Digitalies. Opportunità e insidie della digitalizzazione nei nuovi scenari organizzativi

Il Covid ha stravolto le nostre abitudini lavorative e, nel futuro che ci attende, la digitalizzazione si candida ad essere la “nuova normalità”. Proprio per questo, il ruolo delle organizzazioni nella società non è mai stato così in bilico tra utopia e distopia. Perché digitalizzare non significa necessariamente essere sostenibili.

La Sofistica 4.0 e l’insostenibile leggerezza dell’essere digitali.

Una frase attribuita al filosofo siceliota Gorgia da Lentini recita più o meno così: “Nulla esiste. Se anche qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile. E, se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile[1]. Da buon sofista, Gorgia ritiene che non vi sia alcuna verità assoluta, poiché questa è inesorabilmente destinata a frantumarsi sempre in una miriade di punti di vista soggettivi. Ciò che conta, quindi, nella vita, così come nelle contese dialettiche, non è la verità, ma piuttosto la capacità di persuadere gli altri, di convincerli della fondatezza delle proprie posizioni.

Dopo venticinque secoli, l’attitudine alla persuasione pare essere ancora molto in voga tra le persone. Si pensi, ad esempio, a coloro che si occupano di digitalizzazione e di riassetti flessibili dei processi di lavoro. Su questo versante tematico, risulta ormai molto diffusa l’idea che il lavoro da remoto, nel giro di pochi anni, si affermerà come “new normal” (Williamson et al., 2020; Eccher, 2020; Bonacini et al., 2020; Carrol & Conboy, 2020). Se, da una parte, è vero che cambiamenti di questo genere appaiono inesorabili, dall’altra parte, pare stia emergendo una narrativa troppo “ottimistica”, che non sembra tenere in alcuna considerazione il fatto che il lavoro a distanza richiederà un impiego sempre più intenso delle soluzioni digitali. Queste, infatti, nel momento in cui abilitano il lavoro smart, rendono inestricabile il rapporto di dipendenza tra domanda di flessibilità operativa e domanda di digitalizzazione.

Per quanto possa essere ovvio questo legame, nella narrativa “ottimistica” a cui si sta accennando, solo di rado sono rinvenibili le preoccupazioni che attanagliano quei ricercatori che, da diversi anni, affrontano il tema dei cosiddetti “digital rebound effects” (Galvin, 2015; Coroama & Mattern, 2019).

In altri termini, la digitalizzazione porta senz’altro con sé degli innegabili vantaggi, non solo per le organizzazioni che vi fanno ricorso, ma anche per la società in senso lato. Il risvolto ineliminabile di questi vantaggi, però, è rappresentato dagli innumerevoli e variegati effetti indesiderati che, a seconda dei casi, attenuano o eliminano del tutto la portata benefica della digitalizzazione.

Si pensi, solo per citarne alcuni, agli impatti ambientali delle ICT (Williams, 2011; Pohl et al., 2019) o ai danni collaterali derivanti dalla gestione dei data center (Whitehead et al.,2014) o, ancora, alla controversa relazione tra i metalli rari impiegati nell’industria delle comunicazioni e la sistematica violazione dei diritti umani in quei Paesi dove l’estrazione di questi metalli si erge a pilastro dell’economia nazionale (Sutherland, 2011). Non è difficile concludere che, nella misura in cui il lavoro agile dipende dalla digitalizzazione, un più frequente e intenso ricorso alla flessibilità occupazionale genererà altrettanto frequenti e intensi “effetti collaterali”.

Posta in questi termini, la questione del riassetto dei processi di lavoro in ottica smart risulta intrisa di ricadute etiche. Pensiamo, ad esempio, all’importanza che rivestono gli strumenti elettronici per il lavoro di milioni di persone ogni giorno. Si tratta di un numero incalcolabile di device, che cresce a dismisura ogni anno, non solo a causa dell’obsolescenza che costringe alla sostituzione, ma anche a causa della scelta di ricorrere a forme di lavoro da remoto, che generano una moltiplicazione dei dispositivi cosiddetti “aziendali”.

