La relazione capo-collaboratore rappresenta da sempre un’area delicata e cruciale nelle dinamiche organizzative. Siamo abituati a vedere capi più anziani dei propri collaboratori ma oggi le cose sono cambiate, le relazioni gerarchiche sono sempre meno convenzionali, con implicazioni non solo emotive ma anche sulla performance dell’organizzazione che saranno discusse in questo articolo.
L’avvento dei giovani capi
Siamo abituati a immaginare e vedere organizzazioni in cui lavoratori più anziani sono a capo di lavoratori più giovani. Ma questo modello non è più così scontato a causa di una serie di cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni (Cappeli & Novelli 2010).
Anzitutto le promozioni non sono più basate esclusivamente sulla seniority. Sono sempre più diffusi sistemi di carriera basati sul merito, che incoraggiano le ambizioni di giovani collaboratori a competere, e superare, i loro ‘anziani’ colleghi. E le statistiche lo confermano. A fronte di un progressivo invecchiamento della popolazione e un conseguente innalzamento dell’età media dei collaboratori anche dentro le organizzazioni, una ricerca condotta sulle 2.500 più grandi società quotate dimostra che gli amministratori delegati negli Stati Uniti raggiungono il vertice con qualche anno di anticipo rispetto al passato. Nel 1995 l’età media di partenza di un amministratore delegato era 50,4 anni; nel 2001 è sceso a 48,8 (Todaro 2003).
Un secondo fattore di cambiamento è legato all’accelerazione dell’innovazione tecnologica che rende particolarmente preziosa la disponibilità di idee nuove e creative di giovani collaboratori, che spesso quindi assurgono a ruoli manageriali (Posthuma & Campion 2009). Non è un caso che, fra tutte le imprese S&P 500, ad avere il primato delle aziende con i CEO più giovani sono Facebook, guidata dal fondatore trentaduenne Mark Zuckerberg (classe 1984), e Yahoo con a capo l’appena quarantenne Marissa Mayer (classe 1975). Interessante anche notare come, a fronte di un’età media dei CEO di 50 anni, i soli settori a far registrare un valore medio inferiore sono internet software e servizi (48 anni) insieme a internet retail (49 anni) (Chemi 2015).
Il terzo fattore di cambiamento è dato dall’allungamento dell’età pensionabile, che accompagnato ad una tendenza frequente a non investire in termini di sviluppo e carriera sugli older workers, aumenta la probabilità di avere capi più giovani.
Nel complesso, le tre dinamiche citate hanno contribuito a far emergere quello che Cappeli e Novelli (2010) chiamano “un nuovo ordine organizzativo” in cui giovani capi sempre più spesso sono alla guida di collaboratori più maturi.
Il ringiovanimento dei capi, ai vari livelli della gerarchia, è spesso salutato come un elemento di modernità organizzativa, che rompe gli steccati e gli stereotipi del passato. Ma alcuni studi indicano che le ricadute organizzative non sono prive di criticità . Le teorie sulla carriera (Career time tables, Lawrence 1984, 1988) e sulle differenze di status legate all’età (Hughes 1945; Vecchio 1993) suggeriscono che i lavoratori che sono più anziani dei propri manager potrebbero provare emozioni negative e conseguire livelli di prestazione più bassi.
C’è da chiedersi, allora, se promuovere in maniera sistematica capi più giovani dei propri collaboratori possa avere un impatto negativo sul senso di appartenenza, sul clima organizzativo e quindi sulla performance dell’impresa.
Lo studio pubblicato recentemente da Kunze e Menges sul Journal of Organizational Behavior (2016) suggerisce alcune risposte a queste domande.
Impatto emozionale della diversità di età nel rapporto capo-collaboratore
La relazione tra capo e collaboratore ha sempre delle implicazioni sul piano emotivo. Secondo Kunze e Menges (2016) il rischio che l’impatto emozionale negativo prevalga su quello positivo è più alto quando c’è una relazione di età “inversa” tra capo e collaboratore, ovvero quando il primo è più giovane del secondo. Questa ipotesi poggia su due argomentazioni. La prima vede l’età come un elemento di status, così come la retribuzione, l’esperienza, la posizione gerarchica. All’interno dei gruppi, c’è coerenza in termini di status quando il membro più “anziano” percepisce la retribuzione più elevata, ha il know how più consolidato e la seniority più elevata, e ricopre il ruolo più importante nella gerarchia dell’organizzazione (Hughes 1945; Vecchio 1993). Quando l’età non è congruente con gli altri indicatori di status, essendo disallineata dai tipici attributi della leadership, questo può generare sentimenti negativi tra i membri del gruppo quali risentimento e rabbia (Cox & Nkomo 1992). La seconda fa riferimento alla violazione delle cosiddette “norme di carriera” che si verifica quando c’è una relazione di età “inversa” tra capo e collaboratore. Secondo la “social comparison theory” (Festinger 1954), infatti, tutti noi siamo portati a valutare il nostro successo di carriera confrontandoci con altri che hanno la nostra stessa età. Se abbiamo superato, in termini di carriera, i colleghi nostri coetanei, pensiamo di aver “bruciato le tappe”. Se, al contrario, siamo stati promossi più lentamente oppure non lo siamo stati affatto, allora ci sentiamo in ritardo nella progressione di carriera. Quando siamo guidati da un capo che è più giovane di noi, la percezione di essere in ritardo sul nostro percorso di carriera potrebbe essere acuita, generando sentimenti ed emozioni negative come ansia, paura, insoddisfazione lavorativa.
