Donne e lavoro: nulla di nuovo sul fronte occidentale, verrebbe da dire ricorrendo al titolo di un noto romanzo. La questione – portata alla ribalta quaranta anni fa da Rosabeth Moss Kanter – è ancora di grande attualità, come dimostrano indagini e studi fatti. Cosa di nuovo possiamo aggiungere al molto già scritto? Qualche spunto interessante ci viene da una ricerca recentissimamente pubblicata che si interroga sulla possibile efficacia dei programmi di Gender Diversity Management
Introduzione
Quando il volume di Rosabeth Moss Kanter intitolato Men and Women of the Corporation fu pubblicato – era il 1977 – solo il 2% dei managers che guadagnavano oltre 25.000 dollari all’anno era donna: il dato veniva richiamato da Sheila Puffer in un articolo del 2004 in cui la studiosa sottolineava la novità rappresentata dal libro in questione, non solo nell’ambito accademico (che da quel momento vedrà fiorire ricerche ed analisi sul destino lavorativo della cd. “altra metà del cielo”), ma anche per la pratica manageriale (nella quale si diffonderà un crescente interesse per il cd. Diversity management, nel cui ambito il tema gender troverà opportuna collocazione e dove ancora oggi occupa una posizione di rilievo, solido tra i più solidi evergreen del variegato mondo della diversità), e ne veniva ribadita al tempo stesso l’attualità, a quasi trent’anni dalla sua comparsa.
A partire dagli anni ’90 la componente femminile che arriva alle posizioni apicali è sì cresciuta, i tempi sono cambiati – ed anche i numeri in qualche misura lo sono – ma i percorsi femminili di sviluppo professionale restano costellati di difficoltà, tanto che il lavoro di Moss Kanter permane saldamente tra i riferimenti più gettonati per inquadrare la questione “donne e lavoro”.
In questa prospettiva, si colloca un interessante articolo apparso recentissimamente sul Journal Group & Organization Management a firma di Olsen, Parsons, Martins and Ivanaj del 2016. Gli autori presentano e discutono uno studio sperimentale sulle possibili ragioni dell’efficacia dei programmi di gender diversity management (GDM) – quei programmi volti a favorire l’inclusione e la progressione di carriera per le donne – condotto con riferimento al contesto statunitense ed a quello francese. Lo studio – e per questo ha attratto il nostro interesse e vorremo qui discuterlo – nasce proprio con l’intento di sensibilizzare i managers a considerare maggiormente l’aspetto legato alla comunicazione come elemento fortemente condizionante l’attrattività (e quindi l’efficacia) di questo tipo di programmi nei confronti della popolazione femminile.
L’approccio che usano nell’indagine, le osservazioni che propongono nel corso della presentazione del loro lavoro ci forniscono spunto per qualche riflessione non del tutto scontata su un tema, quello della presenza femminile nei diversi ranghi del management, che resta un argomento delicato, spesso ammantato di retorica, sovente fonte di controverse letture e di altrettanto discusse indicazioni mirate a ridimensionare l’entità di quello che sembra comunque essere un problema oggettivo, documentato dai dati che periodicamente vengono forniti. In questo senso, il collegamento ad alcune riflessioni del classico libro di Moss Kanter, che abbiamo ricordato, sembra assai appropriato, in particolare a quelle che si riferiscono al “tokenismo”, quel fenomeno che si manifesta in presenza di forti squilibri anche numerici tra le componenti per cui i pochi rappresentanti di una minoranza divengono quasi dei simboli verso cui adottare concessioni formali che danno una parvenza di equanimità, senza intaccare in modo effettivo la situazione.
Ma andiamo con ordine. Proviamo a chiarire la questione ed a sintetizzare i passaggi fondamentali della ricerca per ragionare poi sulle implicazioni che possiamo trarne per quanto riguarda la prassi manageriale.
I programmi di GDM fanno bene alle donne? Fra “merito” e “stigmatizzazione”
La ricerca si concentra sui cd. programmi di GDM, vale a dire su quelle iniziative che le imprese mettono a punto per creare condizioni favorevoli alle donne nei luoghi di lavoro. Come i classici studi di Cox e Blake (1991) e di Ely e Thomas (2001) suggeriscono – molte sono le ragioni che li motivano: solitamente tali azioni rappresentano la risposta ad obblighi normativi; talvolta nascono per soddisfare dichiarati obiettivi interni di giustizia ed equità; raramente sono motivati da esigenze del business. È chiaro che i moventi non sono neutri rispetto al loro reale ed efficace sviluppo e che influenzano l’ “immagine” che l’impresa che li adotta dà di sè.
