I numerosi contributi scritti in tema di smart working hanno posto nuovamente al centro del dibattito il tema della leadership come guida per il cambiamento. Con particolare riguardo al ruolo che essa svolge nella creazione di un ecosistema organizzativo che favorisca il pieno sviluppo dello smart working in azienda, il presente lavoro ne ripercorre le caratteristiche peculiari e le leve di azione manageriale.
Introduzione
Le dinamiche socioeconomiche e tecnologiche degli ultimi venti anni hanno spinto le imprese verso profondi processi di cambiamento. In molti casi, le organizzazioni hanno dovuto trasformare, reinventare, non soltanto gran parte degli asset tangibili e dei processi, ma anche la propria cultura aziendale e i valori su cui si fonda. Contestualmente, manager ed imprenditori hanno iniziato a porre grande attenzione ai temi del lavoro agile, del miglioramento delle performance e della flessibilità operativa, spaziale, temporale. La richiesta di nuove conoscenze, abilità e competenze è progressivamente divenuta un tema centrale, così come i nuovi modelli organizzativi e le nuove modalità di prestazione del lavoro. In quest’ambito si inserisce il tema dello smart working in azienda.
L’ultima fotografia che ci restituisce l’Osservatorio del Politecnico di Milano riflette una realtà nazionale ancora fortemente polarizzata. Il divario più forte resta quello tra grandi imprese e PMI. Secondo i dati della School of Management, infatti, le grandi imprese che fino allo scorso anno hanno applicato in maniera strutturata forme di lavoro agile sono 58 su 100. Il dato sui progetti strutturati del 2019 scende drasticamente nel caso delle PMI, con il 51% delle aziende che si dichiaravano totalmente disinteressate all’attivazione di iniziative di smart working. È innegabile, tuttavia, che una crescita del 20% rispetto all’anno precedente resta un segnale positivo.
A questo scenario bisognerà aggiungere gli effetti di una pandemia globale – quelli prodotti dal Covid-19 – che ha forzatamente costretto gran parte delle organizzazioni a sperimentare modelli di home working o di remote working, seppur chiaramente emergenziali ed immaturi. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, infatti, il Governo italiano ha identificato nel lavoro da remoto, una tra le principali misure per prevenire e contrastare la diffusione del virus. Tale provvedimento è stato favorito da una temporanea semplificazione amministrativa e gestionale, a partire dal venir meno dell’obbligo di stipula dell’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore, previsto dalla disciplina ordinaria. Se è vero che l’Inapp attualmente conta circa 4 milioni di lavoratori che hanno iniziato a lavorare da remoto, nella gran parte dei casi si tratta di azioni straordinarie, non accompagnate da adeguati interventi sul capitale umano ed organizzativo. Con riguardo al nostro Paese, infatti, tra le cause di ritardo nell’adozione dello smart working è sicuramente possibile annoverare il bisogno di supportare le iniziative aziendali con necessari interventi sulle infrastrutture, una capillare diffusione della fibra e della banda larga, un potenziamento del Wi-Fi nei luoghi pubblici, nonché misure di semplificazione della normativa sulla sicurezza e forme contrattuali che agevolino e promuovano tali forme di flessibilità. Tuttavia, sotto il profilo organizzativo, ad esse bisogna affiancare la necessità di investire fortemente nella formazione di nuove competenze, di ripensare le strutture organizzative tradizionali e di superare una cultura aziendale ancora restia nel dare sufficiente autonomia e fiducia al lavoratore.
Dunque, l’importanza di affermare nel prossimo futuro modelli organizzativi che privilegino la partecipazione, l’autonomia, la reciprocità, la collaborazione a distanza, il feedback e la fiducia, ha posto nuovamente al centro del dibattito, tanto accademico quanto manageriale, il tema della leadership come guida per il cambiamento (Botteri e Cremonesi, 2016; Riccò e Porta, 2017). In tale scenario, partendo da un’analisi della letteratura esistente in materia, il presente lavoro intende offrire una sintetica rappresentazione del ruolo della leadership nel supportare lo sviluppo dello smart working nelle organizzazioni, con particolare riguardo a tre aspetti: 1) la capacità dei leader di influenzare i comportamenti dei propri collaboratori; 2) il loro contributo alla creazione di un significato condiviso del cambiamento stesso; e 3) la loro capacità di integrare relazioni digitali e di prossimità. Dall’analisi svolta emergono, in definitiva, tre elementi chiave, su cui lo smart leader potrà far leva per contribuire all’effettiva implementazione dello smart working in azienda: 1) flessibilità; 2) coerenza; e 3) integrazione.
