Il futuro del lavoro si chiama “smart working”? Riflessioni e prospettive

Alla stesura di questo paper hanno contribuito, con la propria esperienza di studio e ricerca, i seguenti professori e ricercatori di Organizzazione Aziendale 

  • Gilda Antonelli, Università degli Studi del Sannio 
  • Rocco Agrifoglio, Università degli Studi di Napoli Parthenope 
  • Rita Bissola, Università Cattolica del Sacro Cuore 
  • Filomena Buonocore, Università degli Studi di Napoli Parthenope 
  • Roberta Cuel, Università di Trento 
  • Ylenia Curzi, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Federica De Molli, Università Cattolica del Sacro Cuore 
  • Stefano Di Lauro, Università degli Studi del Sannio 
  • Francesca Di Virgilio, Università degli Studi del Molise 
  • Tommaso Fabbri, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Giulia Flamini, Università degli Studi di Roma Tor Vergata 
  • Barbara Imperatori, Università Cattolica del Sacro Cuore 
  • Concetta Metallo, Università degli Studi di Napoli Parthenope 
  • Francesca Mochi, Università Cattolica del Sacro Cuore 
  • Fabrizio Montanari, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Massimo Neri, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Rocco Palumbo, Università degli Studi di Roma Tor Vergata 
  • Chiara Paolino, Università Cattolica del Sacro Cuore 
  • Leonardo Pompa, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Aurelio Ravarini, Università Carlo Cattaneo – Liuc 
  • Daria Sarti, Università di Firenze 
  • Anna Chiara Scapolan, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia 
  • Aizhan Tursunbayeva, Università degli Studi di Napoli Parthenope 
  • Luisa Varriale, Università degli Studi di Napoli Parthenope 
  • Maria Zifaro, Università Mercatorum di Roma. 

sotto il coordinamento e la supervisione di Teresina Torre, Università degli Studi di Genova. 

Alla revisione del paper hanno collaborato Paola Adinolfi, Università degli Studi di Salerno, Mariacristina Bonti, Università degli Studi di Pisa, Rossella Cappetta, Università Commerciale Bocconi. 

Per la parte giuridica, Paola Saracini, Università degli Studi del Sannio.

Introduzione 

Gli studiosi di questioni organizzative – da sempre interessati al tema del lavoro, della sua evoluzione e del suo rapporto con la tecnologia – si interrogano da qualche tempo sul significato di una etichetta quale è Smart Working (SW), espressione che indica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa volte ad allentare i vincoli tradizionali di tempo e luogo e indirizzate a logiche di discrezionalità e di responsabilizzazione verso obiettivi lavorativi, in un contesto nel quale le potenzialità della tecnologia svolgono un significativo ruolo abilitante. 

La prassi aziendale – a sua volta alla costante ricerca di soluzioni appropriate ai cambiamenti che le dinamiche di mercato e la competizione richiedono – ha iniziato da poco più di un decennio a sperimentare questa modalità con progetti pilota, che di norma coinvolgevano numeri limitati di lavoratori e che, quando consolidati, continuavano a riguardare una parte esigua della popolazione aziendale per pochi giorni di effettiva utilizzabilità. Sino al 2019, i dati Eurostat indicavano infatti in meno del 4% del totale dei lavoratori dipendenti coloro che in Italia lavoravano da remoto, percentuale inferiore di quasi un punto e mezzo rispetto alla media europea. Valori modesti. 

È a partire dal mese di febbraio del 2020 con l’allarme per la diffusione del Covid-19, che l’attenzione verso lo SW ha assunto un’intensità senza precedenti, tanto che l’ultima settimana di quel mese ha segnato un momento di svolta nella storia dello SW in Italia, inaugurando la fase “massiccia” di questo modo di lavorare. Proposto dai provvedimenti governativi emanati per fronteggiare la situazione (a partire dalle norme previste nella L. 81 del 2017 che aveva introdotto questa modalità nell’ordinamento italiano), quale via privilegiata per consentire alle persone di continuare a lavorare minimizzando al massimo gli spostamenti verso i luoghi di lavoro – lo SW è stato infatti utilizzato da organizzazioni pubbliche e private, alleata una narrazione che prospettava facili e rapide soluzioni e che ne esaltava benefici (oltre quelli apparsi evidenti nella situazione di emergenza) spesso troppo semplicisticamente descritti alla portata di tutti. 

Una instant survey – lanciata da AIDP-Associazione Italiana per la Direzione del Personale negli ultimi giorni di febbraio 2020 con l’obiettivo di “approfondire come le Direzioni del Personale stanno reagendo alla crisi del Coronavirus per diffondere tra la comunità HR le buone pratiche” e alla quale ha risposto un campione di 638 aderenti all’associazione stessa – ha evidenziato che, del 90% delle aziende che dichiaravano di aver adottato misure specifiche , il 70% circa aveva fatto ricorso allo SW, confermando come questa soluzione organizzativa fosse stata considerata la strada migliore per garantire l’operatività di aziende ed organizzazioni di ogni tipo. 

In quel dato sono confluite situazioni ed esperienze molto diverse. Alcune si sono concretizzate in organizzazioni che già avevano avviato sperimentazioni e che hanno quindi allargato la platea dei destinatari ed i tempi di utilizzo (da alcuni gruppi di lavoratori a tutta la popolazione aziendale, da 1-2 giornate a settimana alla copertura di tutto l’impegno lavorativo) senza eccessive difficoltà. Altre sono state sviluppate da aziende technology friendly, già maggiormente allenate al diverso modo di gestire attività e rapporti che lo SW implica. Altre ancora sono state messe in campo in realtà lontane dalla logica sottesa a questa differente modalità, in maniera affrettata ed approssimata. 

Un’indagine riportata su il Sole 24 ore del 10 marzo 2020 suggeriva, ad esempio, che delle coinvolte 1400 imprese con un numero maggiore di 20 dipendenti, circa un terzo avesse manifestato carenze di competenze digitali, di adeguata connettività e di appropriate soluzioni, nonché di procedure e di strumenti che consentissero di gestire il lavoro facendo ricorso a questa modalità. Di queste, una parte aveva necessariamente improvvisato, in assenza di alternative praticabili per proseguire a lavorare: tra uno sforzo enorme dell’IT aziendale, chiamato a supportare la parte tecnologica, ed uno dell’HR, impegnato a garantire la comunicazione interna ed i previsti adempimenti (pur ridotti all’essenziale), poco spazio è stato possibile dedicare a verificare quanto le persone, protagoniste di questo cambiamento, fossero pronte a gestire correttamente questo rapido SW. Non stupisce quindi che in molti di questi casi il risultato sia stato molto più simile a quello ottenuto ricorrendo al vecchio e “brutto” telelavoro e la (comprensibile) diffidenza dei lavoratori che aveva ostacolato la diffusione dello SW (in primis, il timore di esclusione dalla trama relazionale che è il tessuto connettivo di ogni organizzazione) è risultata rinnovata, se non ulteriormente incrementata per le difficoltà sperimentate nel lavorare a casa, nelle condizioni difficili cui la cronaca ha dato ampio spazio.

Lo SW – così come la letteratura internazionale, a partire dal Chartered Institute of Personnel and Development-CIPD che ne aveva descritto la natura oltre un decennio fa, ce lo propone – si segnala come qualcosa di nuovo e di diverso. Complice l’evoluzione del contesto tecnologico ed i suoi più recenti sviluppi sia mobile che wireless, il cui ruolo abilitante è tutt’altro che neutro, questa modalità di erogazione della prestazione lavorativa si connota per un cambiamento profondo (e profondamente assimilato) nella cultura della gestione, che tocca persone, processi e spazi, tutti aspetti che occorre mettere a fuoco.
Lo SW è infatti il frutto di una attenta progettazione organizzativa che combina in maniera coerente le caratteristiche del lavoro con le competenze manageriali. E che prende atto che lo SW può non adattarsi a tutti i tipi di lavoro – ci sono job necessariamente (ancora?) agganciati alle variabili spazio-temporali; ma neppure a tutti i lavoratori – che, per caratteristiche di personalità, per bisogni di socializzazione e di affiliazione, sono più a loro agio in contesti di prossimità fisica; e men che meno a tutte le imprese – per le specificità del business (almeno sino a quando non cambiano le condizioni tecnologiche e di mercato), per cultura o perché si continua ad utilizzare una strumentazione non adeguata.
Ora che del tema si continua a parlare in una prospettiva di “nuova” normalità, è sicuramente utile esaminarlo provando ad accantonare gli atteggiamenti partigiani – quelli dei sostenitori (che lo giudicano sempre e comunque come la via maestra per un lavoro che diventa così “migliore”, più conciliabile e vivibile) e quelli dei suoi critici (che guardano con uno scetticismo di fondo ad ogni iniziativa che viene collocata sotto questo cappello, sottolineando il rischio di una vita lavorativa senza confini, a stress crescente). E partire dall’idea che lo SW costituisca la via verso il futuro del lavoro, che il “nuovo” normale non potrà non fare i conti con esso. Ed allora diventa strategico capire bene di cosa si tratta, per poterlo maneggiare meglio.
L’intento di questo paper è quello di offrire un contributo al consolidamento di una riflessione su cosa lo SW sia e possa essere, quali sfide ponga sia sul versante individuale che su quello organizzativo e quali opportunità possa offrire una sua precisa comprensione. E per sottolineare per quali ragioni a questo tema occorra guardare con attenzione, consapevoli che dietro l’etichetta (questa o altra che si preferisca,) c’è la questione del lavoro, come dimensione della persona, e lo spazio ed il ruolo che questo assume nella vita.
Inoltre, alla luce della “Relazione del gruppo di studio sul lavoro agile”, resa pubblica nei primi giorni dello scorso febbraio e che ben approfondisce le molte questioni giuridiche, la prospettiva tipicamente organizzativa usata in questa sede appare utilmente complementare.

La struttura del paper prevede quattro parti. Una prima offre spunti di inquadramento del tema. Le tre successive si concentrano sui passaggi che vanno affrontati sulla strada dell’utilizzo dello SW: questo va infatti progettato, per poi essere gestito, ma va anche vissuto (in prima persona, da chi lo pratica e da chi con gli smart workers si interfaccia). Completano il paper alcune considerazioni di sintesi, che si pongono sul piano delle policy e delle indicazioni su cui riflettere perché lo SW – ormai riconosciuta ineludibile traiettoria per il lavoro oggi, perché questo ci pare di poter affermare – diventi un’opportunità, per organizzazioni, persone e contesto, così che questa triplice sfida diventi realtà.

Il lavoro è completato da due allegati. Un primo propone una sintesi dei contenuti dei principali studi realizzati sul tema, che molto offrono alla sua comprensione. Il secondo raccoglie le ricerche svolte negli anni da chi ha partecipato alla stesura di questo paper e che costituiscono la base del ragionamento proposto.

LO SMART WORKING: PRIMO INQUADRAMENTO

1.1 Premessa

Nella letteratura organizzativa non esiste una definizione univocamente riconosciuta di SW. Spesso, questa espressione viene affiancata, integrata o associata ad altre che indicano modalità di lavoro innovative in senso ampio – quali, ad esempio, lavoro agile, telelavoro, home working, lavoro ubiquo (Butera, 2020), ibrido (Kearney, 2021) – rendendo così la questione definitoria ancora più complessa.

C’è però convergenza nel sottolineare che la capacità competitiva delle organizzazioni debba passare attraverso la rivisitazione dei modelli di organizzazione del lavoro per favorire maggiore coinvolgimento su obiettivi e scopi e quindi maggiore responsabilizzazione sul lavoro. Questo tende ad accompagnarsi a più ampie possibilità di scelta di spazi, orari e strumenti di lavoro, anche in forza dall’evoluzione della tecnologia (in particolare mobile e wireless, ma anche fissa) nelle sue varie componenti e diramazioni (fibra, larghezza di banda, capacità dei server e dei dispositivi, cloud computing, intelligenza artificiale, IoT e smart factory), che incrementa l’interazione fra persone e sistemi di machine learning per la raccolta, la gestione e l’organizzazione di dati, informazioni e decisioni e che richiede l’acquisizione di nuove competenze legate alla gestione della conoscenza, all’autonomia, al multitasking, al lavoro di squadra virtuale e non routinario (Bednar e Welch, 2019; Gangai, 2018; Richter et alii, 2018).

La progettazione e l’implementazione di forme diverse di organizzazione del lavoro richiedono di focalizzarsi sulle due dimensioni, ovvero quella tecnica (tecnologie, strumenti e know-how) e quella sociale (persone, gruppi, strutture), che sono strettamente interdipendenti e complementari tra loro (Bednar e Welch, 2020; Cuel et al., 2021). Queste costituiscono il fondamento della prospettiva teorica che meglio interpreta lo SW, quella socio-tecnica, alla cui base si pone l’assunto che il cambiamento richiede una prospettiva progettuale che tenga sì conto dell’utilizzo della tecnologia nella riorganizzazione, ma che sia centrata sull’uomo, in quanto i sistemi di lavoro richiedono la partecipazione di uno o più lavoratori che interagiscono tra loro e/o utilizzano strumenti per l’informazione e la comunicazione.

Partendo da queste considerazioni, lo SW viene definito dal Chartered Institute of Personnel and Development-CIPD (2008)come un nuovo approccio all’organizzazione del lavoro che concilia efficacia ed efficienza nel raggiungimento degli obiettivi attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia (ma più correttamente ci si dovrebbe riferire al concetto di discrezionalità, che meglio definisce il perimetro della libertà di azione in un contesto organizzativo) e collaborazione, possibile tramite l’ottimizzazione degli strumenti e dell’ambiente di lavoro. Dietro questa definizione si cela l’idea che di per sé lo SW produca risultati positivi. Questi sono invece il possibile (certamente auspicato) frutto di scelte organizzative su tutto il contesto in cui il lavoro si colloca, scelte di cui il presente paper si occupa proprio nella prospettiva di poterlo qualificare non solo come un lavoro senza vincoli di luogo, tempo e prossimità a capi e colleghi ma come un lavoro “migliore”

Nel seguito si procederà a sintetizzare le caratteristiche delle principali espressioni utilizzate in letteratura, nelle norme e nell’esperienza, per poi focalizzare gli aspetti qualificanti dello SW. Verrà quindi proposto un sintetico inquadramento del piano normativo che concerne lo SW in Italia, con attenzione alle peculiarità del settore privato e di quello pubblico. Un ultimo cenno viene dato al tema della sostenibilità, cui lo SW contribuisce significativamente.

