Questo contributo intende porre l’attenzione sull’importanza del fattore umano in chiave sia strategica che organizzativa nel contesto delle imprese familiari votate alla crescita, partendo dal modello di gestione delle risorse di Sirmon e Hitt (2003) e proponendone un’integrazione con quello di Carnes e colleghi (2017) sulla resource orchestration.
Introduzione
Le imprese familiari sono un tema centrale negli studi organizzativi e di management. In questa sede, ci concentriamo sull’importanza del fattore umano all’interno di tali organizzazioni nel contesto specifico delle scelte di crescita (Pisano e Faraci, 2019). In particolare, guarderemo all’organizzazione delle risorse umane, ricorrendo al modello di Sirmon e Hitt (2003) sulla gestione delle risorse in genere e proponendone un’integrazione con il modello di Carnes e colleghi (2017) in tema di resource orchestration.
Il fattore umano rappresenta un elemento cardine per qualsiasi tipologia d’impresa, ma con delle peculiarità rilevanti ove ci si riferisca a quelle familiari. Invero, queste ultime sono caratterizzate da una differenza a volte non troppo marcata tra ciò che è il ruolo del singolo individuo all’interno della famiglia (membro dell’organizzazione e istituzione sociale) e quella che è la funzione di tale soggetto all’interno della famiglia (intesa come organizzazione economica). Questo dualismo produce un’evidente e ricorrente sovrapposizione e la letteratura di family business tenta di spiegare se e quando le decisioni prese dal singolo individuo o dall’intera compagine familiare vengano prese per il primo, per il secondo o per entrambi i fini allo stesso tempo.
Le particolari condizioni che contraddistinguono lo scenario competitivo odierno, mutevole e dinamico per definizione, impongono all’impresa la necessità di gestire in maniera efficace le risorse umane a disposizione, studiando come formarle e alimentarne costantemente lo sviluppo nel tempo (Hitt et al., 2015). Nel caso specifico delle imprese familiari, si tratta di risorse molto uniche del proprio genere, la cui complessa definizione può essere inclusa nel più ampio concetto di “familiness” (Habbershon e Williams, 1999): un concetto sintetizzabile in una sorta di commistione e/o interdipendenza tra i più variegati aspetti della vita familiare sia a livello sociale che economico che, quindi, rendono uniche le risorse e competenze dell’impresa.
L’organizzazione di queste ultime richiede un’attività di programmazione da considerarsi basilare per il conseguimento e mantenimento nel tempo della competitività. Questo perché il mero possesso di tali risorse non può essere considerato di per sé sufficiente. Occorre, cioè, che esse siano organizzate attraverso una strategia di attenta pianificazione del loro impiego finalizzato all’alimentazione di nuove conoscenze e alla consequenziale produzione di valore.
Una particolarità che va posta in evidenza in questa sede – e che consente di distinguerle dalle altre tipologie d’imprese – è rappresentata dalle varie componenti che ne caratterizzano le risorse umane. Invero, in questo caso, a differenza delle imprese non familiari, tali risorse sono solite vedere una prevalenza nelle principali posizioni manageriali dei membri della famiglia che ha creato all’impresa (i.e., fondatore). Pertanto, è piuttosto innaturale che, in tali imprese, si abbia la presenza di manager estranei alla famiglia, prelevati dal mercato del lavoro per via di competenze ed esperienze particolarmente utili in determinati momenti del ciclo di vita (come, ad esempio, in una prima fase di espansione internazionale). In aggiunta, ciò, come spiegato in letteratura, è da attribuirsi alle peculiarità di tali imprese le quali, a livello di principio generale, preferiscono mantenere il pieno controllo proprietario in mani familiari, evitando la presenza di soggetti estranei alla famiglia (come, ad esempio, investitori esterni) e le loro intromissioni nel processo decisionale. Ne deriva come, in genere, queste abbiano la tendenza a operare investimenti interamente finanziati dall’interno, ossia con risorse proprie. Diversamente, si può persino rinunciare o procrastinare l’investimento.
Per lo stesso principio, anche a livello manageriale la tendenza è quella di mantenere il processo di gestione nelle mani di soggetti interni o molto vicini alla famiglia. Ciò poiché tale scelta dovrebbe consentire che le decisioni siano sempre prese nell’interesse della famiglia e, solo in seconda battuta, degli altri stakeholder.
Tuttavia, la tendenza di tali imprese di evitare l’inserimento di soggetti estranei alla famiglia può rappresentare un grave limite con riguardo alle capacità e competenze manageriali di cui potrà disporre l’impresa in futuro. Ne deriva come una delle ragioni per cui le imprese familiari possano avere difficoltà di sopravvivenza nella competizione globale odierna è data dalle loro limitate capacità e competenze: fattori cruciali per il successo di chi opera in più business e mercati geografici.
Anche la capacità dell’impresa di sapersi adattare al cambiamento del contesto operativo o, più in generale, alle nuove regole della competizione sarà figlia delle abilità ed esperienze delle risorse umane. E’ per questa ragione che un’apertura a un management professionista appare in molti casi irrinunciabile.