Per quanto il nostro buonsenso, i nostri valori, o il nostro istinto di autoconservazione morale, possano spingerci a negare l’esistenza di un legame tra il laptop sul quale lavoriamo e lo sfruttamento del lavoro minorile in Congo (Cataleta, 2020), questo legame continuerà ad esistere. Non solo. Diventerà ancora più intenso, se sceglieremo di ricorrere alla digitalizzazione, e a tutti i processi che ne sono dipendenti, senza ponderatezza, in un’ottica cioè totalmente avulsa da considerazioni di stampo etico.

Per quanto sia forte, inoltre, il desiderio di sentirsi green e di ritenere sostenibile tutto ciò che è virtuale o immateriale, esisteranno sempre apparecchiature fisiche e, proprio per questo, ci sarà sempre un problema di smaltimento dei rifiuti elettronici. Ecco, allora, che la digitalizzazione di un processo organizzativo non va perseguita ingenuamente, né in assenza di opportune valutazioni di impatto ambientale.

Nel 2015 sono stati dismessi 42 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici in tutto il mondo e, secondo le stime di chi scriveva all’epoca (Balde et al., 2015), nel 2020 era del tutto plausibile il raggiungimento di quota 52 milioni di tonnellate. Si tratta di numeri impossibili da immaginare. È come se, in un anno, venissero dismesse circa 46 milioni di auto, vale a dire tutti i veicoli circolanti attualmente in Germania (Lange & Santarius, 2020).

Alla luce di questi “semplici” fatti e numeri, dovrebbe risultare più agevole comprendere che la scelta organizzativa di digitalizzare o meno rappresenta una opzione ad impatto esteso. Gli effetti di certe preferenze, difatti, risuonano non solo nel ristretto perimetro dell’organizzazione, ma anche nel vasto mondo che ci circonda e che abitiamo.

Quella che sta emergendo intorno alla digitalizzazione ha tutto l’aspetto di una retorica dai contorni sofistici. Dopotutto, chi esalta eccessivamente temi come lo smart working, la virtualizzazione, i big data, la scarsa importanza della prossimità fisica, si assume la responsabilità di dire (quasi mai esplicitamente) che il “new normal” che ci attende è la cosa migliore che ci potesse capitare.

Nondimeno, se aveva ragione Gorgia e se, dunque, una verità assoluta non esiste, allora non dovremmo dare troppo credito a questa narrativa edulcorata del futuro, perché più che ad una realistica presa d’atto dei fatti, probabilmente siamo di fronte ad un tentativo ripetuto di veicolare punti di vista intrisi di parzialità. A queste narrazioni sofistiche si può rispondere con lo stesso metodo, cioè facendo sentire una voce differente in mezzo ad un coro di opinioni altrimenti indistinguibili. Quello che ci viene raccontato sulla digitalizzazione non è la digitalizzazione, ma è semplicemente la strutturazione del logos che la riguarda.

Allo stesso modo, per gli stessi principi, non possiamo ritenere che certi impatti della digitalizzazione non esistano, solo perché si tace circa la loro esistenza.

Invece di contrapporre a questa retorica, allora, le armi dialettiche mutuate da un differente dominio filosofico, occorrerebbe utilizzare le medesime posture ideologiche. Parafrasando Gorgia, assumiamo che la digitalizzazione non esista; che, se anche esistesse, non sarebbe conoscibile; e che, se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile.

Tutto ciò significa scongiurare la reificazione dei processi digitali. Se questi, infatti, si cristallizzeranno, nell’immaginario comune, in una maniera coerente con l’aura di assoluta positività che attualmente li dipinge, sarà impossibile, un domani, raccontare i suoi lati oscuri. Dopotutto, chi si sognerebbe mai di ripensare un processo che viene dogmaticamente accettato come il migliore possibile? Come recita un vecchio adagio, “il più grande inganno del diavolo è stato quello di far credere che lui non esista”. Del tutto similmente, il più grande inganno di questa Sofistica 4.0 potrebbe essere quello di farci credere che la dematerializzazione esista davvero e che digitalizzare, flessibilizzare, distanziare, siano solo innumerevoli vie d’accesso ad uno stesso modo sostenibile di vivere, produrre e lavorare.