La domanda, quindi, su quanto questi programmi rendano attrattiva, agli occhi femminili, l’azienda che li propone è interessante ed ha avuto nel tempo risposte contrastanti: alle ricerche che hanno documentato reazioni positive da parte della componente femminile, derivanti dal fatto che sono le donne le destinatarie delle azioni stesse, se ne affiancano altre che giungono a risultati di segno opposto. Sembra quindi che l’attrattività organizzativa non dipenda tanto dal contenuto del programma in quanto tale, ma piuttosto da come le donne percepiscono i segnali inviati dalle imprese rispetto alla diversità e a quella di genere in particolare.
Qualche precisazione merita la questione dei “segnali”.
Quanto sia rilevante il peso della comunicazione e dei suoi contenuti era già stato messo a fuoco dalla signaling theory proposta da Spence nel 1973, a cui i nostri autori ricorrono per motivare la loro prospettiva di indagine. La teoria in questione si fonda sulla credibilità delle informazioni che un soggetto, un’organizzazione veicola su di sé e sulle condizioni che facilitano all’interlocutore il ritenerle vere. Nell’applicazione al mercato del lavoro, ambito su cui lo studio di Spence si concentra, il lavoratore potenziale invia segnali al possibile datore di lavoro sul livello delle sue capacità lavorative procurandosi così delle “credenziali”. Il tutto si regge sul delicato gioco tra quanto un soggetto comunica in maniera attendibile e quello che l’altro soggetto ritiene valga il contenuto di quella comunicazione.
Questa prospettiva, declinata al contesto della ricerca di Olsen e colleghi (2016), implica che le imprese debbano imparare a governare i segnali che inviano, non essendo scontata la positività dell’effetto prodotto nel rendere maggiormente attrattiva un’impresa nei confronti delle potenziali lavoratrici.
Cosa influenzi l’interpretazione di quegli stessi segnali è questione tutt’altro che irrilevante. Approfondimenti sono stati condotti sul versante delle persone destinatarie della comunicazione e sulle loro caratteristiche; ma resta aperta l’ipotesi che ci siano altri fattori.
La verifica empirica proposta dallo studio si focalizza su due paesi, Francia e Stati Uniti, che sono molto simili dal punto di vista culturale (come già messo in luce dal progetto GLOBE (2004), ma rispetto ai quali si osservano profonde differenze proprio in alcuni aspetti connessi al nostro tema.
Su quali ipotesi si fonda la ricerca? Sono quattro i punti che gli studiosi si ripromettono di verificare.
Nel primo punto affrontato nello studio gli autori sostengono che i programmi di GDM rendano le imprese più attrattive agli occhi delle donne statunitensi rispetto a quanto lo siano per quelle francesi. Che cosa c’è dietro a questa ipotesi? C’è innanzitutto l’idea che, come sostengono alcuni studi sulle pratiche di gestione delle risorse umane, sia ragionevole ritenere che anche per i temi del DM l’ambiente istituzionale nazionale svolga un ruolo rilevante nel formare le percezioni e attitudini dei lavoratori. Nel contesto francese la tutela della donna lavoratrice è ritenuta appannaggio dello Stato, che si occupa di regolamentare congedi parentali e l’assistenza all’infanzia: per questo, i lavoratori francesi guardano con scetticismo ai programmi di welfare – a cui si associano quelli di GDM – impostati dalle impese. Gli Stati Uniti sono invece il paese delle pari opportunità sul posto di lavoro: definite a livello normativo, hanno poi una declinazione in azienda. Queste differenze di contesto possono influire sull’interpretazione dei segnali emanati dai programmi di GDM da parte delle lavoratrici; per cui è ragionevole attendersi che in Francia i programmi di GDM non vengano visti come un vero e sostanziale beneficio organizzativo per le donne, a differenza di quello che accade negli USA.
Questa prima ipotesi sottende comunque un gradimento da parte delle lavoratrici rispetto a tali iniziative. In realtà, il fatto che i programmi di GDM portino ad un riscontro positivo da parte delle donne, poiché ne sono le dirette beneficiarie, non è un passaggio scontato. Gli autori segnalano quanto infatti possa essere complessa l’interpretazione dei segnali emanati dai programmi stessi. Non a caso, la letteratura sostiene che le donne interpretano i segnali di GDM in modo diverso a seconda delle loro credenze e attitudini. Precedenti studi hanno dimostrato che le donne oggetto di progetti rientranti nel GDM si sentono spesso “stigmatizzate”, scelte non per le loro competenze, ma perché appartenenti ad un gruppo “protetto” e tendono a ritenere il ruolo che vanno ad occupare a seguito di un programma di GDM meno importante di quelli occupati dalle colleghe selezionate unicamente per merito. Ci sono anche evidenze del fatto che questa situazione induca le donne ad assumersi meno responsabilità ed a sottovalutare il proprio contributo.
