Un recente articolo di Valdés e Barley (2016) discute del ruolo della formazione nelle organizzazioni postindustriali, evidenziando come essa possa essere motore del cambiamento, ma spesso anche punto di rottura degli equilibri tra la sfera professionale e quella familiare dei lavoratori, con significativi riflessi sul benessere organizzativo e sulle performance.
Introduzione
Un recente articolo di Gonzalo Valdés (Center of Work Technology and Organization, Stanford University) e Sthefen Barley (University of California) (Valdés G., Barley S. R., 2016, “Be Careful What You Wish For: The Learnign Imperative in Postindustrial Work”, Work and Occupation, vol. 43, 4, SAGE, 466-501) discute del ruolo della formazione nelle moderne organizzazioni aziendali. Il lavoro attinge alla grande mole di informazioni resasi disponibile con la pubblicazione della General Social Survey 2014, un sondaggio svolto ogni due anni, a partire dal 1972, negli Stati Uniti a livello nazionale dal National Opinion Research Center (NORC), che fotografa la condizione e le opinioni delle famiglie americane, con approfondimenti in più specifici moduli di indagine come quello sulla “Qualità della vita lavorativa”. Lo studio si fonda su un set di dati provenienti da 5.460 intervistati di età compresa tra 18 e 65 anni.
Dall’indagine emergono alcune evidenze che spingono ad interpretare in modo più ricco ed accurato il ruolo che la formazione assolve oggi nei contesti aziendali più evoluti, e in particolare in quelli definiti postindustriali: motore del cambiamento strategico ed organizzativo, ma spesso anche punto di rottura degli equilibri tra la sfera professionale e quella familiare dei lavoratori, con significativi riflessi sul benessere organizzativo e sulle performance.
Benessere organizzativo e soddisfazione
L’influenza reciproca tra la sfera privata e familiare e quella pubblica e lavorativa di un individuo e l’impatto sui suoi comportamenti e sulle sue performance rappresenta un oggetto di indagine largamente riconosciuto nel dibattito scientifico.
Il mercato del lavoro richiede alle risorse umane sempre maggiore flessibilità, mobilità e capacità di assumersi dei rischi. Le diverse esigenze e prospettive di crescita, tuttavia, possono facilitare o ostacolare i risultati e la carriera di un lavoratore nel corso della sua vita.
Nelle formulazioni teoriche più evolute, che adottano come focus d’analisi i comportamenti organizzativi, i due ambiti (familiare e lavorativo) appaiono fortemente legati tra loro. È necessario capire quali siano le condizioni che rendono la loro coesistenza maggiormente vantaggiosa per i lavoratori e per le organizzazioni, affinché si possano produrre, attraverso azioni mirate di sviluppo del personale, proficui risultati sul benessere organizzativo e quindi sul successo e la sopravvivenza dell’azienda.
Con il termine “benessere organizzativo” si intende la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. Tale capacità è, infatti, associata a quella di promuovere alti livelli di efficacia, efficienza e sviluppo delle proprie risorse umane e, a cascata, della propria organizzazione.
Il concetto di benessere organizzativo si riconduce alle caratteristiche intrinseche delle mansioni, ma anche al modo in cui le persone vivono la relazione con l’organizzazione in cui lavorano: tanto più una persona sente di appartenere all’organizzazione (condividendo i valori, le pratiche, i linguaggi), tanto più trova motivazione nel suo lavoro e tende ad allineare i propri comportamenti a quelli attesi dal management e a rendersi disponibile al cambiamento.
Le indagini per rilevare lo stato di benessere dei lavoratori (Indagini di clima) sono finalizzate, non solo a una ricognizione dello stato di salute dell’organizzazione, ma anche a supportare l’implementazione di interventi volti al miglioramento del benessere dei lavoratori e, quindi, all’incremento della loro produttività.
La soddisfazione lavorativa rappresenta una risposta emotiva oppure affettiva che una persona ha nei confronti del proprio lavoro, espressione manifesta del livello del benessere percepito da un individuo; evidentemente essa non identifica un concetto unitario ed univoco, perché un lavoratore può essere soddisfatto di un aspetto del proprio lavoro ma insoddisfatto per altri.
