Il tema della disabilità è ancora poco studiato dalla ricerca accademica ma rappresenta un focus di grande attualità perché includere i lavoratori disabili significa recuperare competenze preziose, capacità di reddito nonché benessere sociale. Il disability management è la risposta a livello aziendale, che deve essere coniugata a una serie di interventi mirati a livello di politiche pubbliche e linee di azione in ambito aziendale.
Quando si parla di valorizzazione delle differenze in ambito organizzativo non sempre si considera che queste riguardano anche le abilità delle persone, e non solo nel senso dei talenti disponibili per una maggiore produttività aziendale. Nel concetto stesso di diversity management è compresa, tra i vari aspetti, anche la disabilità ed è importante sottolineare che il risultato complessivo della gestione aziendale dipende dal contributo generato da ciascuna forma di diversità (Basaglia & Cuomo, 2016). L’Unione Europea ha approvato diverse direttive volte al contrasto delle forme di discriminazione (tra cui 2000/43/EC, 2000/78/EC; 2006/54/EC) che possono colpire le persone per le caratteristiche di cui sono portatrici. Tuttavia la disabilità assume importanza rispetto alla definizione delle variabili organizzative: la gestione della disabilità in azienda riguarda infatti sia l’assunzione di persone disabili, sia la prevenzione di incidenti sul lavoro o di patologie e la gestione di lavoratori che nel corso della loro carriera hanno sviluppato forme di disabilità fisica e mentale.
Il tema della disabilità rappresenta una frontiera non ancora sufficientemente esplorata nell’ambito della ricerca accademica e del dibattito manageriale e i pochi lavori rilevanti (peraltro non recentissimi) riguardano prevalentemente il mercato del lavoro nordamericano (Bruyère , Erickson , & VanLooy, 2000). La letteratura scientifica internazionale si è concentrata fino a oggi soprattutto sugli aspetti relativi a riabilitazione e reinserimento nei luoghi di lavoro e prevenzione (Amick , et al., 2000; Tompa, de Oliveira, Dolinschi, & Irvin, 2008) ma non ha ancora affrontato in modo soddisfacente il tema dell’accoglienza e del pieno inserimento dei “diversamente abili” nelle organizzazioni produttive. Tuttavia l’argomento è di grande attualità perché solo una percentuale minima di persone con disabilità, significativamente più bassa rispetto alla popolazione non disabile, risulta occupata e ciò come esito della disuguaglianza nelle opportunità di accesso alla formazione e al mercato del lavoro (Bruyère , Erickson , & VanLooy, 2000), con una perdita netta per l’attività economica in termini di competenze e di mancato reddito, nonché conseguenze gravi dal punto di vista dell’inclusione sociale.
Inoltre ripensare l’organizzazione nella prospettiva della diversità delle abilità aiuta ad affrontare un mercato del lavoro caratterizzato da una popolazione sempre più anziana ma ancora necessariamente attiva.
Una interessante ricerca italiana nella prospettiva degli studi di Economia Aziendale (Angeloni, 2011) evidenzia il carattere universale e interdisciplinare della disabilità e propone un approccio di “disability management integrato”, in cui la tematica è considerata sotto diversi profili, tra cui l’inclusione delle persone con disabilità in senso stretto, l’assenteismo, il presenteismo, la sicurezza dei luoghi del lavoro, l’invecchiamento delle risorse umane e offre spunti per la progettazione di programmi educativi interdisciplinari sulla disabilità a livello universitario.
Un nuovo contributo interdisciplinare alla tematica è contenuto nel volume collettaneo di prossima uscita: “Università: una rete per l’inclusione. In ricordo di Walter Fornasa”, a cura del CALD (Coordinamento degli Atenei Lombardi per la Disabilità). La riflessione sull’inserimento dei disabili nei contesti lavorativi trae spunto proprio dal lavoro del CALD volto a superare le distorsioni che impediscono una piena attuazione del principio delle pari opportunità nell’ambito della formazione universitaria. In particolare si segnalano due capitoli che affrontano più direttamente la tematica organizzativa: “Occupabilità dei laureati con disabilità”, di Elio Borgonovi (Borgonovi, 2016), e “Il valore della differenza e le strategie di disability management nel contesto aziendale”, di Gianfranco Rebora ed Eliana Minelli (Rebora & Minelli).
