I percorsi imprenditoriali del Terzo Settore in Italia. Opportunità e sfide di un nuovo paradigma organizzativo

La quarta rivoluzione industriale sta aprendo la strada a nuovi percorsi imprenditoriali nell’alveo del Terzo Settore. Sono interessanti da studiare perché adottano un paradigma che modifica profondamente i modelli organizzativi, con l’obiettivo di conciliare due logiche apparentemente in conflitto: la generazione di valore economico e la creazione di valore sociale.

Viviamo un’epoca di forze drammaticamente in conflitto tra loro. Le cose vanno meglio e vanno peggio. Vanno meglio, perché le nuove generazioni di tutto il mondo stanno creando, grazie alla possibilità di un mondo interconnesso, una rete di relazioni mai esistita prima, che crea maggiore consapevolezza come mai prima d’ora e rappresenta una grande speranza per il futuro, per sviluppare pratiche di collaborazione e di apprendimento reciproco, fino a venti anni fa limitate a pochi attori pionieristici. Vanno peggio, perché questa promessa di “dialogo tra civiltà”, così come auspicato da Peter Senge, che dovrebbe abbattere il “muro del suono”, generare interdipendenze familiari, rafforzare una visione moderna del mondo, spesso si trasforma in chiusura, in una visione ottusa di bastare a sé stessi e controllare gli altri attraverso la paura. Dal 2008 circa si assiste al progressivo ridimensionamento della cultura della finanza e al declino di un modello capitalistico diventato mainstream nelle più famose università e business school del mondo. La ricerca delle cause di tale ridimensionamento è spesso attribuibile agli errori di valutazione portati avanti dalla scuola “neoliberista” e dalle relative politiche governative che hanno portato i sistemi economici mondiali in una situazione di crisi che alimenta le diseguaglianze senza ridurre la povertà. A ciò, si aggiunge l’effetto perverso di una totale assenza di controlli preventivi e successivi del funzionamento dei mercati, nonché la sopravvalutazione della capacità dell’essere umano di innovare e consumare senza intaccare le riserve naturali. In questo panorama, tuttavia, sta emergendo una nuova o, se vogliamo, rinnovata realtà. Infatti, mentre gli scenari della seconda e terza rivoluzione industriale sono stati dominati dalla globalizzazione e da un sistema imperante di competizione che riguardava la singola impresa, la attuale quarta rivoluzione industriale, al contrario, ci sta restituendo uno scenario parzialmente diverso, ancora una volta figlio di due logiche contrapposte, ma solo in apparenza inconciliabili: la propensione sempre più spinta all’automazione e all’uso massivo delle tecnologie digitali; e il ritorno alle persone. Al riguardo, da più fronti si fa strada il concetto di Umanesimo Digitale. La quarta rivoluzione industriale, differentemente dalle rivoluzioni passate, sta aprendo la strada a cambiamenti che stanno investendo radicalmente quasi tutti i settori aziendali e a sfide politiche, economiche, organizzative e sociali che possono essere affrontate e gestite se, e solo se, si assume la consapevolezza del ruolo sociale che hanno le organizzazioni moderne, e che oggi, più che in passato, agiscono come attori sociali, driver di inclusione delle persone e dei territori in cui esse nascono e operano. In particolare, i processi che derivano da questo rinnovato ruolo stanno riportando in auge l’importanza della prossimità e delle comunità, concetti di economia civile, che sembravano scomparsi. In questo senso, il destino delle imprese, in termini di successo o fallimento, è legato a quello dei loro territori. Comunità, territori e imprese che insistono su questi sono legate a doppio filo; se non collaborano per uno sviluppo reciproco, falliranno insieme.