Prima di entrare nel merito dello “smart leading”, il paragrafo che segue rappresenta una necessaria premessa per delineare i confini in cui si dispiega lo smart working.
Cos’è (e cosa non è) lo smart working?
Lo smart working si configura, in primo luogo, come un modello di prestazione del lavoro in grado di superare quei vincoli spazio-temporali, tipici dell’organizzazione tradizionale. Tuttavia, come osservato da Teresina Torre (2015), non esiste una definizione univoca di smart working. Sotto il profilo legislativo, esso emerge come una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”[1], secondo cui le attività lavorative possono essere svolte attraverso l’uso di strumenti tecnologici. Se guardiamo allo smart working come concetto organizzativo, esso implica una maggiore autonomia personale e professionale nel definire le modalità di lavoro, che inaugura un diverso patto tra datore di lavoro e collaboratori, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Non solo, tale impianto consentirebbe al lavoratore di agire sullo stesso contenuto del lavoro, attivando e favorendo attitudini quali la flessibilità e la proattività, delineando pratiche di job crafting in grado non solo di impattare positivamente sulla motivazione e sulla soddisfazione del lavoratore, ma anche sulle performance organizzative (de Gennaro et al, 2017; Lazazzara et al., 2015). Il bilanciamento tra interessi “contrapposti” – quelli del datore di lavoro e quelli del lavoratore – trova concretezza nell’accordo tra le parti, mediante il quale viene regolata la possibilità di eseguire la prestazione con forme di organizzazione diversificate: per fasi, cicli, obiettivi, senza vincoli di orario o di luogo predefiniti.
Queste caratteristiche rendono lo smart working un modello agile e dinamico, pensato per migliorare la qualità della vita delle persone e portare benefici economici all’azienda (in questo secondo caso, l’Osservatorio Smart Working registra, per il 2019, un +15% in termini di produttività e un -20% del tasso di assenteismo). Tuttavia, benché sia stato definito a livello normativo ed abbondantemente studiato sotto il profilo accademico, nella pratica aziendale, l’adozione di questa diversa “filosofia d’impresa” stenta ancora a decollare. All’indomani di una pandemia globale, gran parte delle aziende nazionali si sono ritrovate ad essere “smart per necessità”, più che “per scelta” consapevole. Così, nel tentativo di mantenere uno standard minimo di operatività, esse si sono “limitate” a trasferire frazioni di processi nelle abitazioni dei lavoratori.
Nondimeno, smart working non è sinonimo di Telelavoro. Quest’ultimo consiste, infatti, in uno spostamento regolamentato e definito a livello contrattuale, della sede di lavoro del lavoratore, il quale non potrà godere degli stessi livelli di flessibilità, autonomia e responsabilità, tipici dello smart working. Smart working non significa soltanto lavorare da casa con il supporto della tecnologia: è un cambio di paradigma che sottende una revisione del modo di vivere l’organizzazione. Smart working non è una forma di welfare aziendale. Sebbene per welfare aziendale si intenda quell’insieme strutturato di iniziative a supporto del benessere del lavoratore – anche in termini di conciliazione vita-lavoro – lo smart working rappresenta piuttosto un’evoluzione dei tradizionali modelli organizzativi, con comprovati effetti positivi in termini di welfare, ma pur sempre una modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa. Il lavoro potrà in parte essere svolto all’interno dei locali aziendali – con o senza una postazione fissa – in parte all’esterno, con i soli limiti di durata complessiva dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, così come definiti dalla contrattazione collettiva. In tal senso, i tradizionali benefit previsti nei “pacchetti welfare” dovranno essere ridisegnati alla luce delle trasformazioni introdotte da un ricorso più diffuso allo smart working.