Su queste convinzioni incide l’attitudine delle donne alle Affirmative Actions (AA) (quegli strumenti che intendono rendere possibili le pari opportunità per le persone che sono in qualche misura svantaggiate) che tende a favorire la loro reazione ai programmi di GDM – e questa varia da paese a paese. In specifico, gli autori affermano che un contesto istituzionale maggiormente focalizzato sulle pari opportunità – come quello statunitense dove da decenni la regolamentazione pone forte enfasi su queste tematiche – favorisca una attitudine positiva rispetto alle AA delle donne influenzandone quindi le rispettive reazioni ai programmi di GDM. Al contrario, in una situazione dove minore è l’enfasi su tali tematiche, oltretutto ritenute di appannaggio esclusivo della sfera statale – come nel caso della Francia – le reazioni rispetto ai programmi di GDM delle organizzazioni, seppure essi possano raccogliere il consenso positivo delle lavoratrici maggiormente propense a interventi di AA, vengano smorzate dal generale scetticismo sottostante. Dunque, la seconda ipotesi si impernia sul fatto che l’attitudine positiva verso le AA da parte delle donne sarà associata con un più forte effetto positivo dei programmi di GDM sulla percezione organizzativa negli US, mentre in Francia le propensioni individuali rispetto alle AA non avranno alcun impatto.
Gli autori, nella loro terza ipotesi, sottolineano poi come l’attuazione di programmi estensivi di GDM possa avere risvolti positivi sulla percezione individuale circa le possibilità di avanzamento e carriera, conseguentemente favorendo l’attrattività organizzativa. In altri termini, essi ritengono che gli effetti dei programmi di GDM sull’attrattiva organizzativa siano almeno in parte spiegati dalla percezione su quanto i programmi di GDM influenzeranno le loro stesse opportunità di salire lungo la scala gerarchica, percezione che è – alla luce di quanto prima detto – di diversa entità nei due paesi considerati.
In particolare, l’attesa è che in contesti nazionali in cui le pari opportunità di occupazione delle donne hanno giocato un ruolo più importante nella disciplina del lavoro – come negli Stati Uniti – le opportunità di carriera pesino maggiormente nelle valutazioni delle donne circa l’attrattività organizzativa. Tuttavia, in un contesto legislativo in cui si siano privilegiati aspetti legati alla maternità e alla cura della prole rispetto alla parità delle opportunità lavorative, come in quello francese, le donne adotteranno diversi criteri nella valutazione dei programmi di GDM. Tanto che, sostengono gli autori, l’attenzione ridotta della legislazione rispetto alla promozione delle pari opportunità può portare le donne ad essere meno inclini a considerare il potenziale per l’avanzamento di carriera come aspetto di rilievo nelle loro valutazioni sui segnali provenienti da parte dei programmi di GDM e sull’immagine dell’organizzazione più in generale.
In sintesi, gli autori ritengono che gli sforzi profusi in programmi di GDM da parte delle imprese portino le medesime ad inviare “segnali” ai potenziali dipendenti. Questi segnali vengono percepiti e interpretati considerando l’effetto che tali interventi possono avere sulla sfera personale delle lavoratrici e, in particolare, su ciò che essi “suggeriscono” circa le potenzialità di carriera all’interno dell’organizzazione e l’attrattiva organizzativa. Inoltre, l’interpretazione e la valutazione dei segnali provenienti dai programmi di GDM viene influenzato dal contesto nazionale e dall’atteggiamento individuale nei confronti delle azioni positive (a sua volta condizionato dallo scenario).
Servono davvero i programmi di GDM?
Lo scopo primario della ricerca era quello di studiare se i programmi di GDM portino ad un riscontro positivo da parte delle donne in quanto beneficiarie di quelle stesse iniziative e quindi di approfondire quanto l’attrattività delle imprese che li adottano ne risulti rafforzata. Inoltre, lo studio analizza se ci siano elementi – di contesto o soggettivi – che hanno rilievo nell’interpretazione dei “segnali” che i programmi inviano.
