 2001 ha ricevuto il Premio Nobel (con i colleghi Stiglitz e Akerlof) per l’Economia per lo studio dell’asimmetria dell’informazione economica.
Presiede il Comitato consultivo dell’Asia Global Institute ed è stato Presidente della Commissione indipendente sulla crescita e lo sviluppo (2006-2010). È membro del Consiglio consultivo della Luohan Academy di Hangzhou.
È stato insignito del Premio John Kenneth Galbraith per l’eccellenza nell’insegnamento e della Medaglia John Bates Clark per il “contributo significativo al pensiero e alla conoscenza economica”.
Tra le sue pubblicazioni: La convergenza inevitabile. Una via globale per uscire dalla crisi, Laterza (2012); Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi, Bocconi University Press (2024, con G. Brown e M. El-Erian).