In definitiva, come sottolineato da Hartog, Solimene e Tufani (2015), applicare lo smart working significa sostanzialmente intervenire su tre elementi: 1) la struttura organizzativa; 2) il layout degli spazi; e 3) i comportamenti delle persone coinvolte. Tuttavia, la sua implementazione richiede, in primis, un cambiamento culturale, che deve essere accolto trasversalmente all’interno dell’organizzazione.
Sotto il profilo organizzativo, è già noto come le modifiche in termini di variabili “hard” – quelle relative alla riorganizzazione degli spazi fisici e all’utilizzo spinto della tecnologia – risultino in media più facilmente raggiunte rispetto a quelle “soft”, legate, invece, al cambiamento dei comportamenti. Affinché lo smart working possa trovare piena concretezza sarà dunque necessario agevolare tali trasformazioni, attraverso coerenti capacità di gestione e una leadership efficace. A conferma di ciò, un report di ricerca del Chartered Institute of Personnel And Development (CIPD) suggerisce che, quando i cambiamenti organizzativi e tecnologici non sono allineati con opportuni interventi sulla leadership, gli individui difficilmente adotteranno nuovi comportamenti, ma rimarranno ancorati alle vecchie prassi e ai vecchi ruoli organizzativi (Zheltoukhova, 2014). Guidare questi cambiamenti e le risorse umane e organizzative che essi coinvolgono, diventa compito dello “smart leader”. Di qui, l’importanza di comprendere a fondo quali elementi possano essere ricondotti ad una leadership “smart”.
Smart working, smart leading
Ripercorrendo i contributi che hanno trattato il tema, emergono tre aspetti principali rispetto ai quali è possibile definire il ruolo della leadership nel favorire lo sviluppo dello smart working.
In primo luogo, la capacità di gestire il cambiamento dei comportamenti delle persone. In generale, tale capacità è connaturata ad uno stile di leadership flessibile e adattivo, attraverso il quale il leader adatta sé stesso alle peculiarità del singolo collaboratore, del gruppo, dell’organizzazione e dell’ambiente, al fine di influenzarne e di guidarne l’azione. A ben vedere, in letteratura sono stati utilizzati diversi sinonimi per indicare tali caratteristiche: non è raro, infatti, imbattersi in termini come leadership adattabile, agile o versatile (Kaiser et al, 2007; Yulk e Mahsud, 2010). Un proliferare di definizioni che non stupisce, se si considera che la leadership è un concetto fortemente influenzato dai rapidi cambiamenti che condizionano la vita delle organizzazioni. In ogni caso, ciò che qui interessa rilevare è il riferimento frequente alla flessibilità, utilizzata come vero e proprio indicatore della capacità del leader di guidare le persone verso il cambiamento (Yulk e Mahsud, 2010). Tale compito richiede necessariamente una visione di lungo periodo, dal momento che la prima sfida nel favorire lo sviluppo dello smart working è mettere in evidenza le qualità del cambiamento verso cui tendere e guidare il proprio team verso modelli flessibili dove, con un diverso approccio alla gestione di orari e spazi di lavoro e garantendo via via livelli sempre più elevati di autogestione, sia possibile combinare il bilanciamento tra vita privata e lavoro, con un maggior livello di motivazione, soddisfazione e vantaggi in termini di produttività aziendale (Andrade et al., 2019; Hill et al., 2001).
