Abstract
Le imprenditrici affrontano maggiori difficoltà degli uomini nel finanziare la loro impresa. Questo vale anche negli spin-off accademici, che –basati su conoscenza e tecnologia– potrebbero essere diversi. Le scienziate possono segnalare ai finanziatori la qualità dello spin-off e ridurre lo svantaggio con i colleghi maschi introducendo nell’azionariato l’università e professori ordinari.
Stereotipi di genere e finanziamento delle imprese ad alta tecnologia
Anche se non sono più delle mosche bianche, le imprenditrici rappresentano ancora una minoranza in tutti i sistemi economici e la loro presenza diventa sempre più rarefatta man mano che dai settori tradizionali ci si muove verso quelli ad alta tecnologia. Le difficoltà che le donne devono affrontare nell’avvio e nella gestione un’impresa, invece, sono decisamente maggiori di quelle sopportate dagli uomini. Ma quali sono le cause della condizione di marginalità delle imprenditrici?
Una prima categoria di spiegazioni suggerisce sostanzialmente che le donne sono inadatte a coprire delle posizioni di responsabilità imprenditoriale o dirigenziale a causa di alcune caratteristiche biologiche, psicologiche e sociali. Prendiamo, ad esempio, la propensione al rischio, elemento immancabile nel profilo imprenditoriale: è documentato che le donne sono meno propense al rischio; ma uno studio condotto nel 2009 da Luigi Zingales e colleghi mostra che le donne che hanno elevati livelli di testosterone, ormone tipicamente maschile, diventano più propense al rischio. Altre ricerche hanno messo in evidenza una serie di limiti delle imprenditrici: dalle limitate competenze in ambito finanziario alla minore estensione delle reti professionali, dalla scarsa fiducia nelle proprie capacità imprenditoriali all’esigenza di conciliare le attività di cura della famiglia, fino al disinteresse per la crescita dell’impresa.
Tuttavia, quest’ordine di argomenti offre una spiegazione molto parziale della marginalità delle imprenditrici (Woolley, 2019). Infatti, è provato che clienti, fornitori, dipendenti e finanziatori si relazionano in modo diverso con chi guida un’azienda a seconda del suo genere ed esistono casi di vere e proprie discriminazioni nei confronti delle donne e di chi, uomini o donne, adotta comportamenti tipicamente associati al genere femminile. Il mondo del lavoro e, in particolare, quello dell’imprenditorialità sono dominati da modelli di comportamento riconducibili a uno stereotipo maschile: ci si attende che imprenditori e dirigenti siano assertivi, aggressivi, orientati alla dominanza, mentre comportamenti associati alla figura femminile –come l’espressione di emozioni– sono percepiti come estranei e quindi penalizzati. Le evidenze di questa disparità di aspettative e di trattamento sono numerose e a volte sorprendenti.
Innanzitutto, un recente studio pubblicato su Science Advances (Kanze et al., 2020), mostra che le imprese guidate da donne che vogliono entrare in settori tipicamente maschili (come quelli ad alta tecnologia) ottengono meno finanziamenti rispetto a quelle che entrano in settori tipicamente femminili, mentre questo effetto legato alla caratterizzazione di genere del settore non si registra per le imprese guidate da uomini. Entrando nel processo di finanziamento, va registrato che le domande che gli investitori (solitamente uomini) pongono durante i pitch –le brevi presentazioni con cui gli imprenditori cercano di convincere i finanziatori– cambiano a seconda del sesso di chi presenta: gli uomini vengono chiamati a spiegare aspetti dell’idea imprenditoriale che ne mettono in luce le prospettive di crescita e la competitività; le donne, quelli che riguardano i possibili rischi e le strategie per mitigarli (Kanze et al., 2018).
È abbastanza facile immaginare quali idee risultino alla fine più attraenti… E come si dovrebbe rispondere alle domande poste dai finanziatori? In generale, indipendentemente dal sesso biologico, gli imprenditori dovrebbero essere molto cauti nell’adottare comportamenti ed espressioni riconducibili allo stereotipo femminile (Balachandra et al., 2019), a meno di utilizzarli in articolate strategie comunicative verbali e non verbali.