1.2 Tante “etichette” per un fenomeno in divenire

Le diverse espressioni, oggi con eccessiva scioltezza utilizzate nel lessico manageriale e nelle pratiche organizzative come se si trattasse di sinonimi, sono invece studiate e proposte dalla letteratura in maniera differenziata, nel tentativo di chiarirne le differenze e di contestualizzarne le caratteristiche (Cuel et al., 2020; Grant, 2020; Torre e Sarti, 2019; Yu et al., 2019; Bednar e Welch, 2019; Rymkevich, 2018; Sullivan, 2003).

Di seguito si propone, in estrema sintesi, una distinzione concettuale e un’evoluzione storica dei principali concetti, con l’obiettivo di chiarire cosa sia l’oggetto del presente paper.

Le prime etichette che storicamente si affermano sono quelli di ‘telecommuting’ (tele-pendolarismo) e di ‘telework’ (telelavoro). Si tratta di due modalità organizzative del lavoro a distanza sviluppatesi negli anni Settanta (Nilles et al., 1976), entrambe fondate sull’alterazione del tradizionale rapporto lavoratore-luogo di lavoro: non è la persona che va in ufficio, ma l’ufficio che va dalla persona, venendosi a sostituire gli spostamenti per lavoro con le tecnologie. Il telecommuting si riferisce al semplice cambiamento del luogo dove si svolge l’attività lavorativa, ma mantiene del tutto inalterato il “come” si svolge il lavoro; il telework implica anche il mutamento delle modalità operative di esecuzione dell’attività, che diventano via via più interattive attraverso l’impiego di strumenti informatici sempre più innovativi (Nilles, 1998).

Nell’iniziale letteratura sul tema vengono evidenziate diverse tipologie (e.g., Olson, 1982; Kraut, 1989; Venkatesh e Vitalari, 1992; Kurland e Bailey, 1999; Neri, 2017): lavoro a domicilio (home-based telecommuting); lavoro svolto in appositi centri attrezzati mono-impresa oppure condivisi da più aziende (satellite offices oppure neighborthood work-centers); e lavoro mobile in cui non sussiste una sede d’ufficio fissa (mobile working).

L’espressione lavoro flessibile declina all’ambito lavoro il concetto di flessibilità (capacità di adattamento sollecito ad eventi esterni) e come tale assume una portata ampia. Viene inglobata in tutte quelle forme contrattuali atipiche fortemente eterogenee che si diffondono a partire dagli anni Novanta e che riguardano la dimensione temporale (orari di entrata e/o di uscita variabili, settimane compresse, orari stagionali lavoro part-time, a tempo determinato) piuttosto che spaziale (recuperando telelavoro) o di tipologia contrattuale (lavoratori interinali, lavoro a progetto o altra forma contrattuale) (Feldman and Doerpinghaus, 1995), oramai entrate nel normale modo di considerare il lavoro.

Il lavoro agile si riferisce a un insieme di pratiche che consentono alle organizzazioni di ottimizzare il lavoro enfatizzando la proattività del lavoratore, riducendo gli sprechi, garantendo una maggiore prontezza nella gestione delle attività e nel coordinamento con gli altri. Diffusosi intorno al 2010, il lavoro agile incorpora dimensioni di flessibilità di tempo e luogo (anche se può essere svolto anche all’interno del luogo di lavoro), ma implica soprattutto svolgere il lavoro in modo innovativo concentrandosi sulle prestazioni e sui risultati in chiave trasformativa. Secondo il CIPD, l’agile working, infatti, è basato sulla flessibilità di ruolo e di reperimento delle risorse (CIPD, 2014). Questi ultimi due aspetti non erano presenti nella già citata descrizione dello SW proposta sempre dal CIPD (2008), che si focalizza su flessibilità, autonomia (meglio, discrezionalità) e collaborazione come condizioni per ottenere migliori risultati, utilizzando al meglio le tecnologie in un contesto lavorativo reso più adeguato.

1.3 Peculiarità dello Smart Working e dello Smart Worker

Moduli (2013), analizzando la letteratura scientifica pubblicata tra il 1972 e il 2000, ha definito l’agilità della forza lavoro come “forza lavoro competente e flessibile, in grado di adattarsi rapidamente e facilmente alle nuove opportunità e alle circostanze di mercato”.
In questa prospettiva, lo SW può essere visto come un’evoluzione dei tradizionali modelli organizzativi (Iannotta e Meret, 2020). Esso delinea un modello dinamico, in cui l’organizzazione stessa deve dimostrarsi “smart” nell’identificare pratiche strategiche e organizzative, policy, strutture, processi, metodologie e strumenti innovativi (Viceconte, 2020; Dossena e Mochi, 2020). La flessibilità spaziale e temporale, supportata da strumenti tecnologici, permette di disporre di condizioni ottimali per svolgere i propri compiti (Kim e Oh, 2015) e richiede un ripensamento di spazi e modi di relazione.

Il concetto di SW evoca anche la sfida principale da affrontare, il cambiamento che interessa non solo gli aspetti tecnologici e processuali, ma soprattutto la cultura stessa dell’organizzazione, guidata da una leadership efficace, che possa portare a prestazione elevate, ad un aumento della produttività e a una maggiore soddisfazione sul lavoro (Iannotta e Meret, 2020; Cuel et al. 2020).

Lo smart worker è identificato come quell’individuo che lavora con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione che influenzano non soltanto i processi decisionali, ma anche il contenuto del task di lavoro (Moore, 2020) e che rappresenta la componente umana all’interno del modello Industry 4.0 (Meindl et al., 2021).

Il lavoratore deve quindi sviluppare nuove competenze ed affinare quelle su cui da tempo ci si sofferma; in particolare sono centrali le skills comportamentali: ad esempio, il time management, la capacità di collaborare efficacemente in team virtuali, l’autodisciplina, la proattività, il multitasking e l’adattabilità (Bednar e Welch, 2019;Dossena e Mochi, 2020; Gangai, 2018), la flessibilità, l’attitudine positiva allo sviluppo, la velocità, la capacità di reperire informazioni (Richter et al., 2018). Per poter intrecciare rapporti positivi con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione proprie dell’Industry 4.0, lo smart worker deve possedere o acquisire specifiche conoscenze (Park e Han, 2019), relative non soltanto alle mere raccolta, gestione, elaborazione e distribuzione di dati e informazioni, ma anche capacità comunicative e sociali tali da renderlo un soggetto attivo delle comunità virtuali d’impresa. Lo smart worker, infatti, deve poter interagire facilmente con altri membri dell’organizzazione anche geograficamente lontani, riducendo al minimo qualsiasi vincolo di natura temporale e fisica (Bolisani et al., 2020). Inoltre, dal momento che lo smart worker può trovarsi ad affrontare problemi legati all’isolamento sociale e spaziale e a una cultura del lavoro orientata ad una reperibilità costante, è necessario che acquisisca una capacità di gestire consapevolmente e ragionevolmente gli impegni lavorativi, evitando un’intensificazione dei propri sforzi (Taskin e Devos, 2005). Tale responsabilità individuale consente allo smart worker di attribuire significatività alle nuove modalità lavorative e di sviluppare nuove traiettorie di bilanciamento vita e lavoro, con azioni proattive finalizzate a conciliare gli impegni lavorativi e le preoccupazioni legate a interessi privati (Doria, 2021).

1.4 Il quadro giuridico italiano

Il tema dello SW secondo l’accezione sinora utilizzata è presente in un quadro normativo alquanto articolato, con origini temporali prevalentemente recenti che hanno visto susseguirsi regolamentazioni specifiche riferite, in particolare, al telelavoro e al lavoro agile. Di seguito si fornisce un’analisi sintetica dei principali riferimenti normativi in materia, inerenti sia il settore privato che quello pubblico.
Riguardo al telelavoro non si rinviene una disciplina organica; tuttavia, qualche spunto interessante può ricavarsi dalle seguenti disposizioni: – Legge n. 191/1998 (art. 4): prevede che le pubbliche amministrazioni (PP.AA.) possano avvalersi di forme di lavoro a distanza su base volontaria al fine di “razionalizzare l’organizzazione del lavoro e di realizzare economie di gestione attraverso l’impiego flessibile delle risorse umane” e rinvia la disciplina di dettaglio a un apposito Regolamento e alla contrattazione collettiva. – D.P.R. n. 70/1999 (Regolamento recante disciplina del telelavoro nelle pubbliche amministrazioni, a norma dell’art. 4, Legge n. 191/1998): fissa le concrete modalità attuative del telelavoro nelle PP.AA., definendolo “come una prestazione di lavoro eseguita dal dipendente di una delle PP.AA. (ora D.LGS. 165/2001), in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, dove la prestazione sia tecnicamente possibile, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione cui la prestazione stessa inerisce”. In tale norma si sottolinea l’importanza della valutazione ex-ante dell’amministrazione, in quanto, “la prestazione di telelavoro può effettuarsi nel domicilio del dipendente a condizione che sia ivi disponibile un ambiente di lavoro di cui l’amministrazione abbia preventivamente verificato la conformità alle norme generali di prevenzione e sicurezza delle utenze domestiche”;
L. 183/2011 (Art. 22, co. 5): indica il telelavoro quale utile strumento per consentire una migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;
D.lgs. 80/2015, là dove prevede che: “datori di lavoro che facciano ricorso all’istituto del telelavoro per motivi legati all’esigenza di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro in forza di accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul

piano nazionale, possono escludere i lavoratori ammessi al telelavoro dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti”. 

– Legge n. 124/2015: promuove la disciplina del telelavoro nel lavoro pubblico. L’art. 14 (“Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”) prevede “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” e invita, nel rispetto delle risorse di bilancio disponibili e senza alcun ulteriore e maggiore gravoso onere per la finanza pubblica, ad adottare misure organizzative nell’ottica di attuare e sperimentare, anche a maggior tutela delle cure parentali, il telelavoro concepito come nuove modalità spazio-temporale di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, stabilisce che le PP.AA. debbano adottare, entro i tre anni successivi, misure tali da consentire di avvalersi delle nuove modalità di telelavoro ad almeno il 10% dei propri dipendenti che ne avanzano richiesta; 

– la stessa legge promuove anche l’implementazione di attività di lavoro in modalità agile. 

– L. n. 81/2017 (artt. 18-24) (“Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”): nel ribadire che il lavoro agile ha “lo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 18, co. 1)1, consente e regolamenta l’esecuzione della prestazione al di fuori dei luoghi di lavoro sulla base di un accordo scritto fra dipendente e datore di lavoro e definisce il lavoro agile quale “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”( art. 18, c. 1); la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva (art. 18, c. 2). All’accordo tra le parti è demandata la regolamentazione di importanti aspetti concernenti le garanzie per i lavoratori e l’esercizio dei poteri del datore di lavoro con riferimento alla prestazione svolta all’esterno dei luoghi di lavoro. Sul piano delle garanzie del lavoratore, il legislatore prevede comunque alcune regole specifiche che riguardano essenzialmente la protezione della salute e del rischio di commistione tra tempi di vita e di lavoro, obblighi inerenti alla sicurezza sul luogo di lavoro adattato alle peculiarità del lavoro agile, parità di trattamento economico e normativo. La normativa citata prevede esplicitamente la sua applicabilità, in quanto compatibile, anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA. (art. 18, c. 3). 

In tema di lavoro agile, è necessario rammentare, oltre all’appena richiamata L. 124/2015 (art. 14): 

– il DPCM n. 3/2017 (c.d. Direttiva Madia) (“Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri recante indirizzi per l’attuazione dei commi 1 e 2 dell’art. 14 della Legge n. 124/2015 e linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, favorire il benessere organizzativo e assicurare l’esercizio dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici”): affronta esplicitamente il tema del lavoro agile con cui si intende promuovere l’adozione di nuove misure organizzative che consentano ai dipendenti pubblici di avvalersi dei più agili strumenti per lo svolgimento in remoto della prestazione lavorativa e, al contempo, senza penalizzazioni per professionalità e carriera. La Direttiva Madia per favorire il lavoro agile conferma che le attività lavorative devono essere organizzate non sulla base della presenza fisica, ma sulla prestazione effettiva dei dipendenti, individuando obiettivi specifici, misurabili, compatibili e coerenti con il contesto organizzativo, dando priorità ai lavoratori/lavoratrici in situazioni di disagio personale, sociale o familiare o con impegni nel volontariato; 

Rispetto a questa disciplina “fisiologica”, a causa della necessità di prevenire il contagio da virus Covid-19, il lavoro agile è stato sensibilmente promosso nel privato e nel pubblico. Più specificamente, oltre a imporre alle PP.AA. l’adozione di certe percentuali (variate nel tempo) di lavoratori in modalità agile, è stata eliminata la necessità della pattuizione individuale sulle modalità di esecuzione delle prestazioni.

Se nel settore privato sono numerosi i contratti collettivi che promuovono e regolamentano il lavoro agile, il confronto con le Parti Sociali promosso dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha condotto al “Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile” del 7 dicembre 2021 conferma la direzione di marcia.

Per il lavoro nelle PP.AA. si segnala il Decreto del Ministro Brunetta dell’8 ottobre 2021 che ha individuato le misure organizzative da adottare per il ritorno allo svolgimento delle attività lavorative nelle sedi di servizio. Nel decreto, si prevede una serie di condizionalità per le amministrazioni che intendano fare ricorso nelle more della regolamentazione contrattuale e della predisposizione dei P.I.A.O. (art. 6, c. 2, lett. c, D.L. 9 giugno 2021, n. 80 convertito dalla L. 6 agosto 2021, n. 113), ovvero i Piani integrati di attività e organizzazione, da formulare sempre entro il 31 gennaio di ogni anno, come già i Piani organizzativi per il lavoro agile (POLA), che i primi sono destinati a sostituire recependone i contenuti. Le predette condizionalità per il ricorso al lavoro agile attengono, tra l’altro, alla disponibilità di piattaforme digitali o cloud o, comunque, di strumenti tecnologici idonei e alla definizione di piani di smaltimento degli arretrati, nonché all’adozione del principio di rotazione dei lavoratori e alla individuazione dei contenuti necessari dell’accordo individuale, come la previsione di specifici obiettivi per la prestazione da rendere in modalità agile.