Pertanto, si fa strada la proposta di nuove organizzazioni che hanno la forma e la sostanza di “nuovi percorsi” imprenditoriali. Tali percorsi hanno in comune alcuni punti: tra questi spicca la volontà catalizzatrice di rimettere al centro del futuro, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista sociale, i fabbisogni dei territori e delle loro comunità e le relazioni sociali necessarie a decodificare e declinare nuove forme di condivisione e quindi nuovi modelli imprenditoriali. Tali organizzazioni hanno natura complessa, intesa in una prospettiva che privilegia le relazioni tra le unità che compongono una struttura, piuttosto che le componenti in quanto tali, e adottano un nuovo modo di fare impresa, in grado di essere inclusive e competitive allo stesso tempo. È diffuso ormai il concetto di coopetizione, che individua precise scelte strategiche (per ragioni legate all’innovazione, al risparmio dei costi ed economie di scala, soprattutto per le dimensioni organizzative spesso ridotte e per possibili attacchi di altri concorrenti) volte a creare imprese collaborative e multistakeholder, in grado di accogliere molteplici istanze spesso in competizione, ma che hanno anche la capacità e la volontà di condividere intenti, obiettivi, risorse, competenze, al fine di ottenere vantaggi comuni.

Queste organizzazioni, alcune con tratti spiccatamente non profit, altre più for profit, sono accumunate dalla volontà di creare modelli gestionali innovativi, ad hoc per il sociale. Alcune di queste non sono del tutto nuove, già esistevano, ma avevano un’altra “pelle”. Si muovono nell’alveo del Terzo Settore e, cavalcando la Riforma[1], contengono un nuovo paradigma imprenditoriale, che modifica profondamente i modelli di business e il sistema economico alla base, con l’obiettivo di conciliare e bilanciare due logiche apparentemente in conflitto: la generazione di valore economico e la creazione di valore sociale. Secondo i dati dell’Osservatorio del Terzo Settore (Forum Terzo Settore), nel 2020 le organizzazioni del Terzo Settore hanno erogato servizi e attività per un valore complessivo di oltre 16 miliardi di euro, dimostrando la loro capacità di rispondere alle esigenze della comunità, in un momento critico dal punto di vista sociale ed economico come quello del lockdown dovuto alla pandemia, dove molte altre realtà aziendali erano costrette ad abbassare le saracinesche. Inoltre, molte organizzazioni del Terzo Settore hanno saputo sfruttare al meglio le nuove tecnologie, per migliorare la loro efficienza e raggiungere un pubblico sempre più ampio, anche se su questo fronte molta strada c’è ancora da fare, in termini di consapevolezza e investimenti a disposizione. Su questa medesima scia, le Nazioni Unite hanno inserito nell’Agenda 2030 diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile, relativi a specifiche linee programmatiche quali: rigenerazione equa e sostenibile dei territori, mobilità e coesione territoriale, transizione energetica, qualità della vita, economia circolare. Questi obiettivi pongono al centro dell’attenzione l’opportunità e la necessità di dar vita a nuove forme di azioni organizzative, in grado di migliorare la salute, l’istruzione, la crescita culturale e la sostenibilità ambientale, riducendo al contempo le disuguaglianze delle fasce fragili della popolazione e delle generazioni future e sollecitando lo sviluppo economico.

Venturi e Rago (2014) sostengono che le organizzazioni del Terzo Settore fanno del sociale un asset strategico per rigenerare risorse di diversa natura: umane, mediante lo sviluppo di nuova conoscenza e nuove competenze; economiche, attraverso la possibilità di aggregare una molteplicità di tipologie di fonti, in virtù di una natura ibrida; fisiche, legate al processo di trasformazione di spazi in luoghi, dove la relazionalità diventa l’ingrediente fondamentale per la buona riuscita di processi di innovazione in campo sociale.

