Neurodiversità: una sfida per lo HR management?

La comparsa e la rapida diffusione degli studi di matrice organizzativa sulla neurodiversità, oltre a stimolare l’esplorazione di nuovi sentieri di ricerca, offre l’occasione per favorire un nuovo approccio alla diversità. All’orizzonte si profila una riflessione teorica, ma soprattutto una sfida cruciale per manager e practitioners di HR management.

Introduzione

Il tema della neurodiversità non rappresenta una novità nella letteratura scientifica. Compare negli anni ’90, quando il termine è stato coniato per raggruppare una serie di condizioni che erano già da diverso tempo oggetto di studio della medicina. Gli anni a cavallo del cambio di secolo sono caratterizzati da un confronto, talvolta acceso, tra due prospettive: quella medica e quella psico-sociale, mentre l’argomento in questione desta scarso se non nullo interesse fra gli studiosi di management e organizzazione, a dispetto del successo del filone sul diversity management, che però sceglie di affrontare anzitutto le criticità derivanti da differenze di genere, razziali, culturali.

Neanche le recenti ‘agende’ di sviluppo del diversity management (Roberson, 2019; Köllen, 2021) contemplano la questione della neurodiversità, dando l’idea di uno sviluppo parallelo rispetto a questa. Se si eccettuano pochi e isolati pionieristici studi, tra cui quello di Richards (2012), quest’ultima conosce un’improvvisa notorietà nella seconda metà del decennio scorso, anche grazie alla pubblicazione, nel 2018, del rapporto CIPD “Neurodiversity at work”. In realtà già l’anno precedente compare uno special issue del Journal of Business Management, a cui fa seguito un secondo nel 2019, edito dal Journal of Management & Organization, mentre un terzo, proposto da Human Resource Management, è in fase di realizzazione. A queste ricerche di carattere seminale va riconosciuto non solo il merito di aver progressivamente diffuso consapevolezza e conoscenza del fenomeno della neurodiversità, ma anche quello di aver instillato dubbi sull’idea della neurotipicità come esclusivo modello di riferimento per la progettazione organizzativa e lo HR management. Possiamo essere ragionevolmente certi che questa visione, unita alla mancanza di conoscenza sul fenomeno in questione, abbia a lungo condizionato negativamente l’elaborazione e la qualità delle pratiche organizzative (Kahn et al., 2022; Praslova, 2021).

Negli ultimi 2-3 anni si è assistito ad una vera e propria fioritura di ricerche che mettono in relazione le molteplici sfaccettature della neurodiversità con l’organizzazione del lavoro e le politiche di HR management. In quello che a tutti gli effetti sembra affermarsi come filone autonomo della letteratura manageriale, si intravvedono significative opportunità di ricerca per la comunità degli studiosi italiani di organizzazione. La crescente diffusione degli studi sulla neurodiversità in relazione a organizzazione e risorse umane può essere spiegata come il risultato di pressioni di gruppi sociali e di spinte convergenti di diverso tipo, orientate a:

  • promuovere interventi del legislatore per prevenire comportamenti discriminatori;
  • enfatizzare come il tasso di disoccupazione sia tre volte più alto per le persone “neuroatipiche” rispetto a quello di persone con disabilità fisiche e visibili (Kahn et al., 2022);
  • sviluppare la consapevolezza del fatto che uno schema neurale e di pensiero atipici possano rappresentare un valore aggiunto per le aziende.

In linea con la finalità della rivista, l’obiettivo di questo contributo è anzitutto quello di offrire una sintesi della letteratura emergente sul rapporto tra neurodiversità e lavoro, individuando altresì, alla luce di questa, eventuali research gap e possibili temi di ricerca. Un secondo obiettivo è quello di fornire indicazioni a manager e specialisti delle risorse umane, a partire da luci e ombre osservabili nelle pur limitate evidenze rintracciabili nella letteratura emergente. Infine, un ultimo obiettivo, decisamente più ambizioso, è quello di stimolare una riflessione che, partendo dagli stessi significati di neurodiversità e dagli approcci finora proposti, favorisca l’emergere di differenti prospettive sulla “gestione della diversità”. In definitiva, suggeriamo come le ricerche su neurodiversità e risorse umane possano rappresentare la chiave di accesso ad una rinnovata cultura della diversità.