La ricerca offre supporto all’idea che in questa percezione giochi un ruolo rilevante il contesto istituzionale, anche se non in maniera così marcata come gli autori si aspettavano. L’atteggiamento personale nei confronti delle azioni positive pare essere decisamente più rilevante. Gli autori ritengono che ci sia un rapporto diretto tra il favore soggettivo nei confronti delle pari opportunità ed i programmi di GDM che offrono benefici alla componente femminile, in linea con quanto evidenziato da precedenti ricerche. Questo implica che donne che considerano le possibilità offerte dalle azioni mirate come meri “privilegi” riterranno questi programmi e le aziende che li propongono molto meno attrattive di quanto le considereranno le loro colleghe che al contrario apprezzano gli spazi offerti.
Alcuni passaggi interessanti, tratti dalle interviste fatte e riportati nel testo, ci aiutano a capire meglio. “La frase GDM significa per me gestire il rapporto tra uomini e donne ..significa che si fanno sforzi per fare in modo che un’impresa sia composta da un appropriato numero di donne e uomini”. Quando i segnali relativi ai programmi GDM sono interpretati enfatizzando la rappresentanza numerica, l’attitudine verso le pari opportunità influenza maggiormente il pensiero delle donne in merito: c’è quindi un evidente peso del contesto normativo nel modo attraverso il quale le donne interpretano i segnali. Quanto meno il contesto riesce a garantire un equilibrio nella composizione, tanto più le differenze di genere sono percepite e richiedono diversi stili di management e diverse pratiche di management. “Il GDM aiuta a capire che la diversità fa bene all’impresa. Le differenze tra uomini e donne hanno effetti positivi sul business e questo giustifica i programmi di GDM”.
Gli autori avevano ipotizzato che il contesto nazionale giocasse un ruolo sostanziale nello spiegare la relazione fra le occasioni per la crescita professionale ed il grado di attrattività percepito nei confronti delle imprese, con maggiore enfasi per le donne americane rispetto a quelle francesi. In realtà, dall’indagine emerge che incidono maggiormente le attitudini e le credenze personali rispetto ai fattori di contesto normativo e istituzionale.
Entrambi i fattori, tuttavia, contribuiscono congiuntamente a rafforzare, o a smorzare, gli effetti dei segnali. Anche la percezione relativa alle opportunità di avanzamento di carriera risulta essere un elemento che incide nel rapporto tra i segnali inviati dai programmi di GDM e la percezione dell’attrattività organizzativa.
In buona sostanza, per la realtà statunitense le differenze di reazione a programmi apparentemente destinati a favorire le donne dipendono da come le AA sono considerate nel sentire femminile: le donne con atteggiamenti più positivi rispetto all’impostazione che privilegia la necessità di intervento per compensare uno stato di svantaggio sono più attratte da organizzazioni che inviano segnali di programmi proattivi di GDM, rispetto alle donne che hanno atteggiamenti negativi rispetto alle stesse azioni. Tale relazione risulta invertita per segnali di GDM percepiti come meno proattivi.
Inoltre, dai risultati emerge che gli atteggiamenti rispetto a AA e i segnali di GDM non hanno evidenziato una interazione significativa per le donne in Francia. Allora i programmi di GDM servono? La ricerca sposta l’attenzione sulla necessità che la risposta a questa domanda sia declinata nelle diverse realtà; ma soprattutto sensibilizza sulla rilevanza del processo di comunicazione che accompagna i programmi e sulla sua complessità derivante dalla moltitudine delle variabili in gioco.
Quali implicazioni ne possiamo trarre?
Cosa suggerisce ai manager questo tipo di ricerca? Alcune indicazioni su cui riflettere. Vediamo di richiamarle brevemente.
Innanzitutto, che le imprese traggano beneficio dal tenere in considerazione sia le caratteristiche del contesto istituzionale che quelle di tipo individuale, che possono motivare le diverse interpretazioni dei segnali prodotti dalle azioni di GDM, sembra affermazione così ovvia da non doversi neppure rimarcare. Eppure, una ragione della possibile diffidenza verso questi programmi è identificabile nel fatto che molte organizzazioni hanno pensato di poter trasferire “pari pari” le pratiche di DM dal paese in cui sono nate agli altri in cui operano.
In altri termini, occorre che nelle direzioni del personale si ponderi adeguatamente prima di esportare programmi che sono stati pensati e sperimentati negli Stati Uniti: lo stile statunitense tende infatti a configurarsi come il modello per eccellenza, con la conseguenza che ci si attende che questi programmi producano gli stessi effetti positivi che la loro adozione ha generato sul territorio statunitense. Anche sui temi del diversity appare quanto mai opportuno il richiamo alla customizzazione delle pratiche di gestione delle risorse umane che molti studiosi raccomandano (si veda per tutti Gerhart, 2009).