A testimonianza di tale varietà, negli ultimi anni gli studi organizzativi si sono ampiamente concentrati sul concetto di ibridazione (e.g. Venturi e Zandonai 2014; Battilana e Lee 2014; Haigh et al. 2015; Greenwood e Freeman 2017; Alexius e Furusten, 2020; Cicellin e Scuotto, 2022). Tali studi rimandano organizzazioni che procedono in maniera crescente nella direzione di modelli imprenditoriali in grado di contemperare la missione sociale delle realtà no profit, con la mission economica e le attività commerciali, proprie delle imprese for profit, assumendo la forma di organizzazioni che vengono definite appunto ibride o ibridi organizzativi. Questa spinta nasce dai limiti economici, sociali ed ambientali del modello di sviluppo dominante e che la pandemia da Covid-19 ha amplificato, rendendo ancora più marcate le diseguaglianze in termini di welfare, di servizi pubblici e di opportunità di lavoro tra centro e periferia, tra aree urbane e aree rurali, tra regioni del nord Italia maggiormente sviluppate e regioni del Sud con ritardi di sviluppo diventati, oggi più di ieri, inaccettabili. Già da un decennio, si assiste ad un progressivo indebolimento dei due principali modelli gestionali tradizionali; da un lato quello incentrato sul controllo pubblico, che non è stato e non è sempre in grado di garantire livelli di efficienza in modo sostenibile, e non appare in grado di supportare il progresso tecnologico e di mercato in atto; dall’altro il modello privato, che non è capace di offrire un’alternativa in grado di garantire servizi sociali accessibili a tutti. La rigidità di questi modelli, nel corso degli ultimi anni, è stata analizzata da diversi studiosi, che hanno mostrato il fallimento dello Stato e allo stesso tempo del mercato nella gestione, nel sovvenzionamento e finanziamento della cosiddetta economia sociale (e.g. Cheng e Mohamed, 2010) e nel garantire l’erogazione e la gestione dei servizi a tutti i cittadini.

Due sono gli esempi più calzanti, dal punto di vista di chi scrive, alla base di queste considerazioni. Il primo, riguarda le organizzazioni che operano in ambito socio-sanitario, le quali si trovano ad affrontare il crescente problema di una domanda di salute sempre maggiore in contesti sociali sempre più complessi e fragili (Mintzberg, 2017). Tra le cause più ricorrenti che minano l’accesso tempestivo ed efficace all’assistenza sanitaria, vi sono i lunghi tempi di attesa, propri della sanità pubblica, che spinge i pazienti che non possono permettersi di accedere ai servizi dei privati di non curarsi.

Il dibattito accademico di questi ultimi anni (e.g. Angeli e Jaiswal, 2016; Bhattacharyya et al., 2010; George et al., 2015) ha evidenziato una crescente inadeguatezza dei modelli di assistenza sanitaria tradizionale nel fornire livelli di servizi efficaci, in risposta alla domanda di salute di una fascia crescente di popolazione. Questo è vero in paesi meno sviluppati, in cui le cure mediche sono spesso fuori dalla portata dei pazienti medi, ma sta diventando sempre più vero anche nei paesi sviluppati delle economie occidentali (e.g. Cicellin et al., 2019).

Il secondo esempio riguarda il settore della cultura e in particolare la gestione del patrimonio culturale diffuso in Italia, che, spesso è abbandonato o non adeguatamente curato a causa dell’inadeguatezza dei modelli di gestione tradizionali (Consiglio e Riitano, 2015; Scuotto et al., 2022). Il modello pubblico non è stato in grado di curare un patrimonio culturale così esteso e diffuso e ha sofferto per i tagli inferti al settore; i privati for profit non individuano un proprio tornaconto economico nel prendersi in carico l’aspetto gestionale, soprattutto dei cosiddetti siti minori e, perché inevitabilmente trovano maggiormente redditizio investire sui siti culturali più frequentati dal turismo di massa e sui grandi attrattori del nostro paese. In questo contesto, il mondo associativo e volontaristico è certamente stato ed è in grado di promuovere una sensibilità culturale, prendendo in gestione alcuni di questi siti definiti erroneamente “minori” e portandoli a nuova vita, ma non è sempre in grado (ad eccezione di alcuni rari casi di successo) di risolvere il problema nel lungo periodo, a causa di una assenza di sostenibilità economica e finanziaria.

Denominatore comune a questi due ambiti riportati è quindi la necessità di nuove soluzioni organizzative, di modelli di business alternativi e inclusivi, capaci di rispondere a un bisogno di salute, sociale e di fruizione culturale insoddisfatto, sperimentando pertanto nuove combinazioni di forme imprenditoriali, caratterizzate da elementi di innovazione volti ad ottenere un forte impatto in termini di cambiamento sociale.