Neurodiversità: elogio della varietà

Quello delle neurodiversità è un terreno tanto articolato quanto scivoloso; la definizione del fenomeno è di per sé piuttosto complessa (Dwyer, 2022) ed evidenzia la difficoltà di darne un’immagine univoca o sceglierne una tra le tante esistenti (Singer, 2017). Indipendentemente dal fatto che si scelga di parlare di neurodiversità, neurodivergenza, sviluppo neurale atipico, neuroatipicità, ecc. e di quale valenza si voglia attribuire al termine ritenuto preferibile, ciò che appare chiaro è che si tratti di qualcosa che dalla norma, anche se pur solo statistica, si discosta: un dato tanto naturale quanto divisivo.

La narrazione delle neurodiversità proposta dal mainstream da un lato enfatizza, in modo più o meno marcato, la dimensione patologica, dall’altro attua un’azione semplificatrice, proponendo talvolta categorizzazioni sommarie ed elaborazioni di dati che lo sono altrettanto (Brennan, 2023). Le categorie della diversità si sono ampliate molto nel corso del tempo. Questa tendenza potrebbe continuare ad espandersi all’infinito, considerando che nel mettere a confronto due persone è sempre possibile individuare ulteriori elementi di differenza che, combinandosi variamente tra di loro, moltiplicano le categorie di diversità (Köllen, 2021; Donadio, 2023) costringendole in nuove gerarchie di priorità che possono addirittura generare ulteriori frontiere di discriminazione.

In realtà l’universo della neurodiversità è molto più ampio di quello presentato finora dalla narrazione comune. Con questo termine facciamo riferimento non ad un solo mondo, ma ad un numero indefinito di mondi, ognuno dei quali a sua volta appare caratterizzato da un’ampia varietà (Cotzer, 2016). Dunque, se da una parte è comprensibile la necessità della scienza, in primo luogo della medicina, di individuare caratteristiche comuni per poter affrontare e dare risposte a situazioni problematiche, dall’altro resta fondamentale mantenere il focus sull’unicità di ogni individuo.

Le definizioni via via proposte in letteratura sono tendenzialmente concordi nel considerare espressioni della neurodiversità non solo l’autismo, sul quale si focalizzano molti degli studi, ma anche il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), la sindrome di Tourette, la dislessia, la discalculia e altri disturbi dell’apprendimento, oltre al bipolarismo. Secondo Judy Singer (2017) per parlare di neurodiversità è opportuno fare riferimento alla biodiversità in natura e dunque considerare le sue manifestazioni come normali varianti dell’essere umano. Il concetto proposto da Singer ha il vantaggio di superare il concetto di “divergenza dalla norma”, dietro il quale incombe il rischio di stigmatizzare la minoranza che dalla norma si discosta, ma anche l’equivoco fondamentale secondo cui un funzionamento diverso viene inteso come disturbo neurologico (Acanfora, 2022).

Il rischio di essere vittima di stigmatizzazioni legate a stereotipi e all’attribuzione di “etichette” sociali colpisce la neurodiversità più di altre “divergenze dalla norma”. Questa, infatti, essendo poco conosciuta, può indurre gli altri a non considerarla o a dubitare della sua esistenza. La persona si trova così ad affrontare da sola una situazione paradossale, in cui le viene richiesto di raggiungere, con i medesimi strumenti, gli stessi obiettivi fissati per i “neurotipici”, quindi con un impegno e dispendio di energie psico-fisiche considerevolmente superiori, partendo da una condizione di svantaggio che non viene in alcun modo riconosciuta né tutelata.