Un secondo aspetto ampiamente dibattuto in letteratura è il contributo che la leadership può dare alla creazione di un significato condiviso di cambiamento. Il che, in tema di smart working, assume un particolare rilievo se si guarda al necessario contemperamento dei diversi interessi in gioco. A tal riguardo, è interessante notare come, seppur non direttamente collegate allo smart working, le prime definizioni che sono state date di “smart leadership”, intendano per tale un modello di leadership autentica, che ha chiaro il proprio set di valori e agisce con profonda responsabilità, al fine di garantire coerenza e allineamento tra interessi personali e organizzativi. Singh (2017), in aggiunta, sottolinea il carattere partecipativo della smart leadership nel creare una visione del cambiamento, comune a tutta l’organizzazione. In tale scenario, interviene utilmente il concetto di leadership trasformazionale – introdotta da Burns nel 1978 e spesso definita anche leadership trasformativa–, la quale prevede che il leader funga da modello per ispirare i propri collaboratori e creare le migliori condizioni affinché essi diano il meglio di sé, facendo in modo che le persone considerino gli interessi di gruppo (e organizzativi) come superiori rispetto a quelli personali, e favorendo il raggiungimento di performance lavorative superiori, mediante la leva della motivazione (Taner e Aysen, 2013). Perché tutto questo sia possibile, è importante che il leader sia in grado di creare un clima di fiducia, in cui la collaborazione sia favorita da: a) una comunicazione trasparente; b) una pianificazione condivisa delle attività e dei risultati attesi (e misurabili); c) l’ascolto attivo, anche in termini di appropriatezza degli strumenti e delle tempistiche di lavoro. La necessità di creare un significato condiviso, dunque, sposta i riflettori sulla centralità della comunicazione e sull’importanza di possedere una “intelligenza sociale” che aiuti i leader a costruire e mantenere relazioni costruttive. Il “contagio” emotivo e comportamentale che si stabilisce tra leader e follower è stato dimostrato avere impatti più che positivi in termini di engagement (Zenger e Folkman, 2016). Da un lato, infatti, bisogna saper comunicare bene con le persone per riuscire nell’intento di condividere con i propri collaboratori cosa fare e perché farlo (Boyatzis e McKee, 2005). Dall’altro, un comprovato livello di coerenza e condivisione di aspettative e risultati, genera una ricaduta positiva sui lavoratori ad ogni livello. Se poste a supporto dello sviluppo dello smart working, tali capacità diventano essenziali tanto con riguardo alle relazioni face to face, quanto per quelle da remoto.
L’integrazione tra digitale e reale, tra distanza e prossimità, rappresenta, quindi, il terzo tratto distintivo di una leadership in grado di operare efficacemente nei contesti in cui viene implementato lo smart working. L’instaurarsi di una leadership condivisa, secondo cui i collaboratori assumono essi stessi elevati livelli di responsabilizzazione – coerentemente con le proprie aree di competenza – impone il mantenimento di un flusso costante di comunicazione con questi ultimi, mediante l’uso di tool tecnologici (Ruggeri e Ballor, 2020; Zigurs, 2003). Tuttavia, coerentemente con la definizione di smart working, la tecnologia è una variabile indispensabile, ma non esaustiva (Visentini e Cazzarolli, 2019). Per tale ragione, lo smart leading deve inevitabilmente integrare la dimensione virtuale con quella face-to-face delle relazioni, dove la virtualità si trova su un continuum di soluzioni flessibili di interazione (Kirkman et al., 2004). Ciò significa, riuscire ad integrare la dimensione umana ed emozionale tipica del rapporto di prossimità, con le dinamiche tipiche delle reti di relazioni a distanza. Saper ascoltare e parlare attraverso tutti i canali di comunicazione, ivi compresi quelli digitali, rafforza la condivisione di un sentire comune, consolidando l’esercizio della delega, dell’empowerment e la condivisione di responsabilità (Torre, 2020; Visentini e Cazzarolli, 2019). Non solo, a ciò è necessario aggiungere la creazione di contesti digitali etici, in cui i dati siano utilizzati per migliorare i processi e analizzare possibili aree di intervento, evitando forme di controllo diretto sul comportamento dei lavoratori, incoraggiando l’autonomia, la creatività e l’innovazione, nel rispetto dell’etica e del diritto alla disconnessione.
Riflessioni conclusive e implicazioni pratiche
Dall’integrazione dei principali aspetti emersi rispetto all’idea di “smart leading” (SL) con le variabili individuate da Hartog, Solimene e Tufani (2015) per lo sviluppo dello smart working (SW), l’analisi condotta ci consente di isolare tre elementi chiave attorno ai quali è possibile (ed auspicabile) articolare la gestione efficace dello smart working, passando per la leadership. In particolare, flessibilità, coerenza ed integrazione rappresentano le tre leve con cui la leadership può supportare efficacemente l’implementazione dello smart working in azienda. La figura 1 offre una sintesi rappresentativa di quanto discusso.