La realtà, però, se proprio dobbiamo evocarla, è molto differente.

Le “nuvole” dove salvare i nostri file sono palazzi di acciaio e cemento, che richiedono manutenzione, che divorano energia e che inquinano anche dopo la loro dismissione.

Una videoconferenza è tanto più inquinante quanto più alta è la risoluzione delle immagini trasmesse e i suoi effetti ambientali collaterali si intensificano al crescere del numero dei partecipanti.

Il 25% di tutto l’argento estratto nel mondo finisce in device elettronici. Questi, dal canto loro, consumano energia in tre momenti: quando vengono prodotti, quando vengono utilizzati e quando vengono dismessi. Incrementare il loro numero, dunque, significa moltiplicare per tre l’ammontare del loro potenziale energivoro. Per produrre 7 miliardi di smartphone in 10 anni è stato necessario consumare 250 terawatt/h di elettricità, cioè un ammontare di energia pari a quella consumata da un Paese come la Polonia o la Svezia in un anno.

Il 10% dell’energia elettrica globale è assorbita dall’industria ICT. Se Internet fosse una nazione, sarebbe al terzo posto per consumo energetico, subito dopo la Cina e gli USA[2].

Si potrebbe continuare ancora a lungo con altri dati, ma il quadro dovrebbe essere alquanto esaustivo già così. Che ruolo giocano tutte queste informazioni, quando si parla di digitalizzazione e si delibera in tal senso?  Come si può esaltare, ad esempio, il ricorso allo smart working senza prendere minimamente in considerazione la sua capacità di far aumentare inquinamento e consumo energetico? Con l’applicazione di quale criterio è stata concepita l’identità digitalizzazione = sostenibilità? Nell’interesse di chi si sogna un’accelerazione di questa insostenibile smartness?

La digitalizzazione non esiste: oltre il determinismo smart.

È del tutto evidente che la digitalizzazione genera impatti che investono il mondo nella sua interezza. Di conseguenza, la scelta di porre più o meno enfasi su questo processo carica di responsabilità inedite i decisori organizzativi. Questi, infatti, nel momento in cui scelgono se e quanto digitalizzare, scelgono simultaneamente anche di dare vita a tutta una serie di “effetti rimbalzo”, che non possono essere evitati. Ad esempio, un manager delle risorse umane, che decide di ampliare la platea dei destinatari di opzioni lavorative smart, sta prendendo, indirettamente, decisioni su altri fronti, meno visibili, ma non per questo inesistenti. Nella fattispecie, sta decidendo non solo quante persone lavoreranno da casa, ma anche quanti device verranno utilizzati, quanto traffico dati verrà generato, quanti rifiuti elettronici verranno prodotti, quanta energia verrà assorbita. Per farsi un’idea di quelli che possono essere i tipici “rebound effects” della digitalizzazione, osserviamo la figura 1. Al suo interno è contenuta una breve rassegna della letteratura che affronta, da più punti di vista, il tema delle ricadute indesiderate dei nostri comportamenti “digitali”.

La situazione rappresentata in questo quadro ci rimanda, con una certa immediatezza, all’idea di un legame tutt’altro che irrilevante tra decisioni organizzative e fenomeni socio-economici di vasta portata. Nel nostro esempio, il responsabile delle risorse umane non è semplicemente un decisore organizzativo, ma è anche, contemporaneamente, un decisore extra-organizzativo. Evidentemente, una sola organizzazione non ha il potere di creare effetti di profonda intensità, ma migliaia o milioni di organizzazioni possono davvero stravolgere gli equilibri ambientali, etici, urbanistici ed energetici del nostro mondo. Perlomeno, è questo il concetto che non di rado si rinviene nella letteratura, allorquando si parla di “effetti rimbalzo” della digitalizzazione.