La volontà di non abbandonare questa forma di lavoro anche nelle PP.AA. si rafforza nella Pre-intesa relativa al contratto collettivo di lavoro del personale comparto Funzioni centrali (2019-2021), siglata il 21 dicembre 2021, che si preoccupa di regolamentare il lavoro agile (artt. 36-40) e le altre forme di lavoro a distanza (telelavoro domiciliare e coworking o lavoro decentrato da centri satellite, art. 40).

È anche da tenere presente quanto stabilito dalla circolare del 5 gennaio 2022, firmata dai Ministri Brunetta e Orlando, diretta a sensibilizzare le PP.AA. e i datori di lavoro privati a usare pienamente tutti gli schemi di lavoro agile già presenti all’interno delle rispettive regolazioni contrattuali e normative. L’ulteriore proroga dello SW semplificato sino al 31 agosto (al 30 giugno quello per lavoratori fragili) e le dichiarazioni che auspicano l’opportunità di rendere strutturale il meccanismo della semplificazione confermano l’intenzione di tener alto l’interesse verso questa forma di erogazione della prestazione lavorativa.

Da questo breve excursus normativo, si possono sintetizzare i seguenti punti:

  • le norme in materia di SW raccolgono trend in atto e ne tentano una sistematizzazione;
  • queste hanno gettato le basi affinché le PP.AA. e le imprese italiane fossero spinte ad adottare modelli di lavoro smart, confermando la complessità con cui occorre fare i conti, che richiede un intervento di natura organizzativa significativo (una maggiore autonomia personale e professionale e un diverso patto tra datore di lavoro e collaboratori basato prevalentemente sulla fiducia e sullo svolgimento dei compiti misurati non esclusivamente in termini di tempo impiegato ma in modo prevalente in termini di risultato di cui essere responsabili (Madini, 2018);
  • le previsioni normative legate all’emergenza sanitaria da pandemia da Covid-19 hanno agito da acceleratore per la promozione e diffusione dello SW nei contesti lavorativi pubblici e privati, trasformando la necessità in opportunità (Langè e Gastaldi, 2020);

1.5 Smart working e sostenibilità

Come viene da più parti sottolineato, lo SW contribuisce in maniera rilevante alla sostenibilità in tutte le sue dimensioni, aspetto che lo rende ancora più interessante. Con riferimento alla sostenibilità ambientale, il primo pensiero va alla diminuzione degli spostamenti per motivi di lavoro, che produce evidenti effetti positivi sull’inquinamento cittadino. Il ricorso allo SW, in quanto modo davvero “intelligente” di organizzare il lavoro, contribuisce anche a ridurre l’impronta ecologica di ciascuno ed a minimizzare il consumo di energia correlato ai flussi

di lavoro e alle transazioni della vita d’ufficio quotidiana. Inoltre, l’ottimizzazione dell’uso dei dispositivi, senza compromettere sicurezza o privacy, fa sì che si riduca la quantità di hardware che dovrà essere dismesso e riciclato negli anni successivi. 

Ugualmente importanti sono le implicazioni sulla sostenibilità economica e su quella sociale. La riduzione degli spostamenti ha effetti anche in termini di diminuzione dei costi connessi che i lavoratori sostengono e di recupero del tempo a disposizione, entrambi nuovamente reinvestibili per le esigenze personali e familiari. Dal lato aziendale, la diminuzione del numero di persone che ogni giorno si presentano in ufficio consente di ottimizzare gli spazi e risparmiare in termini di utilities.

2. PROGETTARE LO SMART WORKING 

2.1 Premessa 

Dalle esperienze di successo sino ad ora condotte da quelle organizzazioni che hanno inteso muoversi verso modalità organizzative volte a conciliare esigenze di competitività nel proprio ambito/mercato e di qualità del lavoro, si evidenziano due punti importanti ed ineludibili quando si affronta la decisione del se ed in che misura implementare lo SW. Da un lato, lo SW non si improvvisa: la decisione richiede un’attività di approfondimento degli obiettivi, di verifica delle condizioni e di progettazione della fattibilità. Dall’altro, questo percorso va contestualizzato nelle specificità proprie di ogni organizzazione. A supporto di questo percorso si propongono i punti seguenti. 

2.2 Il contenuto dello Smart Working 

2.2.1 La ‘telelavorabilità’ e la progettazione del lavoro 

Introdurre pratiche di SW significa porsi preliminarmente la questione della telelavorabilità (TW), cioè “della possibilità di fornire input di lavoro a distanza in un determinato processo economico” (Sostero et al. 2020, p.29). Con tale nozione ci si riferisce prevalentemente alla mansione-attività (più o meno telelavorabile), ma l’analisi può (o forse più opportunamente dovrebbe) riguardare anche il lavoratore (più o meno idoneo ad eseguire le prestazioni richiestegli da remoto). In questo senso, la questione della TW si qualifica come una scelta riguardante al contempo la dimensione sociale e tecnica, cui si è fatto riferimento nel punto 1.1. 

L’approccio prevalentemente seguito (Dingel e Neiman, 2020) propone una classificazione di ‘lavori’ basata su parametri che si presumono ‘oggettivizzabili’ e che possono contribuire a produrre un “teleworkability index” (Arntz et al., 2020), che consenta di ‘pesare’ – in modo percentuale e generalizzabile – la possibilità di un lavoro di essere svolto da remoto. 

Secondo questa impostazione, di ogni lavoro viene valutato il contenuto e le caratteristiche complessive con indagini svolte tramite questionari, usando alcune dimensioni – in primis gli attributi ‘fisici’ che lo caratterizzano, la natura ‘relazionale-sociale’ propria delle modalità di scambio delle informazioni necessarie allo svolgimento, la natura ‘intellettuale-informativa’ (Fernandez-Macias e Bisello, 2020; Sostero et al., 2020). Ciascuna dimensione può essere ulteriormente dettagliata, generando sotto-categorie (Fernàndez-Macias e Bisello, 2020). I physical task sono scomposti secondo il parametro della forza muscolare necessaria all’esecuzione del compito, della destrezza e della navigation, cioè la capacità di orientarsi in spazi che mutano costantemente. I social task trovano differenti gradi di potenziale ‘remotizzazione’, nelle seguenti sotto-categorie: “serving/attending”, “teaching/training/coaching”, “selling/influencing”, “managing/coordinating” e “caring”. Infine, gli intellectual task possono consistere in attività di “information processing” o di “problem solving”. 

La letteratura propone anche impostazioni e studi che si focalizzano sugli attributi dei lavoratori, evidenziando quanto questi possano essere rilevanti per la scelta di affidare modalità di lavoro smart. Si possono considerare le competenze possedute, così come il ciclo di vita e l’orientamento personale verso il lavoro. 

In sintesi, il concetto di TW consente di individuare ‘parametri’ in grado di discriminare a priori, quali lavori (o soggetti) sono più adatti alla remotizzazione, attraverso l’operazionalizzazione di tali parametri favorendo strategie di scelta in qualche modo ‘automatiche’. 

Questo approccio ha il pregio di essere sia coerente con il modo con il quale si affronta – prevalentemente – il tema della progettazione organizzativa, in particolare a livello micro. Inoltre: 

  • consente di inquadrare il problema in termini generali e quantitativi – quindi potenzialmente oggettivizzabili e comparabili, utili anche ad analisi e confronti; ad esempio con riferimento alla dimensione delle aziende (ci sono più teleworkable jobs/occupations nelle grandi organizzazioni che nelle piccole); a livello macro (evidenziando quali settori hanno una percentuale maggiore di lavoratori occupati/occupabili in lavori teleworkable, in quanto 
  • hanno più lavori teleworkable di altri a causa delle dimensioni tecniche di cui sopra, di interazione sociale e/o movimentazione di merci/oggetti) (Gaduena e Alcantara, 2021);. 
  • se si riconosce l’apporto di ‘oggettivabilità’ al processo (in quanto trasparente, verificabile, ecc.), si riducono i margini di discriminazione potenzialmente indotti dalla scelta; 
  • adattando adeguatamente i parametri utilizzati per l’analisi della TW, è possibile allineare tale strategia di scelta agli obiettivi/valori che sono espressione della strategia di gestione delle risorse umane dell’organizzazione in esame. Così, ad esempio, l’utilizzo di parametri di TW il più possibile oggettivi, è coerente con l’adozione di politiche e pratiche di GRU job-based, dalla formazione alla valutazione, anche con finalità retributive, aspetti che vengono ripresi nel punto 3.2. 

L’aspetto più critico di tale orientamento teorico e manageriale riguarda il rischio che dalla necessità di generalizzazione e formalizzazione della procedura consegua un’eccessiva approssimazione, una semplificazione informativa ed una impostazione deterministica che ne limita la potenzialità esplicativa. 

Questo accade anche quando si àncora la valutazione della TW a parametri riferiti agli attributi dei lavoratori: la semplificazione a cui si è comunque costretti facilita solo parzialmente l’adozione di politiche e pratiche di GRU più orientate alle condizioni di contesto e alle esigenze delle persone coinvolte, e, in ultima analisi, l’integrazione tra politiche di GRU, diversity management, work-life balance

A corredo di quanto sopra affermato, si può sostenere che il job design – se sviluppato coerentemente con i principi che ispirano le politiche di SW – possa facilitare una gestione più ‘individualizzata’ oltre che efficiente. Questo può accadere in particolare quando ci si orienta verso un arricchimento in senso verticale delle mansioni, in termini di maggiori poteri decisionali, di regolazione e di controllo delle proprie performance, attingendo alla pratica del crafting e quando, a livello di coordinamento e controllo, ci si focalizza sul raggiungimento dell’obiettivo, anche ‘spingendo’ verso il ricorso prevalente al gruppo (Cappetta, 2020) . 

2.2.2 Le competenze per lo smart working 

Uno studio condotto da Autor, Levy e Murnane (2003) e aggiornato nel 2013 da Autor and Price evidenzia come negli ultimi decenni sia in forte crescita la richiesta di lavoratori preparati a lavorare in contesti non routinari, sia individuali sia in team. Che lo SW – in quanto diverso modo di organizzare il lavoro – richieda un adeguamento delle competenze possedute dal lavoratore, ma anche dal capo, appare quindi affermazione ovvia. Più complesso risulta il tentativo di chiarire a quali competenze occorra riferirsi. La questione è importante, sia in quanto condizione necessaria per la sua praticabilità, sia in quanto – come verrà ripreso nel punto 4.2 – il possesso di queste stesse competenze e la consapevolezza (non automatica e non scontata) di padroneggiarle adeguatamente da parte del lavoratore costituisce elemento fondamentale per il suo benessere. 

Oltre a possedere le competenze tecnico-professionali che gli sono proprie, un lavoratore smart deve padroneggiare al meglio tutte le competenze per la gestione degli apparati digitali, specifiche capacità relazionali e di gestione dell’interazione online e abilità nel lavorare in autonomia. Per quanto concerne la gestione degli apparati digitali, è essenziale saper utilizzare pienamente gli strumenti forniti dall’azienda per la gestione delle procedure e gli applicativi aziendali, con particolare attenzione al tema della sicurezza informatica. È inoltre preziosa la conoscenza delle potenzialità d’uso degli strumenti digitali di collaborazione (come VPN, drive e cartelle e-mail condivise, calendari, strumenti di videoconferenza, ecc.) allo scopo di massimizzare il lavoro collaborativo e l’efficacia delle riunioni online limitandone gli effetti di affaticamento. 

Lo smart worker deve sviluppare competenze che gli consentano di lavorare in autonomia e con gli altri. Tra le prime sono utili quelle tipiche da organizzazione del lavoro, gestione del tempo, ma anche la capacità di risolvere problemi, essere creativi, intuitivi e persuasivi, (Marcolin et al., 2018; Valenduc e Vendramin, 2016); tra le seconde sono strategicamente rilevanti quelle utili a mantenere e gestire le relazioni sociali in un setting di lavoro a distanza, cioè la comunicazione e il coordinamento allo scopo di ridurre il senso di marginalizzazione e di stress dei lavoratori; ancora 

la capacità di abilitare la fiducia tra i colleghi, la motivazione dei lavoratori e il commitment verso obiettivi condivisi, autoindotti o etero-indotti. 

L’appropriatezza delle competenze è tema che coinvolge anche i responsabili di funzione, i middle manager o i leader di progetto. Questi, messi ad operare in un contesto di SW che li coinvolge direttamente in quanto loro stessi sono collocati in luoghi diversi dalla sede e in quanto lo sono i colleghi con cui si interfacciano, devono acquisire conoscenze e capacità operative adeguate alla nuova forma che il loro ruolo assume. Accanto al bagaglio professionale tipico, arricchito di contenuti e di strumenti digitali con i quali familiarizzare, occorre che sviluppino un nuovo approccio alla leadership e un diverso modo di comunicare, su cui – come verrà ripreso nel punto 3.3 – si fonda la possibilità di una gestione efficace. Tutto questo implica da parte dell’organizzazione una mirata attività progettuale volta ad individuare quali specifiche aree di competenza debbano essere colmate e proporre percorsi per adeguarle che siano motivanti così da creare una predisposizione positiva ed accogliente verso il cambiamento. 

2.2.3 Creatività e innovazione 

Alcune caratteristiche dello SW consentono di liberare energia e originalità nelle organizzazioni. Innanzitutto, esso promuove la discrezionalità lavorativa consentendo ai lavoratori di organizzare tempi, luoghi e modalità di lavoro, attivando anche il cosiddetto job crafting (ovvero la possibilità di personalizzare – anche con piccoli aggiustamenti – il proprio lavoro adattandolo a esigenze e interessi personali) e la conseguente motivazione intrinseca (Xu et al., 2019). 