Gli stereotipi di genere rappresentano quindi un fortissimo limite allo sviluppo dell’imprenditorialità femminile. L’OCSE stima che nella sola Unione Europea ci potrebbero essere quasi sette milioni di imprese in più se le donne avessero le stesse opportunità degli uomini di avviare e gestire un’iniziativa imprenditoriale; si tratta di un numero considerevole, pari alla metà del totale delle start-up europee (OCSE/Commissione Europea, 2021). Il quadro appare ancora più sconfortante considerando che ritroviamo la gran parte delle imprenditrici nei settori maturi, mentre in quelli ad alta tecnologia le donne sono la minoranza della minoranza. La competizione in questi settori richiede molti capitali, molte relazioni e molte competenze, che le imprese guidate da donne fanno grande fatica ad acquisire. Si tratta di uno spreco di intelligenza, talento e competenze inaccettabile per l’Europa, che è alla costante ricerca di opportunità di crescita economica e annovera tra i suoi valori fondanti l’uguaglianza tra le persone.
Di fronte a questo quadro a tinte fosche, quali strategie possono mettere in atto le imprenditrici per ottenere la legittimazione necessaria ad acquisire le risorse che servono per avviare e far crescere un’impresa ad alta tecnologia?
I segnali della qualità di una nuova impresa
Sia che a guidarle sia un uomo o una donna, per le nuove imprese ottenere il finanziamento iniziale è molto difficoltoso per una questione di asimmetria informativa. I fondatori, infatti, hanno delle informazioni su una serie di aspetti critici dell’impresa –come la tecnologia, la fattibilità tecnica del prodotto, le prospettive di crescita del mercato o la coesione del personale– con un grado di completezza e accuratezza che un investitore esterno non può raggiungere, neanche dopo lunghi colloqui e analisi dei piani strategici. Inoltre, man mano che dai settori tradizionali ci si sposta verso quelli ad alta tecnologia, l’ammontare di informazioni necessarie per un investimento ponderato diventa sempre più grande, proprio a causa dell’incertezza legata allo sviluppo tecnologico.
In questi settori, un caso particolare è rappresentato dalle aziende che nascono dalla ricerca scientifica, gli spin-off accademici: si tratta di aziende che perseguono obiettivi commerciali e di equilibrio economico, ma molto spesso anche obiettivi di finanziamento delle attività di ricerca dei loro fondatori, di trasferimento delle tecnologie all’industria, di creazione di opportunità di impiego per i ricercatori precari. Per un investitore esterno è molto difficile comprendere quali a obiettivi e, messi di fronte a tanta incertezza, i potenziali investitori potrebbero desistere dal finanziare l’impresa.
La “Teoria dei segnali” –formulata negli Anni ’70 dall’economista Michael Spence– suggerisce che un decisore che ha a disposizione poche informazioni sulle effettive qualità dell’oggetto della decisione, si baserà sulla valutazione di segnali, ossia di caratteristiche osservabili che esprimono indirettamente tali qualità. Al crescere dell’incertezza, la decisione si baserà sempre di più sull’interpretazione dei segnali, piuttosto che sul tentativo di valutare la qualità intrinseca dell’oggetto. In particolare, il decisore si concentrerà su caratteristiche che sono costose da ottenere, difficilmente manipolabili e che sono correlate alle qualità intrinseche sottostanti. Secondo questa teoria, quindi, nel valutare una nuova iniziativa imprenditoriale nei settori ad alta tecnologia, un investitore dovrebbe concentrarsi non solo sull’analisi del piano imprenditoriale o delle competenze portate dai fondatori, ma dovrebbe anche ricercare di alcuni attributi che rivelino le prospettive di redditività del progetto.
Quali segnali contano per il finanziamento delle imprese spin-off?
Negli spin-off accademici –che, come abbiamo visto, hanno un profilo molto particolare in termini di obiettivi e composizione del team imprenditoriale– quali segnali sono più considerati dagli investitori nella decisione se finanziare o meno l’iniziativa? La letteratura ci dà alcune utili indicazioni.
Innanzitutto, uno studio dell’Università di Bologna coordinato da Federico Munari mostra che l’entrata nel capitale sociale dell’università a cui appartengono i ricercatori facilita la successiva acquisizione di altri finanziamenti, proprio in ragione della “garanzia di qualità” offerta dall’università: l’università impegna delle risorse finanziarie e soprattutto la propria reputazione associando il proprio nome allo spin-off ed è disposta a sopportare questo costo e a mandare questo segnale solo se è convinta della bontà dell’iniziativa. I segnali mandati dall’università dei ricercatori possono assumere anche forme più sofisticate. I colleghi Gubitta, Tognazzo e Destro dell’Università di Padova hanno scoperto che gli spin-off che hanno ricevuto fondi pubblici, attraverso vari tipi di linee di finanziamento, hanno una maggiore probabilità di ottenere capitali dai venture capitalist. I fondi pubblici, infatti, irrobustiscono la struttura finanziaria dell’azienda, ma soprattutto vengono assegnati dagli uffici di trasferimento tecnologico delle università, che quindi mandano ai potenziali finanziatori un segnale positivo sulla qualità del progetto imprenditoriale.