Inoltre, alcune ricerche mostrano che quando esiste una relazione di età “inversa” tra capo e collaboratore, i collaboratori hanno minori opportunità di sviluppo e valutazioni della performance più basse (Shore et al. 2003). Inoltre, i capi tendono ad apprezzare di meno e a comunicare meno con i propri collaboratori più maturi di quanto non facciano con quelli simili d’età (Zenger & Lawrence 1989).
Sulla base di queste evidenze teoriche ed empiriche, Kunze e Menges (2016) ipotizzano che ci sia un impatto negativo sulle emozioni dei dipendenti che hanno un capo più giovane: più aumenta questo age gap, maggiore è la risposta negativa di tipo emozionale e la sofferenza del collaboratore. Inoltre, secondo gli autori, questi sentimenti negativi possono essere contagiosi e diffondersi all’interno dell’organizzazione. Quando i collaboratori esprimono apertamente la propria insofferenza, inevitabilmente condizionano anche i propri colleghi che si trovano in una analoga situazione, provocando una “reazione a catena” che propaga questi effetti negativi all’interno dell’organizzazione. Al contrario, se i collaboratori evitano di manifestare la propria sofferenza, nascondendo le proprie emozioni, questo contagio emotivo si riduce. Si tratterebbe dunque di uno di quei casi in cui nascondere i propri sentimenti produce effetti benefici nel contesto sociale e relazionale perché previene il diffondersi di un clima negativo rispetto alle differenze di età. Di conseguenza, secondo gli autori, una maggiore capacità dei collaboratori di nascondere e non manifestare le proprie emozioni indebolisce la relazione negativa che esiste tra age gap (inverso) tra capo e collaboratore e frequenza con cui si manifestano emozioni negative tra i collaboratori. Emozioni negative che sono particolarmente importanti perché possono impattare negativamente sulla performance dell’organizzazione, giacché ostacolano la collaborazione, demotivano gli individui, abbassano la produttività e distraggono dal perseguimento dei propri obiettivi prestazionali.
I risultati della ricerca condotta dagli autori su un campione di 61 organizzazioni, utilizzando diverse fonti di dati (HR manager, dipendenti, top management), sembrano confermare queste ipotesi: la differenza di età tra il capo e i suoi collaboratori più anziani ha un impatto negativo sulla performance organizzativa in quanto influenza negativamente le emozioni dei collaboratori. Ma questa relazione negativa è neutralizzata quando i collaboratori sono in grado di non manifestare e condividere i propri sentimenti di paura, rabbia o insoddisfazione.
Implicazioni manageriali
La ricerca di Kunze e Menges (2016) sottolinea alcune criticità che possono insorgere a livello individuale e organizzativo a fronte di relazioni gerarchiche non convenzionali. Secondo gli autori, essere gestiti da un capo più giovane può suscitare nei collaboratori reazioni emotive negative che non vanno in alcun modo sottovalutate, bensì gestite consapevolmente. Un primo passo per iniziare ad affrontare questo tema va nella direzione di scardinare pregiudizi e stereotipi relativi all’età che aleggiano spesso nei contesti lavorativi. È importante, infatti, che per primi i capi siano consapevoli di alcune “trappole” che possono influenzare il loro modo di agire e di porsi nei confronti di collaboratori più maturi. Si è portati a ritenere, ad esempio, che le abilità e la produttività tendano a decrescere con il tempo, analogamente alla propensione al cambiamento e all’apprendimento nonostante molti studi abbiano dimostrato che le differenze individuali (in termini di salute o di skill) contino più dell’età. Convinzioni radicate sull’inadeguatezza dei lavoratori senior a rispondere ai cambiamenti del business agiscono come self fulfilling prophecies, spingendo talvolta inconsciamente i capi più giovani a sottovalutare le potenzialità dei propri collaboratori maturi, che, conseguentemente, si confermano incapaci di dare risposte coerenti alle nuove richieste dell’organizzazione. Iniziative formative esperienziali orientate a far emergere percezioni inconsapevoli e radicate possono quindi aiutare i capi a modificare i propri schemi mentali e ad aprirsi verso una conoscenza non filtrata dei collaboratori. Accrescere nei collaboratori la consapevolezza di essere considerati per ciò che si è, piuttosto che per l’età che si ha, può quindi rappresentate una leva importante in grado di stemperare le possibili sofferenze e reazioni emotive negative legate ad una relazione gerarchica “biologicamente invertita”.