In secondo luogo, lo SW promuovere il flusso creativo consentendo al lavoratore di mantenere la concentrazione e limitando le possibili distrazioni e le interruzioni dovute a disturbi esterni relative ad attività che poco hanno a che fare con il compito creativo e che possono risultare nocive per la creatività se troppo frequenti (Leroy et al., 2021; Mochi e Madjar, 2018). 

Infine, anche la riorganizzazione degli spazi fisici e virtuali che lo SW impone, ove gestita consapevolmente, può trasformarsi in un fattore di rinforzo e di supporto alla creatività. Il design degli ambienti fisici di lavoro può facilitare l’interazione e lo scambio di idee e trasmettere e rinforzare valori quali l’originalità e comportamenti quali la collaborazione (sebbene non esistano soluzioni scontate e univocamente applicabili, per esempio ci sono evidenze che dimostrano che gli open space, forzando le persone a un continuo scambio per tempi prolungati, ostacolino paradossalmente l’interazione tra le persone, la collaborazione, lo scambio di idee e, di conseguenza, anche lo sviluppo di soluzioni creative). Similmente, gli spazi virtuali dedicati allo SW, come ad esempio le piattaforme di condivisione e collaborazione, possono favorire il job crafting e sostenere la creatività individuale e la motivazione intrinseca (per quanto riguarda la progettazione degli spazi si veda il punto 2.4.2). 

Lo SW può però anche ostacolare/limitare i momenti di confronto e di scambio anche informali, riducendo le occasioni di socialità e di incontro e, dunque, inibendo l’attivazione di alcuni processi creativi che, sempre più, richiedono il passaggio continuo da momenti di creatività individuale a momenti collettivi (Bissola et al., 2014), come, per esempio le occasioni in cui tra colleghi si offre e si cerca aiuto o anche i momenti di creazione di senso collettivo che sostengono la performance creativa (Hargadon e Bechky, 2006). 

2.3 La tecnologia come fattore abilitante 

Ogni modalità di lavoro da remoto implica la disponibilità di tecnologie che permettano di disaccoppiare i tempi e i luoghi delle attività del singolo lavoratore da quelli predefiniti e uguali per tutti i lavoratori. Con gli strumenti digitali: 

a) si trasferisce, tra l’organizzazione e il lavoratore, la materia prima intangibile (dati) e il prodotto finito (informazione); 

b) si svolge il lavoro, ossia si elaborano i dati per ottenere informazioni (si trasforma la materia prima in prodotto finito); 

c) si scambiano le indicazioni operative per la realizzazione del lavoro.

Rispetto al passato, è cambiata la natura delle attività in carico alla maggioranza dei lavoratori remoti (non più di trasformazione fisica ma di elaborazione concettuale) e sono radicalmente diversi gli strumenti per svolgere tali attività, caratterizzati da tre proprietà in costante evoluzione: sempre meno costosi, sempre più mobili (per dimensioni, peso e per indipendenza da connessioni fisiche) e sempre più semplici da usare. In sintesi: sempre più accessibili, in senso lato. 

Limitarsi all’evidenza di queste caratteristiche, tuttavia, non consente di comprendere appieno le potenzialità – e i limiti – che questi strumenti mostrano quando sono impiegati a supporto dello SW. Per una descrizione adeguata delle tecnologie digitali, e quindi delle opzioni nella scelta della dotazione da mettere a disposizione, è opportuno fare riferimento a due architetture delle tecnologie digitali: 

1. architettura di rete che riguarda il trasferimento di dati; 

2. architettura del computer che riguarda l’elaborazione dei dati per ottenere informazioni a supporto dei processi decisionali. 

Dal punto di vista dell’architettura del computer, è necessario distinguere tra hardware e software. A livello di hardware, ossia dei dispositivi fisici utilizzabili, si devono considerare: 

▪ la velocità di obsolescenza tecnologica; 

▪ le caratteristiche computazionali dei dispositivi, come la velocità di elaborazione e la capacità di memorizzazione; 

▪ le caratteristiche fisiche, quali le dimensioni, il peso – che rendono gli strumenti digitali collocabili anche in spazi di lavoro molto ristretti, indossabili (si pensi agli smartwatch o agli smart glasses) – la durata delle batterie disponibili in ogni tempo e luogo. 

A livello di software sono da valutare: 

▪ il grado di sofisticazione delle applicazioni basate sull’intelligenza artificiale, che consente di limitare gli sforzi cognitivi del lavoratore, ma al tempo stesso introduce problematiche legate alla presenza di bias incorporati – quindi invisibili – negli algoritmi che sottendono l’elaborazione; 

▪ l’intuitività dell’interfaccia utente è diventata un requisito essenziale per garantire l’utilizzo efficace indipendentemente dal livello di alfabetizzazione digitale degli utenti. La sua rilevanza è dimostrata dalla crescente attenzione per la user experience e dal proliferare di interfacce grafiche, tattili e conversazionali che permettono al lavoratore di estendere le proprie capacità di multitasking

▪ la pre-esistenza di applicazioni che supportano una molteplicità di attività e che hanno comportato investimenti rilevanti (legacy systems) spesso porta a situazioni di lock-in in cui le valutazioni di natura economico-finanziaria prevalgono sulle opportunità/necessità di innovazione tecnologica. È pertanto da valutare l’opportunità di identificare per quali applicazioni esistenti sia necessaria l’integrazione con le nuove applicazioni. 

Dal punto di vista dell’architettura di rete, la possibilità di interagire a distanza dipende dalle caratteristiche della tecnologia messa a disposizione rispettivamente dall’organizzazione (server side) e impiegata dal lavoratore (client side). 

Dal lato del client, un elemento dirimente per la presenza online è la larghezza di banda di connessione a Internet. È da notare, tuttavia, che un lavoratore che possieda un cellulare connesso a una rete 4G riesce agevolmente a utilizzare le applicazioni per la condivisione e collaborazione. Un aspetto sottovalutato, e quindi particolarmente critico, è la disponibilità di tecnologie per la protezione dei dati. Premesso che i rischi legati alla cybersecurity sono prevalentemente da ricondurre a errati comportamenti degli utenti, il lavoratore potrebbe essere dotato di un accesso ai server aziendali attraverso VPN. 

Dal lato server, l’organizzazione si deve dotare di server (on premise o in-the-cloud) che garantiscano un’elevata affidabilità a fronte della richiesta di accesso da parte di tutti i lavoratori remoti (che, peraltro, potrebbero connettersi contemporaneamente con più dispositivi). Questo implica che debba essere opportunamente dimensionata la larghezza di banda da mettere a disposizione per i client e siano messe in atto politiche di disaster recovery dei server.

In secondo luogo, la gestione della sicurezza delle comunicazioni può essere supportata da tecnologie ad hoc, quali l’uso di firewall adeguatamente sofisticati, e l’impiego di applicazioni che impongano l’uso di password complesse per il login

2.4 Il contesto dello Smart Working 

2.4.1 Struttura e processi 

Implementare lo SW richiede un processo di evoluzione e trasformazione che coinvolge l’intera organizzazione. Risulta importante dunque integrare le componenti strutturali e di funzionamento che verranno trattate nel presente paper – quali: i sistemi di leadership, i sistemi tecnologici, sociali, culturali, i diversi sistemi operativi, non ultimi quelli di controllo interno e di performance management – combinandoli fra loro in modo da creare un tutt’uno coerente. 

È pertanto necessario che le stesse organizzazioni si facciano garanti dello SW, identificando e condividendo a livello organizzativo le policy e i confini entro cui lo SW si viene a muovere. L’implementazione di una smart organization quindi presuppone la costruzione/identificazione consapevole e l’aperta condivisione – a livello di pubblici interni ma anche esterni – della politica di ogni organizzazione, che metta in evidenza il set di norme e valori che la guidano e che non possono che influenzare le modalità applicative dello SW

Parlare di organizzazione come contesto di SW significa confrontarsi con strutture che diventano potenzialmente sempre meno gerarchiche e sistemi di coordinamento che devono sempre più basarsi sulla fiducia; fiducia che va ripensata nel nuovo e diverso contesto relazionale. È quindi necessario ricreare le condizioni di sistema sociale che definiscono l’organizzazione stessa e “momenti” di relazione necessari per far maturare lo scambio sociale; si pensi ad esempio all’importanza della socializzazione per i nuovi assunti, al rilievo di momenti di socialità per garantire commitment e identificazione o anche per favorire innovazione e creatività. 

L’incremento della dispersione fisica, temporale e organizzativa che il lavorare in SW comporta possono generare discontinuità ed incertezza nel processo lavorativo (Armstrong e Cole, 1995) rendendo necessarie pratiche di gestione ad hoc e richiedendo il ripensamento ex novo dei processi aziendali partecipati in ottica di miglioramento continuo per conciliare efficienza, produttività, soddisfazione e benessere del lavoratore. 

La digitalizzazione e dematerializzazione indotta dallo SW inducono all’introduzione di nuovi strumenti quali One Time Password (OTP) per l’autenticazione e la firma digitale e la Virtual Desktop Infrastructure (VDI) come nuova postazione di lavoro (come anticipato nel punto 2.2). 

I cambiamenti in atto, tuttavia, non si limitano ad introdurre automazione e digitalizzazione all’interno dei processi ma rappresentano qualcosa di più profondo e complesso. Il vero nodo da risolvere non è tanto quello tecnologico ma di progettazione organizzativa, che sviluppi modelli più flessibili tendendo verso: 

  • un crescente grado di distribuzione orizzontale delle responsabilità a persone e gruppi; 
  • maggiore trasparenza dei flussi informativi a favore anche di una maggior consapevolezza di ruolo; 
  • una maggior focalizzazione sugli obiettivi, riducendo la rigidità strutturale che altrimenti potrebbe inibire i processi decisionali e le richieste di continuo adattamento. 

La transizione verso lo SW può essere quindi implementata attraverso un processo di cambiamento che sia quanto più possibile: 

  • volontaristico e non imposto, 
  • basato sulla fiducia oltre che sul solo controllo, 
  • definito ascoltando, in ottica di miglioramento continuo, le persone protagoniste. 

Un ruolo chiave in questa prospettiva è svolto dai capi intermedi, che sono chiamati ad assumere sempre più un ruolo centrale non solo per il processo di cambiamento in atto ma anche per il coordinamento di una forza lavoro sempre più distante e autonoma.

2.4.2 Spazi e luoghi di lavoro 

Lo SW trasforma il lavoro da “luogo dove si va” a “qualcosa che si fa”. Co-working, near-working, south-working, virtual-working sono solo alcune delle ‘etichette’ che identificano innanzitutto nuovi ambienti di lavoro – fisici e virtuali – ‘fuori’ dai tradizionali confini organizzativi. 

Gli spazi (misurabili e oggettivi) e i luoghi (soggettivi, percepiti e socialmente costruiti) sono una risorsa e la loro trasformazione è uno dei fattori critici di successo delle nuove forme di lavoro, che richiede una regia unitamente a pratiche e competenze specifiche. 

Una efficace organizzazione di spazi e luoghi di lavoro può infatti portare benefici a molti livelli (De Molli, 2020). Le organizzazioni ridurranno gli investimenti legati a grandi sedi e potranno essere più attrattive nel mercato del lavoro globale; i lavoratori potranno scegliere dove lavorare in base alle proprie preferenze; i capi potranno utilizzare una nuova leva manageriale per gestire i propri collaboratori. Una nuova organizzazione dei luoghi di lavoro potrà contribuire perfino a ridisegnare le città e, in generale, il territorio con importanti implicazioni non solo economiche, ma anche sociali e ambientali. Errori nella progettazione possono portare a serie conseguenze tra cui: minore produttività e indebolimento della identità e della cultura per le organizzazioni, costi di isolamento per i lavoratori, minor controllo per i manager, sino alla perdita di attrattività di alcuni territori a vantaggio di altri (l’Italia sarà sempre più in competizione per attrarre e trattenere talenti e competenze). Per tali ragioni, ridisegnare e gestire luoghi e spazi compositi, così che si valorizzi la potenzialità di trasformare non solo le organizzazioni, ma anche la relazione con i lavoratori, le loro competenze e, in ultimo, l’intera geografia dei territori costituisce un elemento fondamentale nel percorso che si sta delineando. Se diminuirà la presenza ‘in ufficio’ sarà necessario trovare soluzioni praticabili che diano valore alla presenza quando opportuna e che consentano di utilizzare sia soluzioni tecnologiche virtuali che spazi fisici anche diversi da quelli tradizionali per costruire un luogo organizzativo composito, sia reale che virtuale. 

La progettazione degli spazi fisici segue la progettazione organizzativa e, al pari di quest’ultima, non può che essere guidata da un principio di contingenza. Non esiste, infatti, una soluzione migliore o preferibile, esistono soluzioni e layout in accordo ai valori e agli orientamenti strategici delle organizzazioni, che rispettino le preferenze e le diversità dei lavoratori e che possano favorire i processi di lavoro secondo la natura delle attività che devono essere svolte, al tipo di interdipendenza che le caratterizza e ai risultati attesi. Servirà riorganizzare gli spazi di lavoro fisici contestualmente ai ruoli organizzativi e osservarne la trasformazione a cura dei lavoratori (non basta progettare, ma serve accompagnare e comprendere l’interazione agita tra tecnologia e comportamenti). 