E’ possibile distinguere cinque variabili che permettono di descrivere la soddisfazione associata allo svolgimento di un task o di un incarico: la soddisfazione dei bisogni, cioè un insieme di fattori che permettono il raggiungimento di uno scopo; le discrepanze tra le aspettative individuali e i risultati conseguiti; la realizzazione dei valori che si intende affermare attraverso le proprie azioni; l’equità che un lavoratore percepisce in relazione allo scambio che si istaura tra sé e l’organizzazione e nel trattamento degli altri colleghi; la predisposizione personale, ossia la valorizzazione attraverso il lavoro di tratti personali, caratteriali del lavoratore.
Gli specialisti della gestione delle risorse umane hanno interpretato in modo sempre più oculato queste evidenze scientifiche, orientando le loro politiche verso un più generale sforzo di “ascolto” e di accoglienza delle istanze dei propri lavoratori, per incidere positivamente sui risultati aziendali, ma anche per manifestare concretamente l’impegno nella cura costante del proprio capitale umano. In particolare, negli approcci più moderni alla gestione delle risorse umane la formazione è intesa come un ambito di intervento privilegiato in cui più proficuamente operare, sia per lo sviluppo delle competenze necessarie allo svolgimento dei core process, che per la cura dei talenti e in generale delle proprie risorse umane.
Conoscenza, apprendimento e cambiamento organizzativo
Numerosi sono i contributi scientifici e divulgativi che dimostrano quanto il cambiamento in un’organizzazione sia possibile solo se accompagnato da un processo di coinvolgimento e responsabilizzazione delle sue risorse umane verso l’apprendimento di nuovi contenuti.
Acquisire una conoscenza, modificare un atteggiamento o sviluppare un’abilità sono elementi propedeutici ad un processo di cambiamento. I temi della conoscenza e della cultura organizzativa diventano dimensioni cruciali per dare sostenibilità alle trasformazioni introdotte ed è necessario, quindi, dare vita a nuove forme e percorsi di apprendimento, promuovendo la partecipazione dei soggetti intorno al cambiamento.
Gli economisti Bengt-Åke Lundvall e Björn Johnson (1994) evidenziano quattro dimensioni fondanti il concetto di conoscenza:
- know what (sapere che cosa): riguarda il possesso delle informazioni ovvero la conoscenza dei fatti; è l’informazione che può essere trasmessa con i dati e diffusa con l’ausilio delle banche dati;
- know why (sapere perché): riguarda i principi e le leggi che governano la natura, la mente umana e la società. È la conoscenza teorica che è alla base della ricerca scientifica e tecnologica. Essa permette di innovare i processi di produzione e i prodotti che ne derivano e riduce la frequenza degli errori di procedura;
- know how (sapere come): è legato soprattutto all’esperienza operativa individuale e condivisa dei lavoratori, in particolare nei diversi gruppi accomunati da pratiche omogenee; costituisce il capitale umano di una impresa e delle diverse reti sociali;
- know who (sapere chi): permette di individuare le persone che sanno fare talune cose e che sanno trovare soluzione a problemi inediti e complessi. Richiede di avere abilità relazionali, di cooperazione, di comunicazione con soggetti diversi e con esperti di varie aree. Questo elemento della conoscenza permette di costruire reti e alimenta la formazione di capitale sociale, in una prospettiva di larga e intensa interattività.
Queste quattro forme di conoscenza possono essere apprese con modalità diverse: know what e know why si acquisiscono con la lettura di libri, frequentando corsi, lezioni, seminari, procurandosi l’accesso a banche dati; il know how e il know who si apprendono soprattutto con l’esperienza operativa e sono difficilmente trasferibili agli altri seguendo i tradizionali canali di diffusione della conoscenza. Essi costituiscono due elementi della conoscenza cosiddetta tacita (tacit knowledge), difficile da codificare e da misurare. Il know how è una conoscenza che si apprende con la pratica sociale, con l’azione quotidiana nei posti di lavoro e con la partecipazione attiva nei diversi contesti sociali: essa conferisce autorevolezza alle persone nello svolgimento delle proprie mansioni. Il know who è una conoscenza particolare che si acquisisce con la pratica sociale e in ambienti formativi specializzati, e cresce man mano attraverso le relazioni con i colleghi, i clienti, i fornitori, le istituzioni e nell’interazione con i diversi gruppi sociali.