Le imprese sociali rappresentano in questo scenario tale via alternativa. Nelle imprese sociali i confini tra le dimensioni profit e no profit, pubblico e privato, rapporti di lavoro dipendente e lavoro volontario appaiono sempre più sfumati, di fronte all’ingresso di attori “ibridi”. Grazie a modelli di business innovativi, il valore viene creato, trattenuto e condiviso attraverso nuove e molteplici modalità di forme di produzione. In particolare, le organizzazioni no profit e in generale i soggetti che operano senza scopo di lucro, per sopravvivere alla Riforma del Terzo Settore in atto, stanno introducendo, in maniera incrementale accanto alle loro attività meramente sociali, una percentuale di beni e servizi da scambiare sul mercato, con un accrescimento della componente produttiva. I modelli organizzativi che stanno adottando gli enti del Terzo Settore sono pertanto ibridi, rappresentano un melting pot innovativo, operando da un lato, a cavallo tra l’azione della sfera pubblica e del no profit, e dall’altro tra l’agire del privato for profit e quello del no profit. Consentono maggiore autonomia a livello sistemico, attraverso la loro duplice azione. Sono interessanti da studiare sia dal punto di vista degli assetti organizzativi che vanno ad assumere, sia per la loro capacità di tessere relazioni e costruire network di collaborazione, funzionali alla loro sopravvivenza e al successo imprenditoriale. Essi offrono un importante contributo sia alla promozione di nuovi modelli di sviluppo locale nella società, sia alla nascita di organizzazioni multistakeholder, capaci di promuovere la trasformazione dei territori, attraverso risposte innovative, partecipate e flessibili. Tuttavia, è importante sottolineare che è riduttivo ricondurre il concetto di ibridazione del Terzo Settore alla sola combinazione dei due obiettivi (sociale ed economico). Bisogna infatti, allontanarsi dalla dicotomia dello Stato committente che incarica il Terzo Settore nell’erogazione esternalizzata di beni e servizi di utilità sociale. Oggi infatti, attraverso diverse fattispecie, sono tutti chiamati a produrre valore condiviso, a determinare nuovi modi di agire, volti a sviluppare soluzioni innovative a bisogni non soddisfatti e creare spazi di innovazione sociale.

L’impresa sociale che rappresenta certamente una lente di osservazione privilegiata per analizzare gli ibridi organizzativi, si trova a vivere il passaggio da operatore sociale a imprenditore nell’ambito del Terzo Settore, producendo così un processo di disintermediazione rispetto allo Stato. L’impresa sociale rappresenta la componente più significativa del progetto di Riforma del Terzo Settore dal quale dipenderà in buona parte l’impatto di quest’ultima, sia presso gli attori che già si identificano nel settore, sia rispetto ad altri attori che per ora si posizionano all’esterno di un perimetro che è diventato anche normativo, ma che rappresenta soprattutto un importante modello culturale e di sviluppo del nostro paese. Da questo punto di vista l’innovazione è un processo ciclico, già vissuto in altri periodi e in altri contesti, per cui anche per queste organizzazioni si tratta di una naturale evoluzione verso nuove forme di governance, dove l’approccio è collaborativo e partecipato.

Alla luce di queste considerazioni, emergono tre principali tendenze, profondamente interdipendenti, che caratterizza il cambiamento del Terzo Settore in Italia e che le organizzazioni del Terzo Settore devono affrontare nell’immediato.

La prima riguarda la crescente professionalizzazione delle organizzazioni del Terzo Settore. Tali organizzazioni stanno diventando sempre più complesse e articolate, con una struttura organizzativa e un sistema di governance che rispondono a criteri di efficienza e di efficacia. Ciò comporta il necessario investimento in formazione dei propri dipendenti e volontari, al fine di garantire un alto livello di competenze e di professionalità nella gestione dei progetti e delle attività. Ciò rappresenta una grande opportunità per il Terzo Settore in Italia, in quanto consente di aumentare la qualità dei servizi offerti e di accrescere la fiducia degli stakeholder. Tuttavia, rappresenta anche una sfida, perché la maggioranza degli enti del Terzo Settore non è in grado di affrontare tali investimenti, a causa delle dimensioni ridotte, dell’attività spesso discontinua e della mancanza di risorse economiche e finanziarie.