In questa prospettiva, alcuni principi possono guidare la progettazione dei nuovi ambienti: 

  • approccio socio-tecnico alla progettazione, come già richiamato al punto 1.1. La progettazione deve seguire sia le contingenze tecniche (ovvero la natura e le caratteristiche delle attività e le loro interdipendenze) sia le preferenze e le esigenze sociali dei lavoratori (lavorare fuori dall’organizzazione deve essere una scelta libera e non è scontato che sia quella preferita da tutti); 
  • definizione e condivisione delle norme e delle procedure di utilizzo degli spazi, necessarie poiché la normalità non sarà più quella della presenza con una postazione privata e dedicata, ma della condivisione delle postazioni con sistema web-based di prenotazione; 
  • attrattività degli spazi, come condizione per favorire la presenza, preziosa per tutelare le occasioni anche informali di incontro e scambio alla base della creatività e del senso di appartenenza; questo si collega ai temi del benessere e dell’inclusione, su cui si tornerà al punto 4.2, nonché alla trasmissione e al rinforzo dei valori organizzativi; 
  • diversificazione e versatilità degli spazi, necessarie per attività diverse i cui bisogni sono diversi (alternativamente la concentrazione, il confronto o le riunioni), improntate a facile e veloce riconfigurabilità; 
  • digital workplace, dove le tecnologie digitali favoriscano fruibilità ed efficacia

È esperienza vissuta che i luoghi di lavoro virtuali abbiano assunto crescente importanza. Le piattaforme virtuali, per esempio, sono luoghi in cui i lavoratori (sia interni che esterni all’organizzazione) possono “incontrarsi” per condividere informazioni, esperienze, competenze e partecipare a eventi. Esse stimolano l’incontro, tramite il ricorso all’intelligenza artificiale, tra competenze individuali, profili personali, progetti e gruppi di lavoro e possono favorire lo sviluppo di network professionali anche al di là dei confini dell’organizzazione (Dossena e Mochi, 2020). Ad esempio le enterprise social media permettono ai lavoratori di condividere competenze e abilità e supportano la collaborazione promuovendo la trasparenza di tutte le comunicazioni e il trasferimento di conoscenza strumentale e di meta-conoscenza. Inoltre, recenti start up stanno sviluppando piattaforme di cooperazione in grado di porsi contemporaneamente come strumenti di marketplace, di sviluppo di network, di project management, di knowledge management e di e-learning promuovendo la costituzione di team virtuali, la (ri)progettazione autonoma del lavoro e lasciando ai lavoratori stessi, supportati da algoritmi e dall’’intelligenza artificiale, la facoltà di scegliere le attività e i progetti da intraprendere. 

Le piattaforme digitali presentano alcune criticità. Tra queste il rischio di forme di controllo e coordinamento forzate e un significativo ricorso al multitasking. Questi rischi, se non correttamente gestiti, possono portare a un impoverimento della prestazione lavorativa, a frustrazione e stress. In secondo luogo, la flessibilità può produrre forme di burnout, compromettendo l’equilibrio tra vita privata e lavorativa. Infine, il solo utilizzo di piattaforme di collaborazione – che non prevedano spazi di socialità – virtuali o in presenza – potrebbe ledere le relazioni interpersonali spesso fonti di idee, progetti, innovazione, nonchè occasioni di rinforzo e condivisione della cultura organizzativa, della identità professionale e driver motivazionali (Imperatori e Ruta, 2013; Dossena e Mochi, 2020).

3. GESTIRE LO SMART WORKING 

3.1 Premessa 

Se l’analisi del contesto nel quale inserire modalità di SW e la progettazione del suo utilizzo costituiscono la premessa indispensabile (ed il punto critico sul quale occorre che le organizzazioni lavorino in prospettiva), è la sua gestione nella quotidiana normalità a costituire la “cartina al tornasole” dello SW: il suo successo dipende in gran parte dai connotati di efficacia e di efficienza che la gestione riesce ad assicurare. In questa prospettiva, l’attenzione deve porsi sulle pratiche di gestione e sugli elementi soft che influenzano i rapporti nei contesti lavorativi, in particolare la leadership e la comunicazione. 

3.2 Il ruolo della gestione delle risorse umane per lo Smart Working 

3.2.1 Le pratiche per lo Smart Working 

La flessibilizzazione del lavoro attraverso lo SW ha reso ancora più visibile l’effetto che le pratiche di gestione delle risorse umane possono avere sull’efficacia e l’efficienza del modello, ma anche sull’uguaglianza e la giustizia con cui i dipendenti sono trattati. È chiaro che il diverso modo di lavorare tipico dello SW, necessita di un ripensamento delle pratiche, anche nella prospettiva di correggere trend che paiono poco consoni agli orientamenti di sostenibilità sociale, cui oggi si dà particolare rilievo. 

L’uso più estensivo dello SW ha messo in luce più fortemente rispetto al passato le disuguaglianze legate al tipo di job esercitato dalle persone. Coloro che ricoprono posizioni knowledge-based possono svolgere il lavoro da remoto. Le posizioni operative sono quelle che possono godere meno della flessibilizzazione; questa differenza si acuisce se si pensa a quelle posizioni che le organizzazioni coprono attraverso l’outsourcing e che sono state cancellate o ridotte. 

L’adozione delle pratiche di SW, non sempre ugualmente diffuse lunga tutta la gerarchia organizzativa e le professioni, ha evidenziato ad esempio come alcune pratiche di reclutamento e di definizione della mansione perpetuino degli stereotipi sociali e aumentino la marginalizzazione di gruppi già svantaggiati. Quando si pensa ai job advertisement tradizionali, è possibile riconoscere in essi il profilo di persone che hanno avuto tempo, risorse economiche e capitale sociale per crescere nelle skill di leadership, comunicazione, e networking per esempio. Questa strategia di ricerca esclude chi non ha avuto accesso a queste risorse e all’opportunità di costruzione di queste abilità. Le pratiche di reclutamento e selezione dovrebbero essere analizzate e pianificate cercando di valorizzare anche il potenziale di gruppi marginali. O ancora, quanto si sta cercando di allargare il pool di talenti, si dovrebbe far in modo di includere anche le categorie che la pandemia e la flessibilizzazione del lavoro hanno reso ancor più vulnerabili (Dover et al., 2020). 

Le pratiche di remunerazione, quando diventano eccessivamente legate alla remunerazione economica, a detrimento del total rewarding, possono amplificare le diseguaglianze sopra descritte (Kristal et al., 2020). La remunerazione economica è infatti usualmente legata a posizione gerarchicamente elevate che le pratiche di flessibilizzazione del lavoro sembrano aver reso più spesso ricoperte dalle élite sociali e meno spesso dalle minoranze o dalle categorie più svantaggiate. La progettazione delle pratiche di compensation dovrebbe interrogarsi sul valore delle pratiche di remunerazione non economica, su come queste risorse possano essere distribuite al fine di ristabilire un senso di equità sociale che la precarizzazione delle posizioni fragili sta minacciando (Pitesa e Pillutla, 2019). 

Particolarmente toccato dal cambiamento è l’ambito della formazione; fondamentale la predisposizione e implementazione di percorsi di training su: 

  • programmazione quotidiana, settimanale e mensile delle attività individuali e di gruppo, per essere efficaci; 
  • job crafting, per restare motivati;
  • auto-osservazione (consapevolezza dei livelli di stanchezza psico-fisica e dei propri vissuti emotivi) e capacità di gestione delle interruzioni (Santarpia et al., 2020; Allen et al., 2014), per preservare adeguati livelli di benessere individuale; 
  • family supportive supervisor behaviors (FSSB) per coloro che hanno ruoli di monitoraggio delle performance altrui (De Valdenebro Campo et al., 2021), su cui si tornerà nel punto 4.3. 

Anche i metodi di valutazione dei risultati individuali non possono non tener conto dell’osservazione dei comportamenti che si manifestano nel contesto virtuale e nelle comunità virtuali di afferenza, dove è importante si sviluppino atteggiamenti cooperativi che occorre incentivare. Può quindi essere l’occasione per proporre un modello più inclusivo ed equo, in cui le pratiche di gestione delle risorse umane che promuovono la partecipazione al lavoro delle categorie meno rappresentate e che garantiscono loro l’opportunità di accedere ai benefici delle posizioni gerarchicamente superiori riducano l’impatto negativo dell’adozione dello SW sulle disuguaglianze sociali. 

Infine, le esperienze positive di SW evidenziano l’utilità di pratiche da condividere in una organizzazione con lavoratori smart, di cui il middle management si faccia promotore, quali: 

  • creare una routine quotidiana con un corretto numero di pause dal videoterminale; 
  • gestire uno stato di equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e tempo dedicato alle esigenze personali e affettive come: ○ progettare il lavoro e lo sviluppo di carriera, quando necessario ridurre le distrazioni in casa per favorire la concentrazione durante le ore di lavoro 
    • avere cura di sé: fisica, spirituale, intellettuale, emotiva, salute e benessere; 
    • avere cura delle relazioni: di amicizia, di interesse personale e di famiglia; 
  • organizzare spazio di lavoro fisico e virtuale come: avere una scrivania e una sedia adeguate, riordinare la scrivania, organizzare i contenuti digitali in cartelle sicure, ecc. 
  • evitare di usare gli apparati personali e utilizzare connessioni e strumenti sicuri per lo scambio e la memorizzazione di dati e informazioni aziendali; questo nonostante spesso si citi la tendenza al BYOD – bring your own device – come maggiormente coerente con il nuovo modo di lavorare.

3.3.2 Il performance management 

Nel mondo del lavoro analogico2, il comportamento di lavoro è oggetto di una osservabilità diretta: in un ufficio, il responsabile può verificare con i propri occhi se e come l’impiegato stia rispettando gli standard di prestazione, adempiendo così alla propria obbligazione. In caso di prestazioni intrinsecamente multi-locali come quella di un commesso viaggiatore, il controllo ha potuto realizzarsi, da sempre, da remoto, mediante la traduzione della prestazione in obiettivi (risultati) attesi, e questo controllo remoto è oggi certamente potenziato perché gli strumenti digitali di lavoro3 sono anche (potenzialmente) strumenti di controllo. 

L’impatto più rilevante delle tecnologie digitali sulle dinamiche del controllo datoriale riguarda la loro capacità di rendere multi-locali, e quindi controllabili da remoto, molti lavori che fino a ieri non lo erano: la digitalizzazione di un processo di lavoro comporta infatti la costruzione di un ambiente digitale all’interno del quale vengono svolte le azioni lavorative, e qualora un lavoratore fosse impiegato su “enne” processi di lavoro, tutti digitalizzati e accessibili nella medesima piattaforma di lavoro (digital workplace), allora la sua intera prestazione lavorativa risulterebbe di fatto multi-locale. In quanto tale, essa risulterebbe refrattaria al controllo “diretto”, e invece totalmente esposta al controllo digitale remoto, preterintenzionale, attraverso i metadati prodotti in tempo reale dagli strumenti digitali (e mobili) di lavoro collegati alla piattaforma di lavoro aziendale (work datafication). 

Ecco che le implicazioni della trasformazione digitale del lavoro e dell’organizzazione sulla gestione della prestazione lavorativa si concretizzeranno verosimilmente in due direzioni. Da un lato, potranno riguardare l’articolazione delle prestazioni lavorative in obiettivi e risultati attesi, così da consentire l’esercizio del legittimo controllo datoriale a fronte della sopravvenuta inosservabilità dei comportamenti di lavoro. In tal senso, le organizzazioni pubbliche e private sono chiamate a fare ricorso agli strumenti dell’analisi e della progettazione organizzativa per riconfigurare prestazioni e processi di lavoro in maniera intelligente, tale cioè da finalizzare le potenzialità di comunicazione e coordinamento (Fabbri, 2018) delle più recenti tecnologie digitali al miglioramento del lavoro e dell’organizzazione, e quindi a beneficio congiunto dell’efficacia, dell’efficienza e del benessere delle persone al lavoro. 

Dall’altro, e nella misura in cui le prestazioni lavorative non saranno tutte o interamente traducibili in obiettivi e risultati attesi, potranno riguardare l’utilizzo dei metadati prodotti dagli strumenti di lavoro/controllo, che rendono nuovamente, digitalmente osservabili le prestazioni lavorative remotizzate. Questa seconda direzione, però, presenta ancora aspetti di notevole problematicità, per motivi insieme di (in)opportunità e di (in)fattibilità tecnica. 

L’(in)opportunità riguarda la controversa questione della privacy-in-employment. Lo Statuto dei lavoratori ha a lungo protetto il lavoro analogico dalla sorveglianza audiovisiva in quanto questa poteva tradursi in controlli occulti, pervasivi, continuativi, opprimenti, e in ogni caso lesivi della dignità del lavoratore. La modifica apportata nel 2015 all’art. 4 riconosce, con implicito riferimento ai contesti organizzativi vieppiù digitalizzati, che gli stessi strumenti di lavoro sono strumenti di controllo preterintenzionale – in quanto generatori di dati4 che, opportunamente analizzati, potrebbero concretizzare un controllo ugualmente abnorme e anelastico – e per questo limita l’acquisizione e l’utilizzo dei dati, subordinandolo al rispetto della privacy. Così facendo, qualora lo scudo della privacy sia anteposto a una prestazione di lavoro remotizzata non adeguatamente traducibile in obiettivi e risultati attesi – una prestazione quindi osservabile ormai solo attraverso le tracce digitali che lascia nel suo svolgersi – si potrebbe però finire col rendere la prestazione in oggetto inosservabile (Del Giglio, 2021). E ciò a pregiudizio non solo delle prerogative datoriali al controllo ma anche delle prerogative del lavoratore al riconoscimento della propria performance5 e alla tutela della propria salute e sicurezza: ci sono ormai sufficienti evidenze per dubitare che il diritto alla disconnessione rappresenti la risposta alla intensificazione del lavoro che sembra caratterizzare molti lavori “digitali” (Curzi et al., 2020) e quindi per ipotizzare che nuovi e auspicabili strumenti di protezione dal rischio di stress lavoro-correlato possano più utilmente ricercarsi in nuove metriche del lavoro, legate a sue caratteristiche ulteriori o alternative rispetto alla semplice durata – le otto ore stabilite dalla convenzione numero 1 dell’ILO nel lontano 1919 – e potenzialmente rintracciabili negli exhaust (Bertolotti et al., 2020). 

L’(in)fattibilità tecnica riguarda invece le insufficienti conoscenze sul rapporto tra la sintassi degli ambienti informatici e la semantica delle organizzazioni concrete che li utilizzano: qual è la rappresentazione digitale di un comportamento “significativo” in una specifica organizzazione? Le ricerche in corso attestano che l’osservabilità del lavoro “digitale, per quanto sia potenzialmente totale, pervasiva e continua, non coincide affatto con la sua effettiva “visibilità”. Infatti, i metadati in sé sono muti, e per acquisire lo status di “rappresentazione attendibile” della prestazione lavorativa devono essere raccolti, compresi rispetto ai processi organizzativi sovrastanti, analizzati 

e infine rappresentati; ogni passaggio comporta una manipolazione selettiva, tale da qualificare l’esito finale, la “visibilità” del lavoro digitale e con essa la sua controllabilità, come una costruzione sociale, e più precisamente una socio-material performance (Leonardi e Trem, 2020). 