La formazione in tutte le sue forme, oculatamente calibrate rispetto a specifici fabbisogni di apprendimento, costituisce uno degli strumenti privilegiati per promuovere e guidare il cambiamento, il quale a sua volta produce delle modifiche nell’individuo e nel contesto in cui opera.
L’apprendimento può essere considerato come una leva strategica del cambiamento in quanto ogni intervento di formazione può e deve essere strettamente collegato ai piani e programmi dell’impresa, riflettendone le concrete problematiche di business che i manager e gli addetti devono affrontare; il management di linea si fa carico della formazione come una sua responsabilità primaria e molto spesso non delegabile, se non da un punto di vista metodologico, agli specialisti di questa disciplina. Per questi aspetti evidenziati si sviluppa una forte osmosi tra formazione e gestione di business, tanto che ad un certo punto i due processi in certe prospettive di analisi tendono a coincidere.
La diffusione di competenze tecniche e comportamentali sono determinanti e indispensabili per sviluppare nuove visioni strategiche e allo stesso tempo costituiscono l’espressione più consistente della loro attuazione.
L’organizzazione ha un proprio ciclo di vita e in risposta a tali esigenze il fenomeno formativo assume diverse connotazioni. Esistono diversi interventi formativi attuabili in azienda e quindi in ragione della tipologia di contenuti e dei soggetti a cui sono rivolti. La prima classificazione della formazione viene fatta in base ai contenuti e distingue l’addestramento dalla formazione vera e propria. Nell’addestramento gli obiettivi sono orientati all’acquisizione di abilità operative e le performance attese riguardano la capacità di eseguire in modo corretto le sequenze di azioni previste nel programma di addestramento. La formazione vera e propria, invece, consiste in un processo di apprendimento che persegue l’obiettivo dello sviluppo e della valorizzazione delle competenze.
Il legame profondo tra apprendimento, soddisfazione e cambiamento spiega agevolmente perché le organizzazioni compiono, in linea generale, sforzi significativi per gestire lo sviluppo delle competenze distintive dei propri lavoratori. Meno evidente è invece il rischio insito nella stessa leva della formazione che, in particolari condizioni e per particolari mansioni (tipiche delle moderne economie della conoscenza) può produrre anche effetti distorsivi che si traducono in una maggiore esposizione del lavoratore al conflitto tra la sua sfera lavorativa e quella familiare.
Conflitto lavoro-famiglia e ruolo dell’apprendimento nell’economia della conoscenza
L’apprendimento sul posto di lavoro è visto, in generale, come un beneficio per il lavoratore. Le opportunità di formazione e di addestramento, e in generale l’esposizione a esperienze lavorative importanti che possono presentarsi nel proprio ambito lavorativo, contribuiscono alla capacità delle persone di crescere come individui. La soddisfazione sul luogo di lavoro viene rafforzata, inoltre, quando le organizzazioni creano un clima positivo per l’apprendimento e apprezzano in modo manifesto la disponibilità del lavoratore a partecipare attivamente ad esso. Da questa prospettiva ci si aspetterebbe che l’apprendimento sia sempre una risorsa in grado di attenuare o contribuire a gestire il conflitto tra lavoro e famiglia; contribuisce ad un senso di crescita personale e potenzialmente mette le persone in uno stato d’animo migliore e potenzia la loro consapevolezza e la loro autostima. In realtà, la richiesta pressante da parte dell’organizzazione o il crescente fabbisogno percepito pressoché spontaneamente dal lavoratore, in alcune particolari condizioni può innescare un circuito preoccupante, che può determinare l’acuirsi dei motivi di conflitto tra lavoro e famiglia.