Ma negli spin-off accademici non è solo la presenza dell’università ad avere un valore segnaletico relativamente alla qualità dell’iniziativa. Un recente lavoro di Giancarlo Lauto e Francesca Visintin dell’Università di Udine, con la partecipazione di Elisa Salvador di ESSCA School of Management, pubblicato sulla rivista Research Policy, ha considerato anche altre caratteristiche della proprietà degli spin-off: le competenze tecnologiche dei fondatori, l’ammontare del capitale sociale detenuto da professori ordinari e da donne. L’analisi svolta su un campione di più di 500 spin-off italiani al momento della fondazione ha evidenziato che il finanziamento raccolto dall’azienda è influenzato poco dalle competenze tecnologiche dei fondatori e molto da chi sono gli imprenditori. Sulla base di sofisticati calcoli statistici, è possibile stimare che in assenza di investimenti da parte di professori ordinari e dell’università, l’investimento che uno spin-off può aspettarsi di raccogliere da privati è di circa 4.900 euro se il team imprenditoriale è composto solo da maschi e di soli 2.330 euro se è composto solo da femmine: meno della metà del finanziamento atteso da un’impresa solo maschile. Il finanziamento atteso si colloca a livelli intermedi in funzione della presenza di donne nel team imprenditoriali. In altri termini: basta che ci sia una donna azionista (che, si badi bene, contribuisce all’azienda portando dei capitali, al pari dei soci maschi) che lo spin-off vede affievolirsi le possibilità di raccogliere sul mercato ulteriori risorse finanziarie. Lo studio rivela anche delle modalità con cui le imprenditrici possono cercare di mitigare questa penalizzazione: la strategia è quella di cercare dei partner rispettati che mandino dei segnali positivi ai potenziali investitori. Infatti, se nella compagine societaria troviamo anche l’università e dei professori ordinari, l’effetto negativo della proprietà femminile diventa più debole (anzi, diventa sempre più debole quanto maggiore è l’investimento di questi autorevoli azionisti). Cosa significa questo risultato? Il messaggio è chiaro: se delle imprenditrici vogliono ottenere dei capitali per il loro spin-off, devono innanzitutto convincere della bontà del progetto dei partner che il mercato riconosce come affidabili e ottenere il loro coinvolgimento diretto nell’impresa. Gli investitori leggono l’informazione in questo modo: nonostante la presenza di donne nel team, gli attori più autorevoli nel settore hanno valutato la tecnologia e il modello di business così positivamente da assumersi il rischio di un’impresa non solo maschile; la qualità intrinseca del progetto deve quindi meritare un’altissima considerazione.
Per gli spin-off accademici guidati da donne, stabilire delle connessioni stabili con soggetti autorevoli è fondamentale anche per attivare anche dei percorsi di crescita profittevole, come mostra un recente studio di Crivera e Meoli. Lo studio dimostra che gli spin-off a guida femminile al cui capitale partecipa l’università di origine crescono di più di quelli che non possono contare su questo socio fondamentale che porta non solo risorse finanziarie ma soprattutto relazioni, informazioni, modelli di comportamento e legittimazione. È infatti la contiguità con il sistema scientifico che spiega come mai gli spin-off a guida femminile (partecipati o meno dall’università) crescano di più delle comuni imprese ad alta tecnologia. È molto importante evidenziare che l’università svolge un ruolo più sottile ma più incisivo, che va ben oltre la fornitura di risorse tangibili: in generale, le imprese a guida femminile presentano tassi di crescita inferiori alla media, ma questo sembra non valere sempre negli spin-off.