La letteratura disponibile e l’esperienza accumulata nella fase pandemica suggeriscono che la valorizzazione della performance nell’organizzazione digitale potrà utilmente aggiornarsi sia innovando il disegno organizzativo, fisico e digitale, in chiave smart e agile, sia esplorando le opportunità della work datafication, interessando le parti sociali alla nuova visibilità del lavoro. 

3.3 Cultura e competenze manageriali 

3.3.1 La nuova leadership 

Il fatto che il management maturi atteggiamenti e comportamenti in grado di supportare la gestione della complessità derivante dallo SW rappresenta una delle frontiere di evoluzione necessaria affinché lo SW sia davvero un’opportunità di generazione di valore per l’impresa e per la società. A questo proposito, il rapporto tra gli stili di leadership e la tecnologia appare come un passaggio importante per comprendere come i primi possano evolversi valorizzando la pervasività della tecnologia. 

Secondo il paradigma dell’e-leadership (Avolio et al., 2014; Torre e Sarti, 2020), la tecnologia può diventare una modalità di esercizio dell’influenza da parte del leader, tanto quanto una modalità di esercizio del potere da parte dei collaboratori. 

La tecnologia non è solo strumento attraverso cui organizzare il lavoro da remoto o in modalità duale, ma definisce le possibilità di azione e di non-azione per il leader stesso, costringendone o ampliandone l’operato e la sfera del controllo. Nell’ambiente ibrido definito dallo SW, il leader può certamente organizzare il lavoro dei collaboratori e i processi decisionali, definendo il suo spazio di azione. Per esempio, può decidere di riservare alla virtualità i momenti di scambio di informazioni maggiormente codificate e di utilizzare momenti in presenza per i processi in cui lo scambio deve essere più intenso e ideativo e in cui il processo decisionale è coordinabile solo attraverso il controllo sociale reciproco all’interno del gruppo. La virtualità chiede al leader di incentivare fiducia e commitment, come presupposto per condividere obiettivi. La possibilità di lavorare in remoto può aiutare i membri di un gruppo a organizzare le proprie attività anche in momenti non strettamente lavorativi e controllati dal leader. Questa collaborazione può consentire alla squadra di elaborare proposte e progetti da sottoporre al leader. 

Inoltre, la parte di gestione ‘emotiva’ dei collaboratori assume maggiore complessità. Per quanto la pratica delle riunioni virtuali brevi dove far emergere questi aspetti sia ormai conosciuta, la giornata dello smart worker si articola in una serie di momenti ‘emotivi’ complessi (nel mix tra interazione con colleghi e clienti e con familiari) che rimangono non visibili al supervisor e che rendono appropriato uno stile di leadership attento, che legittimi la richiesta di aiuto, l’ammissione degli errori, la condivisione del proprio percorso di miglioramento, piuttosto che semplicemente la celebrazione di successi e la ripresa degli sbagli (Edmondson e Chamorro-Premuzic, 2020). 

Il cambiamento di cui lo SW è parte sollecita uno stile di leadership che si collega in modo sistemico e ricorsivo a modalità eque ed inclusive di gestire il job design, il reclutamento, il training, la performance, il work life balance e il total reward. È quindi una leadership in grado di navigare attraverso ‘estremi’: il primo è quello controllo-partecipazione. La nuova leadership comprende i limiti del controllo e quando è più appropriato e giusto che i collaboratori agiscano la loro influenza e siano protagonisti della loro partecipazione, promozione ed equilibrio vita privata-lavoro. Sa bilanciare la capacità di visione strategica e l’esigenza di operatività: la virtualità sembra richiedere non solo di formulare una prospettiva futura per il team, ma anche di saper fare le nuove attività e agire le nuove metodologie di lavoro che si richiedono ai propri collaboratori. Al tema del controllo e della partecipazione, così come al tema della gestione emotiva, si collegano gli estremi umiltà-eroismo ed expertise tecnologica-empatia: lo stile di leadership per il nuovo paradigma lavorativo necessita di vicinanza emotiva, di capacità e tempo di comprensione dello stato emotivo altrui, e di trasparenza riguardo alle difficoltà della leadership stessa. In ultima analisi, ricollegandoci al ruolo sociale della funzione HR, l’estremo finale da menzionare per la leadership è quello di saper gestire 

il proprio ruolo politico in un’ottica di promozione della partecipazione di tutti gli stakeholder dell’impresa ai processi decisionali, nei cui confronti continua a dover esercitare un ruolo anche negoziale. Tuttavia, la capacità negoziale deve essere bilanciata dall’integrità e autenticità di coinvolgimento dei clienti, dei dipendenti, delle comunità di riferimento nelle decisioni dell’impresa (Leinwand et al., 2021). 

3.3.2. La comunicazione 

L’ importanza della comunicazione interna all’organizzazione per un corretto funzionamento della stessa, per la buona gestione dei compiti e dei processi, per sviluppare e valorizzare la cultura organizzativa, per condividere informazioni strategiche, per migliorare la collaborazione nei team e tra i gruppi di lavoro è un dato acquisito. È altrettanto acquisito che lo SW (il lavoro da remoto in generale) ha radicalmente modificato la comunicazione, innanzitutto riducendo al minimo tutte quelle occasioni di socialità, di interazione informale e casuale che solitamente favoriscono l’engagement, la condivisione di obiettivi, la gestione delle crisi, la riduzione delle conflittualità e la creatività. 

Nonostante questo, l’attaccamento a dinamiche e modelli di comunicazione tradizionali pare ancora forte. Secondo lo studio di Global State of Internal Communications di Ragan (2020), il 95% delle aziende continua a usare, come canale preferenziale, le e-mail che come noto non favoriscono il feedback e la collaborazione. 

Con l’adozione massiva dello SW sono aumentati gli strumenti e le applicazioni di collaborazione utili per la comunicazione orizzontale, verticale e trasversale, per la gestione dei flussi di lavoro e la condivisione di documenti e file multimediali relativi a progetti e compiti. Basti pensare a strumenti di comunicazione online – quali calendari condivisi, chat e istant messaging e sistemi di videoconferenza – che si affiancano spesso a quelli di collaborazione per il coordinamento organizzativo. Essi sono definiti come Unified Communication and Collaboration (UCC) – di cui sono esempi Microsoft Teams, Slack e Cisco Webex Teams – che offrono il beneficio di connettere tutto il personale attraverso una sola piattaforma, accessibile in modo autonomo, senza vincoli di spazio e di orario. Esse sostituiscono le e-mail con chat individuali o di gruppo sincrone e asincrone, chiamate e videochiamate individuali o di gruppo. Permettono inoltre la pianificazione di riunioni, la condivisione e la gestione di obiettivi e compiti (come ad esempio Trello, Asana, Toggl), la condivisione di file in cloud, la creazione di ambienti collaborativi (come whiteboard o innovation contest) e l’elaborazione condivisa di file. 

Comunicare da remoto non risulta, però, sempre facile e per molti lavoratori non è immediato imparare a condividere con chi sta dall’altra parte dello schermo. Quindi, diventa ancora più indispensabile intervenire per creare condizioni appropriate; ad esempio: 

  • creare opportunità di formazione da remoto più facili e accessibili; 
  • fornire canali e informazioni informali, accanto a messaggi diretti e ufficiali, per favorire il dialogo spontaneo tra le persone; 
  • combattere la sensazione di isolamento, incentivando l’utilizzo delle telecamere e una partecipazione attiva agli ambienti di collaborazione come workshop o conferenze che abbiano l’obiettivo di rafforzare il senso di appartenenza al team; 
  • allineare le aspettative di dipendenti e manager, condividendo informazioni trasparenti su obiettivi e performance approfondendo la differenza di percezione degli indicatori; 
  • comunicare apertamente feedback ai propri colleghi ed essere aperti al confronto; 
  • comprendere il livello di benessere e stress sul lavoro grazie a sondaggi interni; 
  • semplificare le procedure con soluzioni video che costituiscono anche un ottimo strumento per facilitare la comunicazione interna e diffondere un messaggio con maggiore empatia;
  • coinvolgere il team nelle decisioni importanti.

4. VIVERE LO SMART WORKING 

4.1 Premessa 

Il cambiamento che lo SW comporta per il singolo lavoratore nella sua quotidiana normalità ed il segno (positivo/negativo) che lo caratterizza costituiscono sicuramente temi da approfondire per la loro oggettiva rilevanza e per le implicazioni sulla sostenibilità nel tempo dello SW stesso. Allo scopo, rilevano molti aspetti connessi alla prospettiva complessiva del benessere – la cui importanza è oramai un dato acquisito, essendo stata inserita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nella definizione stessa di salute, che trova nelle varie dimensioni del benessere (fisico, mentale e sociale) la sua declinazione. 

La questione necessita quindi di essere discussa. Lo si fa nelle pagine seguenti, esaminando i fattori che incidono sul benessere. Sempre in questa prospettiva viene anche approfondito il ruolo che lo SW può svolger a supporto dell’equilibrio tra vita privata e lavorativa e nell’ambito del cd. diversity management, quell’approccio che si concentra sulle specificità individuali per valorizzane l’apporto creando condizioni appropriate. 

4.2 Benessere al lavoro 

Nel discorso comune e nella pratica manageriale lo SW è generalmente visto come una modalità di (organizzazione del) lavoro capace di generare vantaggi competitivi per le organizzazioni, maggiore produttività e benessere per i lavoratori in quanto frutto delle sue caratteristiche di base – cioè la possibilità per il lavoratore di scegliere dove lavorare e di definire i propri tempi di lavoro, l’adozione di modalità di controllo e coordinamento basate sulla valutazione dei risultati, che quindi permettono di delegare agli interessati anche le decisioni in merito a come svolgere il proprio lavoro, piuttosto che imporre loro la conformità a procedure rigide di esecuzione dei compiti assegnati (Lake, 2015). 

Gli effetti di tali caratteristiche sul benessere tendono in realtà a variare in funzione di alcuni fattori di contesto – individuali e organizzativi – tra i quali sono particolarmente importanti: la natura delle interdipendenze tra compiti e attività; l’intensità/frequenza del lavoro svolto al di fuori dei confini aziendali; il grado di flessibilità spaziale; le competenze effettivamente possedute dai lavoratori. 

Con riferimento alla natura delle interdipendenze tra compiti e attività occorre tener presente che lavorare a distanza riduce la soddisfazione lavorativa e aumenta la percezione di stress quando i soggetti lavorano in team che hanno compiti o processi decisionali in comune da svolgere e di carattere innovativo (Boell et al., 2016) – per esempio, nei processi di sviluppo di nuovi prodotti/servizi i cui requisiti tecnici non sono definibili a priori. Non è infatti sufficiente ricorrere all’esperienza pregressa e a soluzioni già elaborate in passato, ma è necessario combinare problemi e soluzioni in modo originale. Quindi, i risultati da raggiungere e i modi per conseguirli sono definiti durante l’esecuzione del processo attraverso lo scambio continuo di informazioni informali e conoscenze tacite tra i lavoratori appartenenti a diverse funzioni aziendali, i clienti e fornitori. E ciò è favorito dalla prossimità fisica tra gli attori coinvolti. Comunicazioni prevalentemente mediate da dispositivi digitali – maggiormente indirette e formalizzate, meno ricche, personalizzate e fluide – tendono ad ostacolare l’efficacia di questi processi e configurano rischi per il benessere delle persone coinvolte. 

In sostanza, il lavorare a distanza sembra una soluzione adeguata dal punto di vista del benessere dei soggetti coinvolti quando questi svolgono compiti separabili e il loro coordinamento richiede comunicazioni meno frequenti e/o standardizzate. Occorre però considerare la frequenza/intensità del lavoro a distanza – generalmente misurata in termini di giorni/ore alla settimana. Studi in tema (Angelici e Profeta, 2020) suggeriscono che lo SW aumenti contemporaneamente la produttività (misurata sia attraverso le valutazioni espresse dal lavoratore e dal supervisore sia con indicatori oggettivi), la percezione di conciliazione vita-lavoro e di 

benessere quando la possibilità di lavorare a distanza è limitata ad un giorno alla settimana. Oltre i due giorni alla settimana, al contrario, il lavorare a distanza impoverisce la qualità delle relazioni con colleghi e superiori, aumentando la percezione di isolamento (Charalampous et al., 2019) e riduce così gli effetti positivi sulla soddisfazione lavorativa, elemento fondamentale del benessere. Le interazioni mediate dalla tecnologia non sembrano riuscire a compensare la riduzione delle interazioni dirette, formali e informali, il veicolo più importante per lo sviluppo di conoscenze, del senso di appartenenza, di relazioni fiduciarie e di valori condivisi. 

Come già ricordato, la possibilità di definire i propri tempi di lavoro è generalmente considerata una caratteristica chiave dello SW per l’aumento del benessere, in quanto offre l’opportunità di una migliore conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. L’evidenza disponibile mostra in realtà che tali effetti dipendono in maniera significativa dal luogo, in cui viene svolta la prestazione lavorativa (Curzi et al., 2020). Più precisamente, gli smart worker che alternano prestazioni rese in ufficio con lavoro svolto in luoghi diversi dalla propria abitazione godono di discrezionalità nella scelta del ritmo e dell’orario di lavoro; tuttavia, sono anche maggiormente esposti ad alcune condizioni fonte di stress, quali frequenti interruzioni lavorative e la pressione da scadenze ravvicinate. Inoltre, la possibilità di scegliere i propri tempi di lavoro, anziché migliorare, può concorrere a ridurre la percezione di benessere, moltiplicando l’impatto stressogeno delle dimensioni di intensificazione lavorativa appena citate; ciò si verifica pur in presenza di una frequenza del lavoro a distanza tendenzialmente inferiore alla soglia di ‘sicurezza’. Ne deriva che, nella misura in cui la principale causa di stress per questa categoria di lavoratori ‘smart’ è l’esposizione a condizioni di intensificazione lavorativa presenti entro l’orario normale di lavoro – anziché il prolungamento dell’attività lavorativa oltre detto limite – ciò potrebbe limitare la presunta capacità tutelante di misure volte a garantire la ‘disconnessione’ dal lavoro, oggi considerato quale principale dispositivo giuridico di tutela del benessere delle persone coinvolte. A questo si aggiungono i rischi legati al sovraccarico cognitivo, all’esaurimento, alla digital amnesia, alla work addiction e alla cyber addiction (Pietrafesa et al., 2017). 