Valdés e Barley (2016) propongono un’analisi che prende le mosse dalla considerazione che il conflitto tra lavoro e famiglia è diventato un argomento diffuso man mano che si affermava la presenza delle donne nel mercato del lavoro, che le famiglie si strutturavano su coppie a doppio reddito e che si sviluppavano e si affermavano mansioni di tipo professionale, tecnico e gestionale (rispetto a quello operaio, amministrativo e artigianale). In sintesi, gli studi richiamati dagli autori evidenziano una stretta relazione tra la diffusione del tema del conflitto lavoro-famiglia e l’affermarsi della cosiddetta “economia della conoscenza”; una relazione che spinge a domandarsi se esista più in profondità un legame tra caratteristiche distintive del lavoro postindustriale e frequenza e intensità di tale conflitto.
Ad ogni tipologia di mansione o incarico gli studiosi dell’organizzazione associano fattori che tendono ad aggravare la tendenza del lavoro a sconfinare nella vita familiare; il sovraccarico di responsabilità, i conflitti interni al ruolo, la durata del lavoro e la pressione delle scadenze, la precarietà, i turni irregolari, gli straordinari non pagati, la presenza di impegni richiesti al di fuori di fuori del normale orario di lavoro e l’uso delle tecnologie dell’informazione, in particolare e-mail e teleconferenze.
Accanto ad essi, per le stesse mansioni o incarichi è possibile individuare quei fattori che tendono ad aumentare il controllo sul proprio lavoro, facilitando la conciliazione vita-lavoro: la capacità di definire in modo autonomo i propri obiettivi o programmi di lavoro, l’autorità e la delega di potere decisionale, l’autonomia.
Una analisi più approfondita evidenzia, tuttavia, che i confini tra fattori che accentuano e fattori che attenuano il potenziale di conflitto vita-lavoro non sempre sono di semplice individuazione e univocamente definibili. Variabili quali la responsabilità e l’autonomia decisionale, ad esempio possono esse fonte di soddisfazione e di capacità di controllo, ma anche di stress.
L’indagine sulle famiglie statunitensi citate nell’articolo di Valdés e Barley del 2016 sembra evidenziare che i lavoratori postindustriali potrebbero essere particolarmente suscettibili al conflitto tra lavoro e vita familiare, a causa di particolari condizioni lavorative tipiche dell’economia della conoscenza.
In primo luogo, alle mansioni di tipo manageriale, tecnico o professionale, tipiche dell’economia della conoscenza, è più comunemente associato un approccio al lavoro per obiettivi e per progetti. Esso implica l’abbandono progressivo a modelli organizzativi incentrati su standard e procedure e il ricorso continuo a significativi gradi di autonomia gestionale e decentramento del potere decisionale e a meccanismi di coordinamento delle attività ispirati alla logica dell’adattamento reciproco. Al dominio della regolarità e della stabilità si sostituisce quello dell’organizzazione “emergente” e flessibile, rispetto a set di obiettivi perseguiti in parallelo e spesso rinegoziati e riqualificati dal management. Conseguenze inevitabili appaiono così la progressiva abitudine e disponibilità ad orari variabili di lavoro, al lavoro svolto a casa, al sovraccarico di responsabilità e alla pressione della pluralità degli impegni.
Questa condizione sembra accentuarsi se si considera la sempre più naturale tendenza delle organizzazioni in ogni settore a lavorare (anche) per progetti, soprattutto per sviluppare l’innovazione o a chiedere ai lavoratori sempre maggiori sforzi di flessibilità e di creatività nell’esecuzione dei propri compiti. In questi casi spesso il lavoro di diverse unità e team confluisce verso target complessi, con requisiti specifici negoziati più volte con il cliente e con forti problematiche di rispetto dei tempi e dei budget. La pressione verso i risultati sembra naturale ed inevitabile, ma essa si accentua se si considera che i progetti vengono avviati spesso (o meglio sempre!) non disponendo di tutte le informazioni e le risorse necessarie. Continui approfondimenti all’interno del project team richiedono particolari sforzi di coordinamento e di comunicazione, nonché di capacità di auto-motivazione e di auto-responsabilizzazione per evitare che il progetto fallisca.