Come mai – potremmo domandarci – alla del tutto legittima esaltazione della flessibilizzazione del lavoro, non fa quasi mai da contraltare una altrettanto esaustiva disamina dei suoi “rebound effects”? Prima di prendere decisioni così cariche di implicazioni etiche, non sarebbe opportuno valutare i possibili profili di incompatibilità tra la responsabilità sociale di impresa e la digitalizzazione?

Il senso del discorso che qui sta prendendo vita non è racchiuso nella convinzione che un manager debba scegliere tra digitalizzare e non digitalizzare. La questione, invero, è di altra natura e si sostanzia nella scelta tra digitalizzare consapevolmente o inconsapevolmente.

Chi scrive non nega che lo smart working, così come la digitalizzazione, possano essere dei fattori cruciali per la crescita e la sostenibilità. Tuttavia, non si possono prendere decisioni che riguardano queste dinamiche così ricche di implicazioni etiche e sociali, senza prima aver analizzato attentamente il rapporto tra vantaggi e svantaggi. Nella misura in cui, ad esempio, il lavoro da remoto genera “effetti rimbalzo” superiori ai benefici, la sua implementazione dovrebbe essere ripensata o, almeno, dovrebbe essere comunicato con molta chiarezza che l’organizzazione sta flessibilizzando il lavoro in un regime di non sostenibilità.

Tutto questo ci riporta al concetto espresso dalla frase “la digitalizzazione non esiste”. Con questa proposizione si vuole affermare che la digitalizzazione non è una cosa sola, non ha un unico significato e, dunque, non è un fenomeno che possa essere definito una volta per tutte. A seconda dell’organizzazione che vi fa ricorso, a seconda delle modalità e dell’estensione dei processi digitali e a seconda della consapevolezza che accompagna la loro evoluzione, prenderanno forma delle specifiche tipologie di digitalizzazione.

Inoltre, è importante capire in quali contesti economici e in quali condizioni ambientali questo meccanismo prende vita. Vi sono, in tal senso, modi più o meno sostenibili di alimentare la digitalizzazione. Questa potrebbe essere implementata senza ricorrere alla moltiplicazione della dotazione hardware, ad esempio, o potrebbe basarsi sull’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili.

Le organizzazioni e i suoi decisori dovrebbero creare delle proprie retoriche sulla digitalizzazione, da opporre alla retorica dominante che uniforma le questioni e le appiattisce in schemi comportamentali prestabiliti. A giudicare dall’aria che oggi si respira, è come se Taylor, tornato in mezzo a noi, ci stesse dicendo che la digitalizzazione è la nostra nuova one best way e che tutte le istanze estranee al miglioramento dell’efficienza del nuovo paradigma flessibilizzante sono prive di rilevanza. Poiché la questione, invece, è intricata e ricca di risvolti, potremmo addirittura giungere, in certi casi, a definire virtuosa l’impresa che non digitalizza o avveduto e visionario il manager delle risorse umane che sta alla larga dal lavoro agile, perché troppo inquinante.

L’auspicio, in definitiva, è che si possa rendere il più possibile plurale non solo l’approccio speculativo alla digitalizzazione, ma anche il suo utilizzo all’interno dei contesti organizzativi. Questi, oggi più che in passato, si impongono nello scenario economico e sociale come centri di responsabilità etica. Che ci piaccia o no, quindi, la nostra vita e il nostro benessere dipenderanno sempre di più dal modo in cui le organizzazioni affronteranno il tema della digitalizzazione. Questa, dal canto suo, non ha nulla di intrinsecamente positivo o negativo, né è portatrice di una qualche verità definitiva e incontrovertibile. Tutto dipende da noi. Del resto, come affermava Protagora, il padre della sofistica, “si possono sempre sostenere due tesi contrarie su ogni argomento”. Con ogni probabilità, allora, intorno alla digitalizzazione, più che una retorica, dovremmo far nascere una diatriba.

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Note

[1] La tesi viene sostenuta da Gorgia nella sua opera “Sul non essere”, una delle pochissime giunte fino a noi.

[2] Una raccolta di dati ed evidenze a tal proposito è contenuta in Lange e Santarius (2020).

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