Le competenze effettivamente possedute dai lavoratori sono una delle variabili individuali che maggiormente influenza il benessere. I lavoratori che non possiedono le conoscenze necessarie a lavorare in assenza di costante guida e supervisione (conoscenze che includono sia quelle richieste dai compiti assegnati che quelle relative alle interdipendenze tra questi e gli altri compiti del processo di lavoro) e che non hanno acquisito esperienza tendono a non gradire la delega delle scelte in merito a come svolgere il proprio lavoro, cioè una delle caratteristiche oggi considerate fondamentali (Charalampous et al., 2019). Inoltre, l’assegnazione di compiti complessi (per i quali il soggetto non ha ancora sviluppato le conoscenze necessarie) e la contemporanea richiesta di raggiungere un certo livello di risultato conduce a fenomeni di ‘tunnel vision’ – l’attenzione si concentra sul raggiungimento del risultato piuttosto che sull’apprendimento delle competenze necessarie – con effetti negativi per la produttività e il benessere (Locke e Latham, 2006). Occorre inserire anche obiettivi di apprendimento (richiedere all’individuo di cercare e implementare un certo numero di ‘strategie’ per sviluppare le competenze necessarie e apprendere come ‘governare’ i compiti), perché facilita lo sviluppo delle capacità di pianificare, monitorare e valutare i miglioramenti nel tempo, che sono particolarmente importanti per chi, come gli smart workers, opera spesso in situazioni di elevata incertezza e complessità. Tutto ciò impone la progettazione di adeguati sistemi di performance management (esaminati nel punto 3.2.2) (Sessa et al., 2009), che si modellino sulla promozione dell’orientamento al risultato, inteso però come risultato desiderato, cioè anche solo parzialmente raggiunto o ridefinito in progress proprio per effetto dell’apprendimento di nuove competenze. 

Lo SW è certamente un approccio all’organizzazione del lavoro potenzialmente in grado di migliorare il benessere delle persone al lavoro, ma tradurre questo potenziale in benefici effettivi richiede uno sforzo progettuale esteso all’analisi del complessivo processo organizzativo in cui tale soluzione si inserisce e dei sistemi di gestione e delle possibili conseguenze negative sul benessere fisico dei lavoratori (postazioni di lavoro non ergonomiche, vulnerabilità a disordini muscoloscheletrici o eccessiva esposizione a campi elettromagnetici).

4.3 Smart Working e il work life balance 

Uno degli obiettivi espliciti dello SW riguarda la migliore conciliazione vita-lavoro. La questione appare meno automatica di quanto possa apparire. Inoltre, durante la pandemia da COVID-19, lo SW è stato svolto in condizioni significativamente diverse da quelle sperimentate in precedenza, che hanno finito spesso per aggravare il conflitto vita-lavoro, oltre che generare isolamento professionale e umano influenzando così negativamente le prestazioni lavorative e il benessere del lavoratore (Jackson e Fransman, 2018). 

Per comprendere il fenomeno e, proattivamente, coglierne gli aspetti sfidanti e le opportunità, sono stati svolti alcuni studi sull’interazione fra telelavoro e job performance, e tra telelavoro, family supportive supervisor behaviors (FSSB) e work-life balance (WLB). Se prima della pandemia, si registrava un netto incremento della performance (soprattutto per lavoratori dotati di alta coscienziosità), questa correlazione non è stata riscontrata nel periodo di pandemia, durante il quale una correlazione significativa con il WLB, amplificata dai FSSB. 

I FSSB sono rappresentati dai comportamenti messi in atto dai capi – supporto emotivo, supporto strumentale, comportamenti di modeling dei ruoli – volte a ridisegnare e riorganizzare i ruoli, al fine di facilitare l’efficacia dei dipendenti dentro e fuori al contesto lavorativo (Clark et al., 2017; Hammer et al., 2009). I capi, che aiutano i loro dipendenti a trovare un modo per bilanciare lavoro e vita, aiutano anche a generare atteggiamenti positivi sul posto di lavoro tra i loro colleghi (Talukder e Galang, 2021; Talukder et al., 2018). Infatti, studi recenti confermano l’esistenza di una relazione positiva tra FSSB e soddisfazione per l’equilibrio lavoro-famiglia (Rofcanin et al., 2020; Idrovo e Bosch, 2019), in quanto questi producono un aumento dei livelli di energia, entusiasmo e umore positivo dei dipendenti a lavoro, propedeutico ad un WLB soddisfacente (Straub et al., 2019). 

Lo SW, anche alla luce dell’esperienza pandemica, sollecita un radicale cambiamento nel modo in cui la nostra società lavorerà nel futuro, e vivrà la casa e la famiglia. È quindi ragionevole attendersi che un buon WLB migliori le prestazioni lavorative influenzando positivamente il benessere psicologico dei dipendenti e riducendo le loro intenzioni di turnover volontario, grazie al fattore motivante rappresentato dalla maggiore autonomia e flessibilità (Wong et al., 2020; Haider et al., 2018). 

4.4 Smart working e diversity management 

Da più parti si sottolineano le potenzialità dello SW come efficace strumento di diversity management, in quanto il suo utilizzo può supportare i lavoratori che presentano bisogni speciali6 (maternità, cura di figli piccoli o di anziani non autosufficienti a carico, o malattia) o bisogni permanenti (disabilità o gravi patologie, proprie o di un familiare) contribuendo a creare adeguate condizioni organizzative e professionali a loro misura7. In questa prospettiva, lo SW permette quindi

non solo di perseguire gli obiettivi di conciliazione, ma riesce anche a soddisfare l’esigenza di introdurre innovazioni organizzative (cambiare il modo in cui ogni lavoratore si relaziona con la propria struttura), tenendo presente l’obiettivo di migliorare i livelli di produttività ed efficienza. Al tempo stesso vanno considerati i rischi che lo SW aggravi situazioni difficili, derivanti da una iniqua ripartizione del lavoro domestico e di cura, o di possibile isolamento sociale, in quanto poco adatto a favorire inclusione e partecipazione attiva all’ambiente lavorativo come spazio sociale e di comunità (questione che si tenta di mitigare facendo uso delle più innovative piattaforme di comunicazione e collaborazione (si veda il punto 3.3.2). 

Lo SW costituisce infatti una forma proattiva di riprogettazione spazio-temporale del lavoro (accomodamento ragionevole8, che non si riduce semplicemente a un adattamento della postazione lavorativa come ambiente fisico (di ergonomia e di dispositivi e ausili), ma può consentire di riconciliare il ciclo vita-cura-lavoro, con il significativo supporto delle tecnologie che eliminano le barriere spazio-temporali e i vincoli legati alla mobilità (Samant Raja, 2016; Ravicchio et al., 2015a, 2015b). 

Pur non dimenticando i limiti legati al digital divide e al deskilling, lo SW può agire come strumento di age diversity management intervenendo positivamente sull’impatto dell’età su attitudini, comportamenti e performance (ripensando organizzazione del lavoro, formazione e sviluppo, rewarding e knowledge management) . La percezione della qualità del lavoro è fortemente influenzata dalla variabile età, (Assolombarda, 2014), soprattutto in un’epoca in cui la forza lavoro in Italia è fortemente caratterizzata da un lento fenomeno di ricambio generazionale, prevalentemente nelle PP.AA. (Angeletti, 2020), in cui il lavoro agile può aiutare a conciliare i nuovi bisogni legati alla sfera familiare (l’accudimento di persone anziane e/o malate) e professionale (la gestione delle maggiori difficoltà fisiologiche legate all’avanzare dell’età). Se scelta condivisa e costruita con il lavoratore “anziano”, lo SW può essere considerato come una risposta, da un punto di vista prevenzionistico, alla ricerca del benessere lavorativo e una forma di lotta alle discriminazioni basate sull’età, evitando pensionamenti anticipati o uscite forzose dal mercato del lavoro, che aumentano il rischio di depressione e il declino cognitivo (Harper, 2011). 

Per far sì che lo SW si qualifichi come soluzione ottimale per i lavoratori con disabilità e bisogni speciali, devono realizzarsi alcuni interventi mirati a ridurre i rischi, quali: 

  • scelte di riorganizzazione del lavoro con attenzione verso alcuni aspetti sensibili, quali definizione di orario e condizioni di lavoro adeguati (ad es., esonero lavoro notturno, predisposizione di ambienti privati idonei); 
  • la creazione di idonee infrastrutture digitali software e hardware; 
  • la promozione e realizzazione di una formazione continua finalizzata soprattutto a combattere l’analfabetismo digitale e favorire l’inclusione sociale; 
  • la definizione e l’applicazione di misure cautelative e di supporto nel rispetto dell’impianto normativo legato alla salute e alla sicurezza del lavoro agile (Gentilini e Filosa, 2019). 

LAVORO SEMPRE PIU SMART? SPUNTI DI RIFLESSIONE E SUGGERIMENTI DI POLICY 

The future of work is hybrid”. Questa affermazione sembra comparire con significativa frequenza nel dibattito sul ritorno al nuovo normale. Al di là dell’etichetta che si voglia usare per qualificare il lavoro che verrà (questione non irrilevante ovviamente, anche dal punto di vista giuridico), alcuni punti sembrano acquisiti. 

Innanzitutto, la traiettoria è oramai delineata. Dal lato delle persone, la ricerca di un lavoro ‘smart’ come risposta al bisogno di condizioni di vita più equilibrate – nelle quali il lavoro non sia in contraddizione con la vita privata, gli affetti e gli interessi – sta mostrando una crescita in quanto ad intensità e consapevolezza. E questa si è acutizzata dentro le difficoltà e le contraddizioni che le esperienze di SW da pandemia hanno fatto emergere. 

Dal lato delle organizzazioni, la capacità di rispondere a questa esigenza dei propri lavoratori (che è parte delle più ampie aspirazioni di coloro che cercano lavoro) nel quadro di una rafforzata capacità di presenza competitiva (il tema della produttività resta centrale, così come lo resta l’orientamento all’innovazione e al cliente) si afferma come elemento discriminante di attrattività, che le pratiche più o meno strutturate di SW da emergenza hanno ulteriormente consolidato. 

Il cambiamento mostra connotati di irreversibilità, che non rendono possibile – ma neppure auspicabile – tornare ai modelli precedenti: lo SW era già parte di un percorso di ripensamento dei modelli di organizzazione del lavoro in via di lento consolidamento, sul quale la situazione pandemica ha inciso accelerandone la maturazione e mettendone in luce criticità che vanno affrontate e risolte nella direzione di accogliere, accompagnare e guidare il cambiamento stesso. 

In questa prospettiva occorre quindi aiutare: 

  • • le persone/famiglie, a capire cosa vogliono e come possano attrezzarsi per trovare il proprio equilibrio, 
  • • le singole organizzazioni ad approfondire le proprie specificità per individuare soluzioni organizzative appropriate e renderle operative, 
  • • le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese (di categoria) a mettere a sistema le proprie competenze e ricoprire un ruolo di sostegno e supporto al processo di cambiamento. 

Per quanto concerne le persone, due sono i versanti implicati. 

Un primo riguarda le competenze tecnico-digitali e quelle comportamentali. I principali problemi relativi al digital divide – che si fondano anche sulla disomogenea diffusione della banda larga – interessano soprattutto lavoratori con limitate possibilità culturali ed economiche e lavoratori con un’età più elevata, maggiormente a rischio di esclusione sociale a causa delle minori conoscenze digitali che rendono difficile il passaggio allo SW. In generale, questo costituisce un ostacolo allo sviluppo di un approccio al lavoro in cui l’impiego di strumenti digitali possa essere considerato il default

Inoltre, anche recenti iniziative (si veda la proposta di legge approvata alla Camera nel gennaio 2022 volta ad abilitare l’utilizzo e la valorizzazione delle competenze non cognitive nella scuola italiana) confermano la centralità delle skills comportamentali, queste ultime sempre coinvolte ‘nel’ e ‘dal’ contesto digitale. Di entrambe le tipologie di competenze c’è un diffuso ed ampio bisogno di arricchimento, che coinvolge tutte le fasce di popolazione e che deve trovare ai diversi livelli occasioni di sviluppo: a partire dalla scuola per arrivare agli ambiti formativi professionalizzanti ed al contesto lavorativo stesso (nel quale l’urgenza di interventi è, se possibile, ancora maggiore) attraverso il potenziamento di ogni forma di apprendimento, verso una maturazione consapevole delle logiche sottese all’agire digitale, troppo spesso ridotto a forme di utilizzo superficiali. 

La seconda area riguarda le caratteristiche personali del lavoratore ed il suo contesto relazionale. Che il lavoro sia anche “luogo” nel quale i tratti della persona emergono e i rapporti 

umani e professionali si manifestano è un dato, che – come l’esperienza vissuta confortata dalle indagini effettuate negli ultimi due anni ci insegnano – non può essere eliminata. Le diverse situazioni personali in cui si trova ciascun lavoratore portano però a condizioni di lavoro significativamente diverse. Per chi vive solo, le occasioni di rapporto connesse al lavoro costituiscono anche territorio di socializzazione che lo spostamento verso il virtuale può destabilizzare. Per chi è inserito in trame più prossime e fitte, la centrale questione del bilanciamento tra ruoli diversi, relative priorità e necessari spazi va inserita in un quadro di dialogo con l’organizzazione che trovi, all’interno di regole generali condivise, effettivi momenti di personalizzazione. 