Dal lavoro condotto con rigoroso approccio quantitativo da Valdés e Barley (2016) emerge, dunque, una considerazione che può integrare o ribaltare la discussione sul perché per i lavoratori delle organizzazioni postindustriali il rischio di conflitto vita familiare-vita lavorativa sia tendenzialmente più alto: la continua necessità di imparare per coloro che svolgono tipiche mansioni di tipo manageriale, tecnico o professionale può rappresentare il principale fattore di squilibrio e di ostacolo alla conciliazione vita-lavoro.
L’apprendimento agisce sia direttamente e indirettamente sul potenziale di conflitto percepito dal lavoratore. La necessità di imparare continuamente per rispettare standard e obiettivi lavorativi sempre più complessi e vari contribuisce direttamente ad accentuare il conflitto tra lavoro e famiglia, perché si riversa sulla lunghezza dell’impegno lavorativo. L’apprendimento, tuttavia, aumenta il conflitto lavoro-famiglia anche indirettamente, portando le persone a lavorare più ore e più giorni per far fronte allo stress che essi sperimentano per un lavoro svolto con pochi punti di riferimento stabili e con elevati gradi di autonomia.
Quando il fabbisogno di formazione e le richieste di apprendimento raggiungono soglie particolarmente elevate gli effetti sulla capacità del lavoratore di conciliare la sua vita lavorativa con le esigenze personali e della sua famiglia cessano di essere positivi.
Anche qui conta evidenziare come la problematica in esame venga enfatizzata nel caso di lavoro per progetti. Il progetto infatti rischia di far aumentare la domanda di apprendimento a carico dei lavoratori, perché i progetti di solito si concentrano su prodotti o obiettivi unici e una tantum, e spesso richiedono un coordinamento di persone che non hanno lavorato insieme precedentemente e che devono imparare rapidamente a condividere alcune routine.
Inoltre quando problemi non previsti o inefficienze minacciano il conseguimento dei target del progetto crescono le pressioni sui lavoratori ad intensificare il loro apprendimento, trasformando esso in un onere il cui costo è sostenuto dal lavoratore stesso, ma anche dalla sua famiglia.
In altre situazioni, inoltre, il potenziale di conflitto-vita lavorativa-vita familiare è influenzato dal cosiddetto “stress da status più elevato,” osservato da Schieman e Glavin (2011). Per far fronte alle continue richieste rivolte a posizioni autorevoli e apicali e per non tradire le aspettative di colleghi e dei superiori, le persone devono accettare di intensificare i loro sforzi di apprendimento.
Nelle condizioni descritte, molto comuni per le categorie professionali dei manager e degli specialisti nelle organizzazioni post-industriali i benefici dell’apprendimento possono essere anche totalmente assorbiti da quelli negativi, lasciando solo il lavoratore dinanzi alla complessità di un conflitto tra due dimensioni fondanti della sua esistenza (il lavoro e gli affetti familiari)
A fronte di questo rischio manager e ricercatori devono anche prendere in considerazione ciò che i sistemi organizzativi potrebbero fornire come supporto e scudo alla eccessiva e costante pressione all’apprendimento di alcune figure di lavoratori. Come ha notato Perlow (1999), soluzioni potrebbero essere intraviste nel ricompensare i lavoratori per lo sforzo che compiono di aiuto reciproco nella risoluzione di problemi o nel definire “spazi temporali” dedicati all’approfondimento e alla formazione coerenti con i loro bisogni, oltre che nel mitigare i diffusi errori di valutazione delle tempistiche dei progetti e dei programmi di lavoro.
BIBLIOGRAFIA
Lundvall B., Johnson B. (1994) “The learning economy”, Journal of Industry Studies 1 (2), 23-42.
Perlow, L. A. (1999) “The time famine: Toward a sociology of work time” Administrative Science Quarterly, 44(1), 57–81.
Schieman, S., Glavin, P. (2011) “Education and work-family conflict: Explanations, contingencies and mental health consequences, “Social Forces”, 89(4), 1341–1362.
Valdés G., Barley S. R. (2016) “Be Careful What You Wish For: The Learning Imperative in Postindustrial Work”, Work and Occupation, vol. 43, 4, SAGE, 466-501.