Il fatto che la neurodiversità non sia sempre immediatamente riconoscibile all’occhio “profano”, da un lato offre la possibilità di scegliere se dichiarare o meno la propria condizione e i vissuti ad essa connessi, sottraendosi al rischio di discriminazioni, stigma, ma anche pietismo; dall’altro però non facilita gli altri nella comprensione, inducendoli a scambiarla per pigrizia, mancanza di impegno o superficialità e dunque a dubitare della buonafede della persona. Il rischio che questo si traduca in giudizio negativo da parte di chi non crede a delle difficoltà reali diventa dunque concreto. Sono molte le persone che si costringono ad un faticosissimo lavoro su sé stesse per mascherare (masking) la propria condizione, cercando di farla passare il più possibile inosservata aderendo a modelli comportamentali attesi e come tali valorizzati, in quanto cliché di normalità (Hutson & Hutson, 2023). Questa scelta, tra l’altro, insieme alla mancata diagnosi, è ritenuta all’origine di un sottodimensionamento della consistenza numerica delle “neurominoranze”, così come dei dati sull’occupazione e la job retention delle persone “neuroatipiche” (Waisman-Nitzan et al., 2019; Mellifont et al., 2022).

Da quanto detto finora appare chiaro come quello che può sembrare un mero problema definitorio, abbia in realtà impatti estremamente concreti sulla realtà, sulla vita di persone e aziende (Shaw et al., 2023).

Approcci e prospettive per lo HR management

Ma cosa spinge ricercatori e practitioners a studiare le questioni relative all’inserimento e alla presenza in azienda delle persone considerate “neuroatipiche”? La breve ma intensa produzione scientifica sul tema in oggetto consente di rintracciare una pluralità di motivazioni e conseguenti obiettivi che si dichiara di voler perseguire. Di seguito si propongono quelli più ricorrenti, senza alcuna pretesa di considerare l’elenco esaustivo o tanto meno definitivo:

  • riduzione dei tassi di disoccupazione delle persone affette da neurodiversità;
  • eliminazione/prevenzione di comportamenti discriminatori;
  • afforzamento dell’intenzione di rimanere (intention to stay) da parte dei “neuroatipici”, e della capacità di trattenerli (retention) da parte delle aziende;
  • sviluppo del potenziale e valorizzazione delle specifiche competenze riconosciute come distintive delle persone “neuroatipiche”, o di specifici gruppi;
  • perseguimento del benessere sul lavoro delle persone “neuroatipiche”;
  • prevenzione di impatti negativi sul clima organizzativo e la qualità delle relazioni in azienda.

Molti di questi obiettivi possono essere declinati secondo un approccio difensivo, volto a limitare possibili impatti negativi, diretti e indiretti, sulle performance aziendali o, al contrario, in modo proattivo, riconoscendo a priori il valore intrinseco di ogni persona, a prescindere da dove questa si collochi nel range di un’ipoteticamente infinita varietà.

Nel primo caso gli studi sulla neurodiversità tendono a riproporre un cliché ben noto, quello della “riserva protetta”, applicato a “minoranze” della popolazione aziendale che in un certo momento storico sono oggetto di specifica attenzione e vengono indicate come bisognose di particolari forme di tutela (donne, disabili, personale in età avanzata, …). Presupposto di tale approccio è l’individuazione di specifiche categorie, più o meno chiuse: esercizio che anche nel caso della neurodiversità porta con sé un elevato rischio di frammentazione e di un’interpretazione semplicistica e riduttiva della realtà.