Dal punto di vista delle organizzazioni, a partire dalla condivisa necessità di un lavoro di riprogettazione dei processi e delle modalità di coordinamento, può essere utile considerare le peculiarità del mondo delle imprese e quelle della Pubblica Amministrazione. 

Pur nella significativa differenziazione – che caratterizza le imprese per dimensioni e settori di appartenenza e cultura propria e che influenza non poco l’orientamento verso modalità organizzative come lo SW, questo ha comunque trovato terreno fertile, dapprima dell’emanazione della legge in materia, la L. 81 del 2017. Da anni lo si sperimenta e molti contratti collettivi di lavoro – via via che sono stati rinnovati – hanno già recepito indicazioni di praticabilità dello SW, di norma nella formula del sopra ricordato hybrid work (che alterna presenza nella sede di lavoro a giornate nelle quali il lavoro viene svolto a casa o altrove, nel luogo preferito dal lavoratore stesso). 

È chiaro che un efficace ricorso allo SW richiede un adeguato lavoro di analisi organizzativa – e laddove necessario di riprogettazione, come si è evidenziato in questo paper – che consideri non solo i compiti da svolgere e le caratteristiche dei lavoratori a questi dedicati, ma che soprattutto intervenga a definire adeguati processi di gestione coerenti con l’orientamento intrapreso. Lavoro, questo, che non può che essere fatto per ogni impresa, ma che non tutte le imprese sono in grado di realizzare – necessitando quindi di supporti, anche da parte dell’Accademia. 

È evidente che non possa esistere una unica soluzione, ‘una ricetta’ applicabile a ciascun contesto organizzativo, sebbene siano in molti a invocarla (e talvolta a proporla). Le soluzioni praticabili – quelle ‘adatte’- dipendono infatti dalla natura delle attività svolte, dal ciclo di vita ma anche dalla cultura organizzativa, dalle preferenze dei lavoratori, dagli stili manageriali, sino ad arrivare alle caratteristiche anche sociali e demografiche del contesto in cui l’organizzazione stessa si inserisce. È possibile comunque ipotizzare non già delle soluzioni, ma alcuni principi cui ispirarsi e molte cautele, che sono stati richiamati in questo paper. Molte imprese hanno già intrapreso cammini virtuosi, altre si trovano a stadi diversi del processo di trasformazione e fronteggiano elementi di rigidità differenti. In tal senso è opportuno accompagnare il cambiamento anche a livello di sistema promuovendo momenti di confronto e di (in)formazione seri, che evitino la chimera delle facili ricette e delle best way, ma che al contrario, partendo da evidenze, suggeriscano corsi di azione, processi e sistemi, ma soprattutto un metodo rigoroso per la gestione del cambiamento e la riprogettazione del lavoro. 

Un discorso a parte occorre destinare alla pubblica amministrazione, soggetto strutturalmente composito e sottoposto a indirizzi ed orientamenti da parte degli organi centrali. Alcuni enti hanno da tempo (ante pandemia) investito molto nell’adozione sperimentale dello SW e costituiscono esempi virtuosi dalla cui esperienza attingere. Altri si sono avvicinati al tema con maggiore timidezza, limitandosi a promuoverlo attraverso iniziative spot (si pensi ad esempio alla “giornata del lavoro agile” volta a coinvolgere altri soggetti del territorio per portare all’attenzione i benefici di questo modo di lavorare). Altri ancora hanno approcciato lo SW solo in seguito alla pandemia e hanno conseguentemente scontato la mancanza della necessaria progettualità ex-ante. Di conseguenza le pratiche e le esperienze hanno avuto segni molto diversi. Resta il fatto che è stata comunque l’opportunità per avviare una trasformazione organizzativa, tecnologica e culturale, nella quale i tanti dipendenti pubblici, che hanno dimostrato nella fase pandemica 

impegno, creatività e senso di responsabilità, possono ora fungere da veri promotori del cambiamento. 

I recenti indirizzi manifestati a livello centrale sottolineano l’idea che il lavoro in presenza resti la modalità ordinaria nella PA e che lo SW debba essere programmato con logica di rotazione e richiamano questo anche per il lavoro dei responsabili e dei dirigenti, coerentemente con la forma ibrida che sta emergendo come la più adeguata applicazione dello SW. Le ulteriori indicazioni vanno nella direzione di facilitare il perseguimento delle finalità che la letteratura suggerisce come proprie di questa modalità organizzativa, vale a dire un miglioramento dal lato dell’organizzazione (per cui occorre non solo che non si pregiudichi o riduca la fruibilità dei servizi ma che ne favorisca un arricchimento) e dal lato lavoratore (al quale contribuisce la previsione di un accordo individuale che dettagli obiettivi della prestazione e della sua misurazione, modalità e tempi di esecuzione, la definizione di fasce di contattabilità e disconnessione). 

Su questa base e a partire dalle Linee Guida e dalla recente firma del contratto per il comparto funzioni centrale del dicembre 2021, si è avviato il percorso delle trattative per i rinnovi contrattuali, che potranno disciplinare ulteriormente le specificità dello SW (interessante sarà capire come verrà affrontato il tema della formazione e della strumentazione di supporto). 

Infine, il confronto nell’ambito delle relazioni industriali rappresenta un passaggio necessario sia per le organizzazioni pubbliche che per le private, per la capillarità di approfondimento ed interiorizzazione della profondità del cambiamento (innanzitutto in termini di apertura mentale e culturale) e per la necessaria tutela dei lavoratori sia rispetto alle competenze che vanno rafforzate (per contrastare i rischi di deskilling), sia rispetto all’adeguatezza ed alla coerenza delle politiche adottate nelle singole organizzazioni. In questa direzione, va sottolineata la fondamentale necessità che ci sia da parte di entrambe le parti, datoriale e sindacale, un’attenzione alla presenza di adeguate condizioni di sicurezza in senso ampio, a volte sottovalutate, e sulle quali ogni lavoratore deve essere fortemente sensibilizzato. 

In questa prospettiva, si possono evidenziare alcuni punti qualificanti di un percorso che renda lo SW una modalità realmente praticabile e utile: 

  • vista la natura del tema – approccio all’organizzazione del lavoro – è utile che il quadro normativo resti leggero, anche se occorre una valutazione anche dal punto di vista normativo delle condizioni adeguate per attuare forme ibride di lavoro, per meglio approfondire il fondamentale tema del rapporto subordinazione-eterodirezione; e chè altresì utile che sia stimolato il confronto in sede decentrata, così che nella concretezza delle situazioni si vada a superare le contrapposizioni dicotomiche tra lavoro in presenza vs in remoto; 
  • il ruolo del soggetto pubblico è fondamentale o nell’intervenire a garantire le prestazioni dell’infrastruttura tecnologica, che – come è stato precisato – non sono l’elemento centrale dello SW, ma ne costituiscono una premessa basilare; 
    • nel sostenere ed attuare programmi di formazione volti all’alfabetizzazione digitale e alla sensibilizzazione all’adozione di strumenti e modalità di lavoro adeguati al contesto digitale, utile per l’adozione e la diffusione dello SW
    • nel supportare lo sviluppo di luoghi “diversi” dove lavorare; questa può costituire una preziosa linea di intervento verso condizioni di praticabilità per le scelte individuali ed organizzative nella direzione dello SW
    • nel gettare le basi affinché si attivi un dialogo aperto con finalità operative tra istituzioni e mondo del lavoro (settore pubblico e privato) al fine di identificare le concrete necessità derivanti dallo SW in termini di ridefinizione degli spazi e dei tempi di lavoro anche sperimentando formule innovative; 
    • nel farsi promotore di tavoli di discussione e di intervento concreto sul territorio tra istituzioni, imprese e organizzazioni al fine di adottare lo SW anche nell’ottica delle politiche di sviluppo economico e di recupero sociale (il cd. south working come via per rivitalizzare aree urbane e rurali soggette al fenomeno di spopolamento per carenza di opportunità di lavoro); 
    • infine, in quanto datore di lavoro, nel costituire un esempio e un volano per l’applicazione corretta dello SW; in questo senso potranno essere una preziosa risorsa i regolamenti predisposti dalle diverse PP.AA. (che prevedano indicazioni sull’analisi delle attività, i criteri di scelta del personale, le modalità di accesso allo stesso, i casi di esclusione, le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, l’accordo individuale, i diritti e doveri del lavoratore, la sicurezza sul lavoro, la verifica e valutazione delle attività svolte); 
  • occorre favorire la messa a punto di modelli di analisi che ogni organizzazione possa utilizzare per fare al proprio interno un percorso adeguato di approfondimento sulle condizioni di utilizzabilità dello SW. Questo implica:
    • l’esame dei processi organizzativi per tenere conto di e/o sfruttare la digitalizzazione delle attività; 
    • il ridisegno (il ripensamento) di competenze / ruoli / struttura organizzativi unitamente alla gestione del processo di cambiamento culturale (servono competenze, risorse e chiare responsabilità che possano rappresentare tutti gli attori in campo nella trasformazione); 
    • l’opportuna attenzione alla dimensione psicologico-emotiva, considerando che nello SW l’interazione tra le persone – individuale o collettiva – incide sui sistemi cognitivi e percettivi di ciascuno; 
    • la costruzione di nuove relazioni di fiducia interne all’organizzazione – indispensabili per il cambiamento e per mitigare possibili conflitti che provocano ritardi e fallimenti di nuovi progetti, anche attraverso il rafforzamento dell’identità organizzativa e di valori più vicini alle caratteristiche dello SW (solidarietà, equità, autonomia, etica); 
    • la valorizzazione della leadership in quanto risorsa fondamentale nel recuperare l’integrità del lavoro e fronteggiare le forze disgreganti che fisiologicamente accompagnano i progetti di cambiamento; 
    • la ridefinizione degli ambiti di responsabilità dei lavoratori e dei meccanismi di coordinamento, (compresi spazi e luoghi di lavoro), con particolare attenzione alle diverse competenze che occorre che lavoratori e supervisori padroneggino; 
    • il ripensamento delle modalità gestione del personale: recruiting, assessment, formazione e carriera per tenere conto del ridisegno di competenze / ruoli / struttura organizzativi.  

Il recente (avvenuto il 21 aprile) insediamento dell’Osservatorio in materia di lavoro agile, composto da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori e presieduto dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, documenta l’interesse a monitorare la situazione e a valorizzare le pratiche migliori che si andranno a sviluppare. 

A questo lavoro confidiamo di poter dare il nostro contributo di ricerca ed analisi.

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Università degli Studi di Genova

  1. È bene precisare che già prima dell’emanazione della l. 81/2017, diversi contratti collettivi avevano già introdotto questa modalità di lavoro (v. ad esempio il CCNL della NESTLE del 2012). 
  2. Si tratta di una semplificazione, utile a fini argomentativi; non esiste un mondo del lavoro analogico, ormai scomparso e comunque fisicamente distinto e separato dal mondo del lavoro digitale. Piuttosto, esistono atti e/o processi di lavoro realizzabili oggi, in tutto o in parte, con dispositivi digitali, ed esistono ambienti di lavoro digitalmente “aumentati” e/o “replicati” e quindi accessibili anche da remoto.
  3. Oggi, un funzionario commerciale-tipo dispone di un tablet, con cui si connette a un software di Customer Relationship Management, dove sono memorizzati tutti i clienti attuali e potenziali dell’azienda per cui lavora unitamente allo stato della relazione tra loro a l’azienda ed alla propria agenda di lavoro elettronica, condivisa con i suoi colleghi e il suo responsabile, che quindi possono sempre sapere dove si trova e per fare cosa (output), e possono monitorare gli esiti dei risultati del suo lavoro (outcome), grazie agli aggiornamenti dei moduli del software di CRM che lui stesso è tenuto a fare.  
  4. l termine inglese per indicare il flusso di metadati generati dalle piattaforme digitali (di lavoro) è exhauts, riferimento metaforico allo scarico di una marmitta.  
  5. La ricerca organizzativa aveva evidenziato già prima della pandemia come i lavoratori da remoto si preoccupino più degli altri della osservabilità del proprio lavoro (Sewell, and Taskin, 2015).  
  6. A seguito della diffusione della pandemia da Covid-19 il legislatore introduce l’espressione “lavoratore fragile” quale condizione temporanea, con cui si fa riferimento a ogni lavoratore/lavoratrice che ha patologie pregresse a causa delle quali potrebbe avere effetti anche molto gravi in caso di infezione da Covid-19. Pertanto, il lavoratore “fragile” è una persona che rientra nelle categorie dell’art. 26 del Decreto “Cura Italia” (rischio in relazione a Covid-19 derivante da immunodepressione, esiti oncologici o disabilità in condizioni di gravità ex L. 104 art. 3 comma 3) o una persona che non rientra nelle categorie sopra citate ma soffre di patologie che possono incidere sulla prognosi in caso di infezione, per cui vanno previste soluzioni maggiormente cautelative come da Circ. Min. Salute del 4.9.2020. La fragilità del lavoratore, opportunatamente certificata dalle autorità sanitarie o dal medico di base, può dipendere comunque dall’età e dalle patologie pregresse, che incidono sulla sua vulnerabilità. Ciò premesso, il legislatore dispone che i lavoratori fragili: dovranno lavorare in SW (fino al termine dell’emergenza sanitaria); potranno ricevere l’assegnazione di compiti differenti rientranti nelle proprie mansioni e fattibili sulla base del rispettivo contratto di lavoro; potranno svolgere dei corsi di formazione professionale a distanza. In sintesi, lavoratori/lavoratrici sono qualificati come “fragili” per ragioni legate: alla propria salute precaria, alla cura dei figli e/o assistenza degli anziani o familiari malati, ovvero alla loro disabilità.
  7. Il legislatore riconosce un vero e proprio diritto soggettivo al “lavoro a distanza”, a condizione che le caratteristiche della prestazione siano compatibili col lavoro agile, a due specifiche categorie di lavoratori, quali, i lavoratori gravemente disabili (ex-L. n. 104/1992)e i lavoratori abili che nel proprio nucleo familiare presentano una persona con disabilità connotata da gravità.  
  8. Gli ‘accomodamenti ragionevoli’ sono definiti come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (Sentenza 4 luglio 2013 Corte di Giustizia Europea).  

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