I due contributi evidenziano come gli studi pedagogici, il progresso scientifico e l’evoluzione delle tecnologie abbiano permesso alle persone in condizioni di svantaggio di partecipare alle attività sociali ed economiche con migliori possibilità di partecipazione e maggiore soddisfazione personale rispetto al passato. Inoltre, una maggiore sensibilità della politica alle problematiche legate alla disabilità ha portato all’attuazione di programmi volti al sostegno allo studio e all’inserimento nel modo del lavoro, anche attraverso l’abbattimento delle barriere architettoniche e il superamento di atteggiamenti di carattere “compassionevole”.
Il concetto di disabilità definito dalle Nazioni Unite (Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006) come “risultato derivante dalle interazioni tra persone con limitazioni e barriere attitudinali e dell’ambiente (fisico, economico, sociale) che impedisce la piena ed effettiva partecipazione alla vita sociale sulla base di parità con altre persone” ha ampliato inevitabilmente la sfera dei soggetti che rientrano nell’ambito di attenzione per la disabilità e ha ridefinito il paradigma di “normalità” in termini relativi. Cosicché ogni persona deve essere valutata nell’esperienza quotidiana rispetto ai comportamenti e alle interazioni che caratterizzano abitualmente la sua comunità di riferimento e che rappresentano una “normalità sociale” consolidata, per comprendere se la persona manifesta atteggiamenti e comportamenti differenti a causa di effettive limitazioni fisiche, funzionali o psichiche, o a causa di particolari condizioni di disagio familiare, sociale o economico. Ne deriva una complessità di valutazione da cui discendono poi scelte di strumenti e approcci idonei ad affrontare la specifica disabilità.
In Italia tuttavia, nonostante le leggi che prevedono il collocamento “obbligatorio” di persone disabili (Legge n. 68/1999, dal titolo “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”), molte resta da fare sul fronte delle politiche attive del lavoro e dal punto di vista dell’organizzazione aziendale. Questa situazione è il portato dell’ “organizzazione scientifica” del lavoro, il cui esponente principale fu F.W. Taylor, diffusa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e basata su principi di divisione, specializzazione e standardizzazione dei compiti e delle funzioni, che ha imposto una logica di subordinazione del lavoro a valutazioni di convenienza economica e di sostituibilità con la tecnologia e il capitale. Il lavoro è equiparato cioè agli altri fattori produttivi e ancora oggi è a fatica considerato una espressione della persona, anche se a partire dagli anni ’30 dello scorso secolo la Scuola delle Relazioni Umane di Elton Mayo ha contribuito a riconoscere l’importanza del fattore umano per la produttività aziendale. Un ulteriore contributo al riconoscimento del valore delle risorse umane giunge dalle teorie manageriali “resource based” che considerano le conoscenze, competenze, abilità delle persone come un fattore distintivo di competitività delle aziende private e di funzionalità delle amministrazioni pubbliche e delle organizzazioni non profit. Peraltro, tali teorie sono una espressione evoluta del modello di “organizzazione scientifica” del lavoro in quanto sul piano semantico usano termini quale “capitale umano”, nell’ambito del più ampio concetto di capitale immateriale.
Il capitolo di Borgonovi propone quindi un modello di conciliazione dei bisogni espressi dai consumatori e delle caratteristiche dei beni e servizi atti a soddisfarli, da un lato, con le caratteristiche e le capacità di lavoro, dall’altro, attraverso processi produttivi in cui la definizione della struttura organizzativa e delle posizioni rappresenta la risultante di un processo di riconciliazione concettuale e operativa. Questo paradigma si basa sulla “duplice centralità” della persona, che da un lato è portatrice di bisogni e dall’altro contribuisce al progresso della società con il proprio apporto manuale, intellettuale, emotivo, di passioni, di valori. Le persone sono al contempo consumatori/clienti, quindi legati a scelte di mercati e prodotti, e portatrici di capacità e volontà personali, sviluppate attraverso formazione ed esperienza. Di conseguenza, l’identificazione di attività, compiti e funzioni e la loro aggregazione nell’ambito delle strutture organizzative potrà e dovrà tener conto non solo delle esigenze “oggettive” di ottimizzazione tecnica ed economica ma anche delle caratteristiche “soggettive” dei lavoratori. Le nuove conoscenze e le nuove tecnologie quindi hanno valore in quanto possono essere utilizzate per migliorare la qualità del lavoro umano e non come suoi sostituti, in particolare ciò vale per i portatori di disabilità. Mentre nel modello dell’“organizzazione scientifica” del lavoro le persone con disabilità rappresentavano un elemento negativo in quanto richiedevano aggiustamenti rispetto a processi produttivi standardizzati e ripetitivi, nel modello di “organizzazione personalistica” l’inserimento di persone con disabilità può diventare un elemento positivo anche in termini di competitività. Quanto più la competizione si giocherà su creatività e innovazione e sulla capacità di trovare soluzioni per problemi complessi, tanto più sarà utile gestire “la diversità”, in tutti i suoi aspetti, compresa la disabilità, per trarne un importante contributo di valore.