Se le abilità e l’orientamento al cambiamento e all’apprendimento non cambiano necessariamente con l’età, ciò che certamente si modifica nel tempo è la motivazione al lavoro. Sono molti i contributi teorici ed empirici che confermano un’evoluzione dei driver che sostengono l’agire organizzativo attraverso le diverse fasi della vita. Saperli riconoscere e adeguatamente soddisfare può rappresentare per i capi più giovani un altro fattore vincente nel limitare il vissuto negativo dei propri collaboratori più maturi. In uno studio condotto da Kooij e colleghi è emerso come con il passare del tempo si riduce la rilevanza dei fattori estrinseci, quali le componenti del pacchetto retributivo, le opportunità di sviluppo e di carriera, mentre cresce l’intensità dei fattori intriseci, ovvero legati alla soddisfazione per il lavoro svolto. Assegnare compiti e attività che richiedono esperienza, maturità di giudizio, competenze relazionali e di controllo emotivo consente ai collaboratori senior di accrescere il proprio senso di auto-efficacia influenzando positivamente la propria motivazione al lavoro. Per riconoscere queste dinamiche di trasformazione delle motivazioni è necessario che le imprese abituino o addirittura “forzino” i giovani capi a rivalutare i sistemi di ascolto e di riconoscimento delle attese dei propri collaboratori. Solo un ascolto mirato può consentire alle organizzazioni di adottare, ad esempio, strumenti e piani di reward che tengano conto delle preferenze di tutti i collaboratori ma, in particolare, di quelli senior magari introducendo soluzioni meno costose e più apprezzate. Ci sono molte indagini che danno evidenza a questo approccio mostrando, ad esempio, quanto possa variare l’importanza attribuita dai lavoratori a uno stesso benefit in funzione di molteplici variabili, tra cui la fase del ciclo di vita e l’età (GfK, Tower Watson, 2010).
Un altro passo importante per gestire reazioni emotive negative che possono insorgere da situazioni in cui è presente una relazione di età “inversa” tra capo e collaboratore può essere rappresentato dalla strategia adottata dal leader nella costruzione del management team (composizione, ruoli) e nel disegnare le regole per il suo più efficace funzionamento. In questa prospettiva sembrerebbe opportuno adottare politiche inclusive che lascino spazio e protagonismo – nella composizione del team – anche a manager di generazioni diverse senza cadere nella tentazione – supportata dai pregiudizi sopra richiamati – di costruire gruppi direzionali “a immagine e somiglianza” del leader, anche per quanto riguarda l’età. Scelte del genere potrebbero ulteriormente stemperare possibili sofferenze e reazioni emotive negative. I più senior, infatti, sarebbero portati ad attribuire un significato positivo a tale scelta, considerata come un esplicito riconoscimento del contributo fondamentale che i senior sono chiamati ad assicurare all’impresa. Non meno importante è la scelta di assegnare a manager con esperienza ruoli di accompagnamento di leader più giovani. Una soluzione che – oltre a riconoscere l’autorevolezza del loro contributo – consente di valorizzare competenze di coaching e di sostegno relazionale.
Bibliografia
Cappeli, P., & Novelli, B. (2010). Managing the older worker: How to prepare for the new organizational order. Cambridge: Harvard Business Press.
Chemi, E. (2015). Who is the oldest CEO in the S&P 500? CNBC.
Cox, T., & Nkomo, S.M. (1992). Candidate age as a factor in promotability ratings. Public Personnel Management, 21(2), 197–211.Festinger, L. (1954). A theory of social comparison processes. Human Relations, 7(2), 117–140.
Hughes, E. C. (1945). Dilemmas and contradictions of status. American Journal of Sociology, 50, 353–359.
Kunze, F., & Menges, J. I. (2016). Younger supervisors, older subordinates: An organizational‐level study of age differences, emotions, and performance. Journal of Organizational Behavior, DOI: 10.1002/job.2129.
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Posthuma, R. A., & Campion, M. A. (2009). Age stereotypes in the workplace: Common stereotypes, moderators, and future research directions. Journal of Management, 35, 158–188.
Shore, L. M., Cleveland, J. N., & Goldberg, C. B. (2003). Work attitudes and decisions as a function of manager age and employee age. Journal of Applied Psychology, 88(3), 529–537.
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