Nel caso in cui si scelga di usare l’approccio che abbiamo definito “proattivo” le ricerche su neurodiversità e lavoro possono offrire un contributo innovativo, che immaginiamo non tanto come kit operativo ricco di strumenti e soluzioni ad hoc, quanto come rafforzamento e adattamento di pratiche virtuose di gestione delle risorse umane. In questa prospettiva, l’identificazione di specifiche categorie, finalizzata alla ricerca di soluzioni ritenute più adatte rispetto ad una gamma predefinita di comportamenti attesi, non solo non costituisce un presupposto necessario, ma rischia di tradursi in un vero e proprio intralcio al perseguimento di obiettivi di valorizzazione dell’unicità delle singole persone.

Per cercare di “riordinare” quanto scritto finora su neurodiversità e lavoro utilizzeremo due criteri di analisi e di classificazione: il primo fa riferimento al modo stesso in cui definiamo l’idea di “neurodiversità”, il secondo si propone di discernere le motivazioni all’origine dell’interesse a rendere i luoghi di lavoro più accoglienti e desiderabili.

Riguardo al primo aspetto, la varietà di azioni e interventi proposti per facilitare l’inserimento di lavoratori “neuroatipici” nei contesti di lavoro non è solo la conseguenza della scelta di piani di analisi organizzativa (ad esempio focus su pratiche di reclutamento e selezione vs. focus su leadership e supporto di capi e colleghi), che riflettono differenti orientamenti di studio e ricerca, ma anche, e forse soprattutto, il prodotto di differenti prospettive teoriche, a loro volta riconducibili ai significati attribuiti all’oggetto di analisi. Possiamo infatti pensare che la logica che induce alcuni studiosi a considerare l’insieme dei lavoratori “neuroatipici” come una nuova categoria di diversità (o come un gruppo di nuove categorie), con confini predefiniti e oggettivamente riconoscibili, abbia implicazioni molto diverse, in termini di obiettivi perseguiti e di linee di intervento, dalla logica che considera invece la neurodiversità come espressione di un range di varietà non descrivibile in modo esaustivo e completo e dunque non predefinibile.

L’idea di neurodiversità come “categoria” ulteriore di diversità induce studiosi e practitioners a focalizzarsi su soluzioni di progettazione standard (dal layout degli spazi fisici a quello della singola postazione di lavoro, alla riprogettazione dei ruoli) o procedure “neurologically correct”, cioè ritenute adeguate alle caratteristiche della categoria dei “neurodiversi”, o di una sottocategoria (individui affetti da una sindrome o disturbo piuttosto che da un altro), in una logica adattiva. Al contrario, l’intendere la neurodiversità come “varietà” sposta il focus dall’idea dalle proposte fatte di adattamenti predefiniti e studiati in funzione di caratteristiche idealtipiche, specifiche per ogni categoria di individui, a soluzioni personalizzate che discendono da un’analisi puntuale dei processi di lavoro e dal riconoscimento dell’unicità delle situazioni. Le leve ritenute più efficaci, in questa prospettiva, sono quelle dei comportamenti di leadership, del supporto di capi e colleghi, così come il riconoscimento di spazi di job crafting e auto-adattamento, in contesti di lavoro “customizzati” (Austin & Pisano, 2017; Krzeminska et al., 2019).