La seconda tendenza, legata alla prima, riguarda l’adozione di modelli di finanziamento diversificati e la capacità di accedere alle misure del Pnrr. Le organizzazioni stanno cercando di diversificare già da tempo le proprie fonti di finanziamento, al fine di ridurre la dipendenza dai finanziamenti pubblici e di aumentare l’autonomia e la sostenibilità finanziaria, nonché accedere a risorse che prima erano difficilmente raggiungibili. Tuttavia, anche in questo caso, ci sono delle sfide da affrontare. In primo luogo, i nuovi modelli di finanziamento richiedono competenze e strumenti di comunicazione specifici, al fine di coinvolgere i potenziali finanziatori e far conoscere le proprie attività. Inoltre, è importante che i modelli di finanziamento non compromettano la mission sociale delle organizzazioni, ma siano invece finalizzati a sostenere la creazione di partnership e collaborazioni, consentendo alle organizzazioni di accedere a nuove risorse e competenze. Rispetto alle misure del Pnrr, l’Osservatorio del Terzo Settore dichiara (fonte 2023) che il coinvolgimento delle organizzazioni del settore è ancora ridotto e discontinuo. È necessario da questo punto di vista aiutare gli enti a svolgere attività di advocacy, per cogliere le opportunità di partecipazione al Pnrr e orientarsi tra i provvedimenti governativi. Troppo spesso ancora, il coinvolgimento degli enti all’interno dei bandi è indiretto, cioè demandato alle istituzioni locali, che possono scegliere o meno di avvalersi della collaborazione degli enti attivi sui territori. Ciò rischia di produrre risultati disomogenei tra aree del nord e del Sud Italia, venendo a mancare, al di là della distribuzione delle risorse, la garanzia dell’efficacia delle misure, frutto di una collaborazione tra più attori.

Infine, l’ultima tendenza, strettamente connessa alle prime due, riguarda la sfida della collaborazione e del partenariato. La promozione delle reti è un obiettivo fondamentale nel Terzo Settore. Su questo aspetto è intervenuta anche Fondazione con il Sud che ha stabilito l’erogazione dei fondi solo a partenariati e non a soggetti singoli. Ciò può senza dubbio favorire la cultura di rete, molto spesso infatti i partenariati sono in grado di sopravvivere al progetto che avevano condiviso, avviando ulteriori progettualità che assumono carattere di continuità.

I processi di alleanza consentono di affrontare in modo più efficace le sfide che il Terzo Settore deve affrontare, come la riduzione delle risorse economiche disponibili e la crescente complessità dei bisogni sociali. Inoltre, la collaborazione tra le organizzazioni consente di aumentare l’impatto delle attività, migliorando la qualità dei servizi offerti e garantendo una maggiore copertura territoriale. Anche in questo caso, tuttavia, la collaborazione tra le organizzazioni rappresenta una sfida. Il processo di collaborazione richiede una forte capacità di negoziazione e di gestione delle relazioni tra le organizzazioni coinvolte. Inoltre, è importante che la collaborazione sia finalizzata a un obiettivo comune e non a una mera condivisione di risorse. Infine, la collaborazione può comportare un rischio di perdita di autonomia e di identità delle organizzazioni coinvolte, che possono essere assorbite dalla rete e perdere la propria specificità.

Una logica multi-stakeholdership richiede pertanto sperimentazioni. Le organizzazioni del Terzo Settore considerate singolarmente possono essere, utilizzando una metafora, assimilate ai colori primari, già singolarmente hanno una valenza rilevante, ma combinate insieme possono dar vita ad una gamma di innumerevoli altre tonalità.

Bibliografia

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Venturi, P., & Zandonai, F. (2014). Ibridi organizzativi. L’innovazione sociale generata dal gruppo cooperativo Cgm, Bologna, Il Mulino.


[1] I confini del Terzo Settore sono oggetto di riforma e dibattito da parte di accademici, policy maker e practitioner dal 2017, con il decreto legislativo n. 117 del 3 luglio (e ss.mm.ii.), che provvede al riordino e alla revisione complessiva della disciplina in materia, sia civilistica, sia fiscale, definendo, per la prima volta, il suo perimetro in maniera omogenea e organica, e quello degli enti che ne fanno parte.

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