Onboarding Newcomers: un efficace inserimento in azienda migliora la carriera e la competitività d’impresa

 

Il 33% dei neoassunti cerca un nuovo lavoro dopo i primi sei mesi e il 23% lascia l’organizzazione entro il primo anno. Le percentuali relative ai millennials sono ancora più elevate. Queste evidenze rivelano come la fase di inserimento sia una delle più critiche e anche una delle più trascurate. Inoltre, altre ricerche rivelano come un efficace ingresso migliori le prestazioni e altri outcome organizzativi desiderabili. Il presente lavoro, dopo aver introdotto il tema e la sua rilevanza, discute il contributo di Sluss e colleghi (2012) che identifica i meccanismi affettivi, sociali e comportamentali che portano gli individui a inserirsi efficacemente nell’organizzazione, fino a identificarsi in essa.

Introduzione

L’ingresso in azienda rappresenta una delle fasi più critiche della vita organizzativa. Durante questo periodo, il neoassunto – mentre è introdotto al ruolo – sperimenta i tratti principali dell’azienda (valori, regole, cultura, …) e definisce con essa il grado di fit. Inoltre il modo in cui egli viene integrato influenza ampiamente il contratto psicologico che stabilirà con l’organizzazione, con effetti a lungo termine anche su prestazioni e altri outcome rilevanti (Bauer e Erdogan, 2014).

Al cuore di questa fase c’è il concetto di newcomer adjustment, che la letteratura manageriale definisce come “employees reinterpreting and revising both the meaning of work as it pertains to a particular organization and the view of themselves as functional members of their organizations” (Lance et al., 2000: 107-8). Questa fase è concepita quindi come un processo di creazione di senso, che avviene nei primi mesi successivi l’ingresso in impresa (solitamente nei primi 90 giorni) e coinvolge l’interpretazione del capo, dei colleghi, del ruolo che dovrà svolgere e dell’organizzazione nel suo insieme.
Si tratta quindi di un periodo di incertezza che il neoassunto cercherà di controllare e ridurre attraverso comportamenti che riterrà appropriati.

Egli infatti, oltre ad eseguire le attività quotidiane, attiverà dei processi di ricerca (di informazioni, di conoscenze, …) e costruirà relazioni (con i pari, con i capi, …) per completare questo processo di “aggiustamento” e rispondere – anche in modo implicito – alle domande: “Sono adatto per questa impresa? Qual è il mio posto qui?”. La risposta che il neoassunto darà a queste domande determina la natura e l’intensità del suo coinvolgimento nell’organizzazione, anche al di là della retribuzione che gli sarà prospettata.

La rilevanza del problema

Questo tema è rilevante i neoassunti di tutte le fasce d’età, anche se per i giovani lo è particolarmente. Nei Paesi OECD (2010), le prime esperienze lavorative influiscono significativamente sul futuro della vita professionale. Un primo lavoro in condizioni favorevoli facilita l’integrazione nel mondo lavorativo e getta le basi per una carriera soddisfacente sia per l’individuo che per l’impresa, mentre riprendersi dopo una prima esperienza negativa si rivela difficile.

Anche per questo motivo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, 2013) suggerisce alle imprese di favorire la fase di ingresso dei giovani con appropriate iniziative che verifichino la qualità dell’effettivo inserimento, sia per la stabilità delle stesse imprese, ma anche al fine di ridurre quel fenomeno di shopping around, per cui molti giovani affrontano il mercato del lavoro e l’ingresso in azienda con distacco, pronti ad abbandonarla di fronte agli ostacoli che incontrano e passare a un successivo datore di lavoro.

Ma l’ampiezza del fenomeno coinvolge anche gli adulti e più in generale le imprese. A titolo esemplificativo, si osservi in Figura 1 alcuni dati con cui Ferrazzi (2015) introduce l’articolo recentemente pubblicato su Harvard Business Review.

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Figura 1. Ferrazzi, K. 2015. Harvard Business Review.

Commentare questi dati può risultare superfluo; è evidente infatti la loro rilevanza e le ricadute per i lavoratori e per le imprese. Cosa fare quindi?

Numerosi studi mettono in luce che quando le persone sono accolte in azienda e seguono un calibrato percorso di inserimento maturano un attaccamento all’organizzazione e ai suoi scopi che va al di là di un mero scambio di incentivi e contributi, fino a portare gli individui a identificarsi con essa. Si può quindi ben comprendere come un efficace ingresso in azienda rappresenti un tema da non sottovalutare certamente per i diretti interessanti, ma ancor di più per la competitività dell’impresa che è impegnata nel processo di onboarding.