L’analisi delle competenze e delle abilità possedute dalle singole persone è alla base di qualunque sana gestione del personale, dato che il cattivo inserimento lavorativo di “qualunque” persona genera costi, palesi e occulti, economici e non economici. Quindi anche nel caso delle persone disabili questa analisi rappresenta il presupposto per elaborare un progetto occupazionale calibrato rispetto alle loro capacità, potenzialità e aspirazioni e per individuare gli specifici fabbisogni e fornire i più appropriati adattamenti in modo da valorizzarne il contributo.
Se si accetta la concezione secondo cui il lavoro ha anche la finalità di contribuire al benessere psico-fisico delle persone e quindi della società intera, è necessaria una progettazione organizzativa che consenta di adattare il lavoro al lavoratore e non viceversa. Ne consegue che la valorizzazione delle risorse disabili è la leva con cui si dà dignità al lavoro di “tutte” le persone e si restituisce quella nobile funzione sociale che, secondo Zappa, è connaturata alla stessa definizione di azienda.
Tuttavia, la sensibilizzazione culturale risulta un processo più facile ed efficace se gestito a monte dell’ingresso lavorativo, e cioè all’interno del sistema educativo, dato che la cultura e le condizioni di occupabilità delle persone si formano soprattutto e prima di tutto nelle aule scolastiche e universitarie.
Borgonovi sottolinea che secondo il modello di “organizzazione personalistica” l’azienda deve adattarsi alla disabilità della persona per poter beneficiare dei vantaggi connessi alla strategia dell’inclusione. La scarsa propensione delle aziende italiane per una politica dell’inclusione è paradossalmente anche la conseguenza della lunga tradizione del welfare pubblico italiano, connotato da un approccio di tipo assistenziale verso le persone con disabilità, che ha sostituito e quindi sopito l’iniziativa del privato nei processi di responsabilizzazione e di elaborazione delle strategie per far fronte alle sfide sollevate dalla disabilità (Angeloni, 2011). Al contrario i Paesi in cui il ruolo del potere pubblico nella vita sociale ed economica è più limitato hanno visto uno sviluppo maggiore delle iniziative volte all’inclusione lavorativa delle persone disabili e degli studi scientifici sul tema. In tali contesti, come per esempio negli Stati Uniti, il disability management rappresenta una risposta quasi naturale del sistema aziendale come strumento di riduzione dei costi e miglioramento dell’efficienza.
Secondo una classica definizione, il disability management è una strategia che mira a prevenire o a conciliare la disabilità nei luoghi di lavoro, usando azioni coordinate volte a garantire un’occupazione di qualità alle persone che sperimentano limitazioni funzionali di carattere temporaneo o permanente (Akabas, Gates , & Galvin , 1992). In funzione e nel rispetto della work ability degli individui, il disability management si preoccupa da un lato di ricercare soluzioni diversificate che enfatizzino i punti di forza delle persone con disabilità e dall’altro di diffondere una cultura organizzativa scevra da pregiudizi e da sentimenti discriminatori, con benefici ampiamente documentati dalla letteratura.
Tuttavia in Italia la figura del disability manager è entrata per la prima volta nel linguaggio istituzionale solo nel 2009 grazie al tavolo Tecnico istituito tra Comune di Parma e Ministero del Lavoro, della salute e delle Politiche Sociali ma non è ancora stata approvata una norma nazionale che regoli il ruolo del “responsabile in materia di disabilità” ma certamente si sta diffondendo una certa sensibilità rispetto al tema, in precedenza trascurato.