Una sintesi sommaria dei più recenti contributi sulla relazione tra neurodiversità, pratiche di HR management e comportamento organizzativo consente di osservare anzitutto una gamma diversificata di proposte relative agli ambiti e agli strumenti di intervento: sembra prevalere l’enfasi sull’adattamento (anche in senso fisico) dei luoghi di lavoro, sull’adozione di determinate tecnologie e sul ridisegno di alcune pratiche di gestione. Nel loro insieme tali misure mirano a consentire anche a chi è neuroatipico di svolgere il proprio lavoro riducendo eventuali difficoltà. Altre direzioni di ricerca, al contrario, stentano al momento a trovare cittadinanza negli studi sulla neurodiversità al lavoro: tra questi la comunicazione finalizzata alla rimozione di stereotipi e alla prevenzione di comportamenti discriminatori, il ruolo delle relazioni di supporto di capi e colleghi, l’impatto sul clima organizzativo, lo sviluppo del senso di identificazione e di appartenenza. Quest’ultimo aspetto sembra peraltro essere particolarmente rilevante per le persone neuroatipiche. Da qui emerge l’importanza del contributo da parte di colleghi e manager alla creazione di relazioni autentiche, al superamento di percezioni di incertezza, insicurezza e paura, conseguenti alla diffusione di stereotipi e pregiudizi (Doyle, 2020; Kahn et al., 2022). Pur essendo azzardato il collegamento tra tipologie di azioni/interventi e approcci alla neurodiversità, vi sono indizi abbastanza pesanti che l’idea di adattamento, sia essa riferita alla configurazione di postazioni o spazi di lavoro o all’insieme di pratiche formali che presidiano lo HR management, faccia riferimento a caratteristiche idealtipiche di una (o più) categoria(e).

Nel suo insieme, la letteratura più recente individua alcune possibili linee di sviluppo della ricerca nell’alveo degli studi organizzativi: tra queste, una raccomandazione che più di altre condividiamo riguarda il coinvolgimento delle stesse persone neuroatipiche nei programmi di ricerca; dunque, una questione di “disegno” anziché di “oggetto” della ricerca, che consentirebbe di evitare pericolosi appiattimenti sulle prospettive degli “esperti” (Szulc et al., 2023).

Accanto alle linee di ricerca suggerite nei contributi recenti vogliamo proporne altre, che puntino sia a rafforzare il quadro teorico e concettuale, sia ad esplorare nuovi ambiti di intervento. Riguardo al primo argomento, riteniamo che gli studi organizzativi sulla neurodiversità, oltre a mutuare e far propri i principi-cardine del diversity management, possano trovare utili punti di incontro con le ricerche sul benessere e sulla giustizia organizzativa. Entrambi questi filoni sembrano poter offrire una sponda per parlare di neurodiversità al lavoro, ampliando lo spettro delle riflessioni e delle valutazioni in merito ad azioni e interventi da sviluppare nei contesti di lavoro. Si auspica inoltre che gli studi futuri privilegino approcci interdisciplinari in modo da superare le frammentazioni, anche interne alle discipline, che rendono difficile cogliere il fenomeno osservato in tutta la sua complessità. In riferimento all’esplorazione di nuovi ambiti di intervento, le evidenze finora raccolte, e ripetutamente citate in letteratura, si riferiscono quasi esclusivamente ad aziende di grandi dimensioni del settore privato; il contributo degli studiosi italiani di organizzazione potrebbe ad esempio raccogliere evidenze nelle aziende di minore dimensione, così come nella Pubblica Amministrazione. Con riferimento a quest’ultima, la forza dell’imprinting organizzativo è spesso ancora tale da orientare i comportamenti verso modelli burocratici; non appare dunque di poco conto la considerazione che alcuni tratti della neurodiversità possano rappresentare un potenziale vantaggio, in termini di innovazione e creatività, derivante proprio dalla capacità di pensare fuori dagli schemi.

La cultura della diversità a un bivio

Pensare che le sfide che interessano il mondo della neurodiversità, e della diversità più in generale, siano solo un problema delle categorie che vi appartengono, è una visione miope, che non consente di riflettere su questioni che interessano in modo ampio il mondo del lavoro e l’intera società. Nel momento in cui il tema relativamente nuovo della neurodiversità si affaccia con forza nella letteratura manageriale e organizzativa, si offre una preziosa occasione di riflettere sul significato stesso di diversità, così come su quello di inclusione. Questi concetti, ormai entrati nella quotidianità per chi si occupa di scelte di organizzazione e HR management, corrono il rischio di restare prigionieri di visioni unilaterali, proprie di uno specifico approccio disciplinare, o di culture manageriali che, a supporto della performance, privilegiano soluzioni universalistiche. In altri termini, il tema della neurodiversità può rappresentare una “chiave di accesso” al cambiamento culturale che, superando una visione utilitaristica, consideri la diversità in tutte le sue dimensioni, come elemento ad un tempo “normale” ed “essenziale” (Blustein et al., 2023) in quanto qualità propria e naturale dell’essere umano.