Lo studio di Sluss et al. (2012)

 Uno dei recenti contributi più significativi – sia per lo sviluppo delle conoscenze sia per le implicazioni manageriali – è stato apportato da Sluss, Ployhart, Cobb e Ashforth, i quali nell’ultimo numero del 2012 della prestigiosa rivista Academy of Management Journal hanno pubblicato un articolo dal titolo “Generalizing newcomers’ relational and organizational identifications: processes and prototicability”.

Gli Autori cercano di spiegare come avviene un efficace inserimento in impresa e, in particolare, come i “newcomers” arrivino a identificarsi con l’organizzazione, sentendosi parte integrante di essa.

Per spiegare questo processo, gli Autori avviano l’analisi dalla relazione che i nuovi arrivati stabiliscono col proprio capo. Il capo infatti personifica in larga parte l’organizzazione per un neoassunto. È innanzitutto da questo che la persona in ingresso sarà valutata, ritenuta idonea per l’organizzazione. D’altra parte una cattiva relazione col proprio capo diventa fonte di ansia, stress e in ultima analisi di mediocri performance. Inoltre, è frequente sentire capi del personale affermare “Le persone entrano in azienda per il ‘brand’, ne escono per il ‘capo’.” In questa frase, forse un po’ semplicista, si intuisce tutta la rilevanza della relazione col capo, in particolare per un neoassunto.

Ma in che modo la relazione con il capo favorisce un efficace inserimento organizzativo? Sluss e i suoi colleghi (2012) identificano tre meccanismi chiave e una condizione, che verranno illustrati di seguito e che sono rappresentati in Figura 2.

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Figura 2. Modello semplificato di Sluss et al., 2012.

Primo: grazie al meccanismo di “affect transfer”. Quando una persona entra in impresa, il management coinvolto è solitamente preoccupato di trasmetterle gli aspetti formali e di base per poter lavorare (es., “Ora che abbiamo completato gli aspetti formali del contratto, ti porto a vedere la tua postazione, ti metto in contatto con i tecnici affinchè ti diano un indirizzo e-mail; poi ci rivediamo”. Peccato che tra quella frase e quel effettivo “ci vediamo” può passare parecchio tempo oppure può capitare che il neoassunto venga “catapultato” nella prima urgenza lavorativa della giornata. In altre parole, le organizzazioni sono solitamente attente ai bisogni primari, per dirla alla Maslow, ma molto meno a far sentire le persone importanti per l’organizzazione fin dal primo giorno in cui vi entrano. Questo far sentire le persone importanti può essere considerato come un indicatore di affect trasfer, ovvero la capacità di generare emozioni calde e sentimenti positivi nel nuovo arrivato verso l’organizzazione.

Secondo: il neoassunto svilupperà una favorevole identificazione con la nuova organizzazione grazie a meccanismi di “social influence”. In altre parole, le organizzazioni – oltre che insiemi di regole, contratti e procedure – sono anche contesti sociali, nei quali avvengono numerosi altri processi che vanno al di là del semplice scambio di prestazioni in favore di una ricompensa. Si è soliti considerare le imprese innanzitutto come insieme di persone, ma molto spesso l’analisi si ferma lì. Cosa vuol dire questo? Quali sono le implicazioni? Per un nuovo assunto, giovane o maturo che sia, significa che egli leggerà il contesto organizzativo sulla base delle relazioni che osserverà tra i vari membri e – a meno di rare eccezioni – si conformerà ad esse. Queste influenze sociali è stato dimostrato, fin dagli studi di Elton Mayo degli inizi del secolo scorso, hanno un impatto più forte rispetto a ordini e prescrizioni.