In seconda battuta, rilevare che i programmi di GDM sono percepiti positivamente dalle donne che hanno un atteggiamento positivo verso le pari opportunità significa rimarcare che le scelte di politica aziendale respirano profondamente dell’aria nella quale sono immerse. E che occorre avere ben chiaro che i segnali emessi dalla cultura nazionale, i suoi valori e le sue credenze modellano il modo di pensare delle persone.
L’apprezzamento è però anche connesso alla specificità del contesto aziendale: torna alla ribalta il fenomeno del tokenismo, che la Kanter (1977) aveva individuato come uno dei nodi cruciali nelle situazioni in cui esiste una forte disparità numerica nella quale le concessioni formali a chi è in minoranza prevalgono sulle equità effettiva. I segnali emessi devono avere la forza di comunicare una reale possibilità di crescita professionale, senza richiedere uno sforzo aggiuntivo da parte della componente femminile nel dimostrare le proprie capacità e competenze. Questo si collega alla questione del merito: l’esplicito riferimento a questo criterio di avanzamento professionale è da un lato necessario per quelle donne che non avrebbero, per parte loro, un atteggiamento positivo verso le pari opportunità, percepite come concessioni di favore; ma lo diventa anche per quelle lavoratrici che pur manifestando una preferenza per la possibilità di affermarsi in forza del merito, ritengono che lo svantaggio sia oggettivo e che debba essere compensato da iniziate quale i programmi di GDM. In altri termini, i segnali emessi devono fare i conti con la percezione delle donne, la loro cultura e il loro orientamento e vanno quindi declinati secondo logiche di segmentazione che distinguano all’interno dell’universo femminile i diversi gradi di interesse.
Laddove il contesto giuridico è più focalizzato su temi del supporto alla famiglia ed ai figli (e meno sulle pari opportunità), l’enfasi sull’importanza della famiglia può essere un modo efficace per fare appello ai talenti femminili che desiderano modalità più efficaci di conciliazione. Come è stato osservato (per esempio nel lavoro di Ollier-Malaterre, 2009), sono già in atto programmi per la famiglia e per il congedo di maternità, dal canto loro le devono garantire maggiore attenzione a modalità di lavoro flessibile per attrarre e trattenere i talenti femminili. Le imprese interessate a valorizzare capacità e competenze – creando condizioni di pari opportunità – vanno oltre ciò che sono tenute a fare per legge: chiarire questo fatto potrebbe servire a sgomberare il campo dal timore che prevalgano cinismo e sospetto verso questi programmi, formalmente molto appealing ma nei fatti meno efficaci di quanto sperato.
Infine, è di tutta evidenza (e sono gli autori stessi a sottolinearlo) che occorre approfondire ulteriormente il tema, considerando altri aspetti che possono incidere nella dinamica dell’attrattività organizzativa e dell’efficacia dei programmi: vengono citati nell’articolo come futuri oggetti di indagine il clima organizzativo e la percezione di giustizia organizzativa, così come il grado di fit tra persona e organizzazione. Viene da ultimo anche richiamato il possibile effetto deterrente che i programmi di GDM produrrebbero nei confronti degli uomini, che – come è emerso in alcune indagini – mostrano di sentirsi danneggiati. Aspetto, quest’ultimo, assolutamente “non politically correct”, ma forse da non sottovalutare. Che si aprano spazi per un GDM al contrario?
Bibliografia
Gerhart, B. (2009). Does national culture constrain organizational culture and human resource strategy? The role of individual level mechanism and implications for employee selection. In J.J. Martocchio and H. Liao (eds). Research in personnel and human resource management (1-48). Bradford, Uk: Emerald.
Kanter, R.M. (1977). Men and Women of the corporation. New York, NY: Basic Books.
Ollier-Malaterre, A.(2009). Organizational work-life initiatives: context matter. France compared to UK and the US. Community, Work and Family, 12, 159-178.
Olsen, J.E., Parsons, C.K., Martins, L.L., Ivanaj, V. (2016). Gender Diversity Programs, perceived potential for advancement and organizational attractiveness: an empirical examination of women in the United States and France. Group & Organization Management, 4(3), 271-309..
Puffer, S.M. (2004). Changing organizational structures: an interview with Rosabeth Moss Kanter. Academy of Management Executive, 18(2), 96-105.
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