Con riferimento al primo aspetto, la flessibilità che lo smart working richiede, declinata in termini spaziali, temporali ed operativi, impatta inevitabilmente su strutture organizzative e spazi di lavoro. Essa favorisce il progressivo allentamento delle logiche di supervisione diretta associate alle strutture organizzative più gerarchiche e tradizionali, per lasciare spazio a modelli di gestione basati sul feedback e sulla fiducia. Uscendo dagli spazi canonici aziendali, con il supporto della tecnologia il lavoro arriva a “contaminare” l’ambiente esterno, facendo sfumare l’idea tradizionale di un luogo di lavoro con una postazione fissa per tutti (Hartog et al., 2015). Con un’applicazione estesa della flessibilità, lo smart working induce un certo grado di frammentazione fisica del lavoro, la cui unitarietà, tuttavia, può essere garantita attraverso una linea di forte coerenza nei comportamenti intrapresi, nelle prassi agite e nei risultati ottenuti. È qui che la leadership può giocare un ruolo cruciale per la buona riuscita dello smart working, nella sua corretta accezione. Se da un lato, infatti, la formazione di una leadership adattiva e diffusa che faccia della flessibilità non solo il modo, ma il contenuto del lavoro contribuisce al processo di flessibilizzazione di spazi, strutture e processi, dall’altro, attraverso la capacità di influenzare i comportamenti delle persone, essa è necessaria per ricondurre ad unità quello che la stessa flessibilità, da sola, potrebbe frammentare. Nel definire gli obiettivi, nell’osservare e misurare costantemente i risultati di ogni processo, nella loro ridefinizione e miglioramento in linea con gli obiettivi aziendali, nella comunicazione e nell’ascolto, una leadership “smart” dovrebbe contribuire a ricostruire spazi di lavoro come spazi della mente che diventano terzi ed altri, rispetto a quelli fisici o virtuali. Inoltre, il rinnovato patto tra lavoratore e organizzazione che lo smart working sottende, pone più che mai al centro la relazione collaboratore-leader e la necessità di intervenire (ed investire) su tale relazione. A quella che Neri (2017) definisce una “destrutturazione, spaziale e temporale, del lavoro”, deve accompagnarsi, nel rapporto tra leader e collaboratori, una co-progettazione dei contributi attesi, delle soluzioni organizzative e operative da intraprendere nell’ottica di un miglioramento continuo. Infine, affinché il contributo delle persone torni all’organizzazione, la smart leadership può rappresentare una leva di governance integrata tra tutti gli attori coinvolti nel sistema, le cui principali sfide consisteranno nell’individuare le modalità e i canali migliori per l’interazione, la collaborazione e il trasferimento della conoscenza, nell’integrare attività interdipendenti e, allo stesso tempo, intraprendere le azioni più adeguate a promuovere un clima di fiducia, a favorire l’equità di trattamento ed impedire fenomeni di isolamento sociale. Alla luce di quanto finora esposto, nel passaggio da una logica “command and control” ad un sistema basato sull’“influence and persuasion”, lo smart leader potrebbe collaborare alla definizione stessa di specifiche policy aziendali di supporto (p. es. sul diritto alla disconnessione e sul diritto alla formazione, due aspetti cruciali per l’efficacia dello smart working), avendo cura di mantenere sempre il focus sugli obiettivi e non più sulle singole attività, discostandosi in questo modo dal cosiddetto “micro-management”.
Attivare con successo quanto suggerito contribuirà alla creazione di un ecosistema organizzativo in grado di supportare adeguatamente l’implementazione dello smart working in azienda attraverso una combinazione efficace di interventi sulla gestione delle risorse umane, delle relazioni, dei processi e della conoscenza, in cui la leadership gioca un ruolo centrale.
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[1] Art. 18 della L. 81/2017 “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.