Il capitolo di Rebora e Minelli evidenzia però che un sostanziale aumento del tasso di attività della popolazione disabile non sembra raggiungibile attraverso politiche uniformi e generalizzate ma richiede un approccio flessibile, che adotti una molteplicità di strumenti ben mirati rispetto a situazioni ed esigenze tra loro molto differenti. La complessità dell’obiettivo richiede che si attivi una relazione virtuosa tra politiche pubbliche e linee di azione in ambito aziendale.
Il ruolo delle politiche economiche e sociali può essere quello di promuovere e facilitare nuove soluzioni, rimuovendo vincoli e aprendo spazi per le iniziative e le scelte autonome dei soggetti che operano nelle diverse organizzazioni. Le aree di intervento sono molte e tra loro interconnesse, tra cui la traduzione delle norme legislative antidiscriminazione in provvedimenti di valenza operativa, gli interventi e le politiche socio-sanitarie orientate a favorire la capacità lavorativa e la propensione al lavoro delle persone disabili, la preferenza per le politiche attive del lavoro rispetto a un approccio di tipo assistenziale, lo sviluppo della formazione continua per tutte le fasce di lavoratori e in tutte le fasi della vita professionale, la promozione dell’equilibrio vita-lavoro, e infine forme contrattuali che favoriscano la flessibilità, con riferimento a luogo e orario di lavoro, tenendo in considerazione anche le possibilità offerte dallo smart working.
Queste politiche hanno il ruolo di costruire il contesto più favorevole, ricco di stimoli e sostegni per il diffondersi di buone prassi di disability management nell’ambito delle organizzazioni private e pubbliche di ogni settore di attività.
Accanto a una concezione del disability management che comprende non solo l’accoglienza del disabile all’interno del sistema aziendale ma soprattutto la prevenzione di infortuni e malattie nonché l’assistenza per il recupero del potenziale lavorativo allo scopo di mantenere i livelli di produttività, anche le stesse soluzioni architettoniche degli edifici pubblici e privati, gli strumenti di lavoro, nonché i mezzi di trasporto e tutti gli altri ambienti aperti (come i parchi) e chiusi (come le stazioni) in cui svolgono le attività quotidiane delle persone dovrebbero essere progettati e realizzati tenendo conto della loro reale accessibilità e utilizzabilità (Arenghi, 2007) da parte dell’“utenza reale”, ovvero di cittadini con gradi diversi di abilità fisica e mentale. La questione non riguarda soltanto l’adempimento di specifici obblighi di legge ma la stessa concezione antropologica: la persona, nella sua integrità, deve essere rispettata in tutte le fasi e le situazioni della vita. Creare percorsi differenziati per i disabili all’interno degli ambienti architettonici, introdurre condizioni speciali di fruizione degli strumenti e dei mezzi di trasporto che costituiscono un’eccezione e sottolineano la diversità non rappresentano certo una modalità di inclusione ma al contrario generano separazione e inducono costi economici e sociali indiretti. In questa direzione, il Design for All (DfA) assume importanza come metodologia progettuale per l’inclusione e l’integrazione che si basa su un approccio sistemico e olistico dell’ergonomia, necessariamente multidisciplinare. Ma è anche un concetto, una filosofia che si attua sia nelle politiche sociali sia nelle scelte di sviluppo sostenibile ed è un potente stimolo all’innovazione per le aziende.
Il DfA ha le sue radici storiche nell’analisi della disabilità e ha poi allargato la prospettiva di indagine alle esigenze di tutti, valorizzando le differenze nel progetto “per tutti” e riconoscendo il diritto alla soddisfazione “per tutti”. Da ciò discende un’importante implicazione: il riconoscimento del dovere sociale e politico di adattare “l’intorno” alle esigenze delle “diverse” persone per realizzare il diritto di tutti all’inclusione sociale (Accolla, 2009).
Il concetto di DfA trova le sue radici nella cultura del welfare sviluppata a partire dagli anni ’50 nei Paesi del Nord Europa, in particolare quelli scandinavi, in cui si è accettata l’idea di collegare la problematica al concetto di work ability, nel quale si afferma che il lavoro stesso può essere migliorato in relazione ai lavoratori e alle rispettive caratteristiche e non si tratta quindi solamente di adeguare i lavoratori rispetto al contenuto dei compiti inteso come una realtà oggettiva e predefinita. Inoltre, in questa prospettiva la responsabilità di mantenere la capacità di lavoro è condivisa tra i manager e i lavoratori, presupponendo quindi una nuova forma di cooperazione.