Terzo: un significativo beneficio potrà derivare dal “behavioral sensemaking”, ovvero la capacità di creare senso e significato alle decisioni organizzative e agli avvenimenti aziendali, mantenendo coerenza e unità all’operato dell’impresa. L’attribuzione stabile di significati agli eventi organizzativi ha la forza di spostare il focus dall’incertezza sul futuro offrendo una certezza al presente: una storia plausibile nella quale riconoscersi, che sia motivante per il neoassunto e in grado di guidare le azioni collettive. La capacità di muoversi tra le maglie degli eventi per tenere un filo conduttore alle vicende organizzative è il frutto di un lavoro che non può essere rinchiuso dentro una gerarchia e un set di regole, ma ha proprio a che fare con questa capacità di creare senso che dia forza alle azioni.  Inoltre, se da un lato è plausibile che le aspettative sui nuovi arrivati si costruiscono all’interno dei ruoli organizzativi generando quell’ordine su cui le imprese fanno affidamento per la gestione delle propria attività, è altrettanto vero che la pluralità degli eventi, la molteplicità dei canali di comunicazione e i limiti alla razionalità individuale confondono le attese associate ai ruoli, inducendo talvolta le persone a sperimentare conflitti sulle azioni più appropriate da avviare. Questo ragionamento è tanto più pertinente, quanto più le imprese operano in settori caratterizzati da rapidi cambiamenti, nei quali è necessario mantenere una certa flessibilità e la capacità di aggiustare le rotte. È noto negli studi manageriali che il successo delle imprese, in particolare di quelle diversificate, non dipende unicamente dal tipo di strategia diversificata perseguita, dalle caratteristiche dei settori di attività, dalle caratteristiche del cashflow che i diversi business generano, ma anche dalla varietà del DNA dell’organizzazione che interpreta gli eventi e guida le decisioni (Obloj, Obloj e Pratt, 2010), in una parola dalla sua identità.

Infine, questo processo verrà rafforzato dalla “prototypicality” del capo. In altre parole, è necessario che il capo sia e venga considerato dal neoassunto una persona che promuova i valori guida dell’organizzazione. Quest’ultima condizione ci fa tornare all’origine del nostro contributo e ci ricorda come, al di là di tante analisi e digressioni, la coerenza dell’agire rappresenti una fonte importante della credibilità dei capi e dell’agire organizzativo più in generale.

Gli autori hanno testato questo modello con un’analisi longitudinale in due contesti organizzativi distinti: in impresa (in particolare in 12 organizzazioni distinte) e nell’Esercito Americano, favorendo la generalizzabilità dei risultati. Per i dettagli della ricerca si rimanda ovviamente all’articolo, così come per l’approfondimento delle basi teoriche, di cui questo contributo si limita a delinearne la cornice e a lasciarne intravvedere gli orizzonti.

Le prospettive future

Molti studi sui newcomer prediligono la prospettiva secondo cui l’inserimento in azienda sia il risultato di un’efficace azione manageriale (pratiche di HR, formazione, …), mentre altri ritengono che la qualità dell’integrazione sia l’esito emergente di comportamenti, più o meno deliberati, che il nuovo arrivato attiva.

Le ricerche future sono chiamate a combinare gli approcci e adottare una prospettiva che si focalizza sull’interazione dei nuovi impiegati con l’ambiente lavorativo. L’approccio individuato consente altresì di studiare sia “l’individuo nel gruppo” (come egli si comporta, le relazioni che stabilisce, …) sia “il gruppo nell’individuo” (ovvero la rilevanza della membership per il concetto di sé).

In particolare l’attenzione dovrà esser dedicata a 5 relazioni principali che il newcomer stabilisce: con il lavoro, il capo, il gruppo di lavoro, l’organizzazione e altri aspetti extra-lavorativi, così come rappresentati in Figura 3.

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Figura 3. Rappresentazione integrata delle relazioni da indagare per la ricerca futura.

 I risultati che emergeranno da questa visione a 360 gradi del processo di onboarding completeranno il puzzle e saranno di enorme utilità, non solo per l’avanzamento delle conoscenze accademiche, ma soprattutto per la stabilità delle imprese, nelle quali i membri potranno riconoscersi e contribuire nel tempo.

Bibliografia

Bauer, T. N., and B. Erdogan, 2014. “Delineating and reviewing the role of newcomer capital in organizational socialization”. Annual Review of Organizational Psychology and Organizational Behavior, 1: 439 – 457.

Ferrazzi K., 2015. “Technology can save onboarding from itself”. Harvard Business Review, March 25, digital article: https://hbr.org/2015/03/technology-can-save-onboarding-from-itself

ILO, 2013. Global employment trends for youth 2013: A generation at risk. Geneva: International Labour Office.

Lance, C. E., R. J. Vendenberg, and R. M. Self. 2000. “Latent growth models of individual change: the case of newcomer adjustment”. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 83 (1): 107 – 140.

Obloj, T., K. Obloj, and M. G. Pratt, 2010. “Dominant logic and entrepreneurial firms’ performance in a transition economy”. Entrepreneurship Theory and Practice, 34 (1): 151 – 170.

OECD, 2010. Off to a good Start? Jobs for youth. OECD Publishing.

Sluss, D. M., Ployhart, R. E., Cobb, M. G., and Ashforth, B. E. 2012. “Generalizing newcomers’ relational and organizational identifications: processes and prototicability”. Academy of Management Journal, 55

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