Solo il recepimento nella cultura organizzativa di questa rinnovata idea di diversità può depurare il concetto di inclusione dalla sua connotazione paternalistica, che sottintende una scissione innegabile e resistente, tra “normale” e “diverso” (Singer, 2017; Acanfora, 2022; Allen, 2023). Dietro a questo, si nasconde tra l’altro, il rischio del cosiddetto “tokenism” (Boncori et al., 2019), cioè il fatto che gruppi dominanti usino la gestione della neurodiversità, e della diversità in generale, come strumento d’immagine, senza peraltro perseguire una reale inclusione. Se la scelta dei termini per definire un fenomeno ha un impatto su azioni e comportamenti concreti, da questo punto di vista i concetti di “convivenza” (Acanfora, 2022) e “comunità” (Donadio, 2023) sembrano preferibili a quello di inclusione.

Implicazioni per lo HR management

A conclusione di queste riflessioni, riteniamo che la letteratura su neurodiversità e lavoro possa inviare a manager e specialisti dello HR management una serie di importanti messaggi, da tradurre in input per modelli e pratiche organizzativi.

Il primo di questi, a nostro avviso, riguarda la non marginalità dell’inserimento e dell’inclusione nei contesti di lavoro. La stima di un 15-20% di popolazione “neuroatipica” (Hutson & Hutson, 2023) non sembra esagerata, anche alla luce dei fenomeni di masking, a cui abbiamo accennato in precedenza. Da solo, questo dato dovrebbe essere in grado di generare una robusta consapevolezza delle dimensioni del problema. Un secondo messaggio, che va direttamente al cuore delle scelte manageriali a supporto della neurodiversità, riguarda i potenziali rischi insiti nel considerare la neurodiversità come un’ulteriore categoria, finora sottovalutata, di persone verso le quali sviluppare politiche e pratiche ad hoc. Troppo varia la tassonomia di “disturbi”, troppo poco standardizzabili le concrete manifestazioni a livello individuale, per poter pensare di realizzare una vera integrazione sul lavoro mediante la predisposizione di strumenti etichettati come tailor-made, ma di fatto pensati per essere applicati a categorie preordinate che non riflettono la peculiarità delle persone in quanto tali. Un terzo messaggio, sempre traducibile in indicazioni di progettazione organizzativa, è quello di mettere a fuoco ambiti e livelli di intervento, prima ancora che singole pratiche o strumenti. Riteniamo inoltre che i migliori risultati siano conseguibili grazie all’azione su differenti livelli: dagli eventuali adattamenti di elementi fisici e ambientali del luogo di lavoro, alla riformulazione di determinati momenti dello HR management (in primis reclutamento e selezione, formazione, valutazione), da modalità di organizzazione di lavoro orientate alla proattività, alla qualità della comunicazione e delle relazioni. Questi ultimi due piani di azione, in particolare, sembrano prioritari nel favorire una piena libertà di espressione a ciascuna persona e nel rinforzare comportamenti di supporto organizzativo (sia tra livelli gerarchici che tra colleghi). Infine, si vuole enfatizzare come la profonda adesione a valori e principi che ispirano il diversity management rappresenti la condizione prima e irrinunciabile per la realizzazione degli obiettivi che esso si prefigge. È essenziale la consapevolezza che solo laddove i fattori di diversità vengano vissuti come opportunità e affrontati rifuggendo da approcci unilaterali e universalistici, potranno avere successo azioni e interventi a supporto della neurodiversità.

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Autori

Università Politecnica delle Marche

Università Politecnica delle Marche

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