Le organizzazioni sono chiamate a sviluppare le potenzialità insite nelle politiche generali attraverso capacità di elaborazione progettuale, gestione delle risorse e miglioramento continuo che consentano di soddisfare le esigenze dei diversi soggetti interessati. In tale chiave si possono considerare alcune linee di azione specifiche in ambito aziendale: gestire la diversità all’interno dell’organizzazione; innovare nel disegno dei compiti; utilizzare il performance management; gestire gli spazi e i tempi di lavoro; attivare apprendimento e trasferimento di conoscenze; costruire un ambiente di dialogo efficace.
Tra queste, l’utilizzazione del performance management si pone come logica conseguenza di una concezione del job design aperto a una visione allargata e attenta al contesto dei compiti lavorativi, come sottolineato nel modello di “organizzazione personalistica” illustrato da Borgonovi. Esso comprende l’insieme di sistemi e azioni rivolti a sostenere e rinforzare il miglioramento della performance propria dei vari livelli organizzativi e delle singole posizioni, con particolare riferimento ai momenti di definizione degli obiettivi, in relazione alle potenzialità del soggetto, e di verifica del loro raggiungimento, nonché ai connessi sistemi premianti, allo scopo di comprendere e valorizzare diversi ordini di contributi, corrispondenti alla diversità delle risorse e delle competenze attivabili dalle persone.
Un altro aspetto rilevante è la gestione degli spazi e dei tempi di lavoro in una prospettiva di smart working. Obiettivo di un approccio “smart” al lavoro è il contemperamento delle esigenze dell’impresa e del lavoratore, come persona portatrice di caratteristiche e abilità diverse. È importante il ruolo che può essere giocato in questo senso sia dall’ambiente fisico di lavoro (gli spazi), sia dalla definizione degli orari (i tempi), che combinandosi con il disegno dei compiti configurano l’impatto complessivo dell’organizzazione del lavoro sul vissuto delle persone e si prestano a fungere da nucleo simbolico degli sforzi e dell’attenzione delle aziende. Lo smart working non rappresenta un contratto di lavoro ma un nuovo modello di organizzazione costruito su tre pilastri: le risorse umane, che devono dimostrare disponibilità a una modalità di coordinamento non tradizionale con il management aziendale, la tecnologia che consente l’accesso ai dati da remoto, e il monitoraggio delle prestazioni per valutare l’efficacia della soluzione organizzativa. Il lavoro smart non può invero essere ridotto al mero telelavoro, al contrario esso ammette formule che associano la presenza in azienda al lavoro in ambienti diversi, più confortevoli e convenienti per il lavoratore.
Questa modalità non configura quindi un allontanamento dello smart worker dall’ambiente di lavoro ma permette una più agevole soluzione per le esigenze del lavoratore e dell’azienda potendo comprendere dunque diverse opportunità tra cui l’home working e soprattutto il coworking, inteso come luogo di socializzazione, impollinazione e ibridazione professionale, all’interno di un ambiente opportunamente attrezzato e facilmente raggiungibile dal lavoratore, dove si evitano l’isolamento forzato ma anche i disagi derivanti dal trasferimento quotidiano da casa all’azienda. Tuttavia esso richiede un cambiamento fondamentale nella concezione del lavoro che comporta una ridefinizione dei meccanismi di coordinamento e controllo, nonché dei sistemi di gestione del personale.
In Italia lo smart working non ha ancora ricevuto un inquadramento normativo sistematico, attualmente è ridotto alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro (D.Lgs 151/2001) e alla disciplina del part-time, nonostante la sua portata sia ben più ampia.
In conclusione, le sei linee proposte per le strategie aziendali ed organizzative concorrono, insieme alle sei politiche pubbliche, a configurare nuove soluzioni per la valorizzazione della popolazione lavorativa con disabilità. Esse sono concepite come leva per un assetto del mercato del lavoro coerente con le necessità di una società inclusiva, sostenibile nel tempo e orientato a divenire asse portante di un nuovo welfare. Lo sforzo dell’azienda deve trovare un riscontro nelle politiche pubbliche e un sostegno nel sistema sociale ed economico. Ma questo ancora richiede un cambiamento culturale profondo che deve partire prima di tutto dalla società civile.
Bibliografia
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