Adottare delle misure contro una pervasiva disparità di trattamento
I risultati di queste ricerche non possono lasciare indifferenti, soprattutto perché si riferiscono allo studio di imprese nate dalla ricerca scientifica. L’imprenditorialità accademica si caratterizza per essere fondate sulla valorizzazione di avanzamenti delle conoscenze scientifiche e su nuove tecnologie, che dovrebbero essere “neutre” dal punto di vista del genere degli inventori: sarebbe legittimo attendersi che l’attenzione degli investitori sia catturata da aspetti tecnici, piuttosto che dalle caratteristiche di chi propone l’idea. Inoltre, tutti gli imprenditori accademici sono una “specie” molto particolare nel vasto panorama dell’imprenditorialità, in quanto spiccano per avere un profilo poco “imprenditoriale”: spesso sono interessati più alla perfezione della tecnologia che alla redditività dell’azienda; raramente hanno fatto esperienze lunghe e intense nelle aziende e, quindi, hanno una rete di relazioni poco sviluppata con potenziali partner e finanziatori; provengono da un ambiente in cui le decisioni vengono prese attraverso tortuosi processi di bilanciamento del potere e degli interessi, piuttosto che con la rapidità tipica delle imprese. Poiché l’elenco dei limiti degli imprenditori accademici potrebbe continuare a lungo, sarebbe possibile attendersi che la centralità della tecnologia e questi limiti generali prevalgano sul pregiudizio di genere. Invece, tanto l’analisi di Micozzi e colleghi, che prendeva come riferimento il periodo 2002-2007, quanto gli studi più recenti mostrano che non è così.
Ciò che i dati suggeriscono è che in un campo organizzativo relativamente nuovo, come quello dell’imprenditorialità accademica, ritroviamo i pregiudizi e gli ostacoli legati al genere che già affliggono i mondi dell’imprenditorialità e dell’accademia. Il maschilismo, infatti, è ben documentato anche nel sistema scientifico, come mostra in modo semplice ed efficace il fatto che ritroviamo una quota sempre più piccola di donne man mano che dalle laureate si sale su, fino alle rettrici. Ne consegue che le donne hanno minori possibilità di sviluppare utili competenze di gestione e acquisire le informazioni e le competenze che si ottengono operando “ai confini contingenti” tra l’organizzazione e il suo ambiente.
Sebbene sia velleitario pensare di cambiare processi sociali così profondamente radicati in poco tempo, le università possono fare molto per combattere delle disparità di trattamento che –ricordiamolo– pregiudicano i processi di produzione di conoscenza e di diffusione dell’innovazione. Uno strumento particolarmente potente è rappresentato dalla partecipazione al capitale sociale degli spin-off: oltre a fornire delle risorse finanziarie, la presenza dell’università legittima l’azienda e l’effetto di questa legittimazione è tanto più forte quanto più tra i fondatori dell’azienda vi sono persone che appartengono a gruppi sociali “marginali”. Questo finanziamento non dovrebbe avvenire applicando delle “quote rosa”, ossia riservando una porzione di risorse al supporto di spin-off femminile: tale approccio manderebbe il segnale che l’impresa è stata supportata indipendentemente dai propri meriti. Invece, appare più utile concentrare gli sforzi di sviluppo di competenze imprenditoriali e su questa specifica porzione della popolazione accademica e, contemporaneamente, depotenziare gli elementi di discriminazione latente, ad esempio prevedendo che le decisioni sul finanziamento degli spin-off avvenga quanto più possibile rendendo anonima l’identità o almeno il genere dei membri del team imprenditoriali.
Ma anche le scienziate possono fare molto per incoraggiare l’imprenditorialità accademica: innanzitutto, possono svolgere con sempre maggiore intensità il ruolo di mentore, stimolando la carriera scientifica e imprenditoriale di altre giovani donne. A questo proposito, uno studio di Muscio e Vallanti pubblicato su Plos One ha messo in luce che i dottorandi in ambito tecnico-scientifico percepiscono chiaramente una disparità nel modo in cui le opportunità dell’imprenditorialità accademica vengono prospettate a maschi e femmine e che queste disparità possono deprimere l’intenzione di avviare un’impresa. Ancora, le scienziate hanno la possibilità di muoversi strategicamente per ottenere il supporto degli attori più autorevoli nel loro campo organizzativo. Come abbiamo visto, avere nel team imprenditoriale un professore ordinario (tipicamente maschio) è un segnale di solidità dell’iniziativa; ma l’impatto quantitativamente più forte è dato dal supporto dell’istituzione università. Questo risultato ci permette di guardare al fenomeno con cauto ottimismo, dal momento che gli atenei stanno diventando sempre più sensibili ad attuare delle politiche di genere che siano efficaci e non restino lettera morta. Questi interventi dovrebbero riguardare anche il personale degli uffici di trasferimento tecnologico: nel mondo, negli uffici di trasferimento tecnologico le donne sono ancora in minoranza, ma anche in questo caso ci sono dinamiche di cambiamento.
Queste evidenze dimostrano ancora una volta che l’innovazione non è ormai più il frutto del genio di un singolo, piuttosto il risultato del gioco di squadra; ma nel caso dell’imprenditorialità accademica femminile è impensabile pensare di ballare da sole.
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