Il ruolo delle risorse umane all’interno delle imprese familiari e l’importanza del capitale sociale da essere detenuto
Il contemporaneo svolgimento di diversi ruoli che i membri della famiglia espletano nella vita familiare e di business crea un vero e proprio dualismo o sovrapposizione. Tutti noi abbiamo un doppio ruolo a seconda che si guardi alla nostra vita personale (e al ruolo che ricopriamo all’interno della nostra famiglia) e professionale (secondo la carica che ricopriamo nell’impresa per cui lavoriamo). Tuttavia, in questo caso, si rischia una sovrapposizione poiché l’ambiente o contesto di riferimento è esattamente lo stesso. Tale dualismo incrementa, perciò, il livello di complessità rispetto alle imprese non familiari, le cui risorse umane non soffrono di questa sovrapposizione o interferenza.
La letteratura è ricca di lavori che testimoniano una serie di limitazioni di cui tali imprese soffrono a seguito di questa caratteristica (Bannò e Pisano, 2017). Ad esempio, la ferma volontà di mantenere il controllo in mani familiari porta tali imprese a operare scelte che si rivelano, spesso, subottimali. Invero, se devo garantire che siano i miei figli e nipoti a proseguire la mia opera d’imprenditore, non vi è nulla che possa garantire che tali individui abbiano le mie stesse capacità e abilità. Tuttavia, spesso persisto in scelte nepotistiche poiché questo è l’unico modo per mantenere il pieno controllo dell’impresa nel tempo.
Inoltre, vi sono diversi lavori che testimoniano come un’impresa così caratterizzata non sia attrattiva per i manager qualificati in cerca di nuovo impiego sul mercato del lavoro, ma esterni alla famiglia. Ciò poiché è evidente che le possibilità di carriera siano ivi alquanto limitate e che, comunque, certe scelte organizzative e strategiche non possano mai essere condivise (ad esempio, perché troppo rischiose se viste in ottica familiare).
I due vincoli appena evidenziati hanno come probabile conseguenza una forte limitazione nelle possibilità di successo futuro dell’impresa. Essa, cioè, non potrà creare facilmente valore se le sue scelte a livello di gestione delle risorse umane saranno influenzate da elementi esogeni, ossia non correlati alle possibilità di performance. Si prenda a esempio il caso di un’impresa familiare intenta ad espandersi all’estero: la letteratura d’internazionalizzazione suggerisce come tale crescita debba essere accompagnata da scelte precise a livello strategico e organizzativo. Perciò, la scelta del manager incaricato della creazione della nuova filiale o della gestione della joint venture o acquisizione – finalizzata ad agevolare l’entrata nel nuovo paese – dovrebbe avvenire avendo valutato l’esperienza di tale soggetto con il paese in questione, la sua conoscenza del contesto locale e la sua disponibilità di un network relazionale in grado di agevolare il processo di entrata. Si spiega secondo questa chiave di lettura l’invio da parte di tali imprese di un numero sempre più elevato di giovani individui all’estero al fine di ampliare le proprie conoscenze e relazioni e, nel frattempo, acquisire un bagaglio conoscitivo su culture e stili di vita diversi dal proprio.
Naturalmente, esistono anche aspetti positivi nell’essere parte del nucleo familiare al comando dell’impresa. Infatti, il livello di dedizione e commitment verso il business raggiunge livelli più elevati rispetto al caso di un’impresa non familiare: mentre, in quest’ultimo tipo d’impresa, sono diversi i fattori che incidono sulla motivazione e commitment individuali (e.g. stipendio, soddisfazione lavorativa, ambiente di lavoro); nel caso delle imprese familiari, vi è consapevolezza di far parte di qualcosa di più grande del singolo individuo e verso cui si coltiva un legame superiore.
Uno degli aspetti di maggior pregio dell’essere parte di un’impresa familiare è costituito dal capitale sociale della famiglia. Questo, specie nel caso d’imprese sul mercato da più generazioni, rappresenta un complesso network di rapporti che la famiglia e i suoi membri hanno intessuto e alimentato nel tempo, passandosene l’eredità di generazione in generazione. Il capitale sociale guarda alle relazioni tra individui, e tra individui e organizzazioni. Si tratta di un capitale d’importanza cruciale per il conseguimento del successo. Invero, nel caso di un’espansione oltreconfine, è sovente attraverso tale capitale che le imprese possono accedere alle informazioni, conoscenze e tecnologie necessarie (i.e., risorse complementari), oltre che agli attori locali essenziali per l’affermazione e legittimazione dell’impresa nel nuovo contesto (e.g., contatti istituzionali). Si tratta di un supporto che le imprese familiari in possesso di un efficace capitale sociale possono esibire in percentuale ben superiore rispetto alle non familiari e che le avvantaggiano enormemente a livello di competizione domestica.
I soggetti inseriti in tali network beneficiano di tali relazioni anche nella valutazione delle risorse disponibili, oltre che di quelle complementari necessarie a migliorare la competitività dell’impresa familiare. Ne deriva come il capitale sociale rivesta un ruolo topico e insostituibile di cui i manager delle imprese familiari possono approfittare maggiormente rispetto ad altri, poiché inseriti da tempo in uno specifico territorio.
Tale conoscenza può, altresì, rivelarsi determinante con riferimento alle risorse intangibili nella disponibilità del capitale umano d’impresa. In altre parole, rispetto ai comuni manager di una qualsiasi impresa, i manager di un’impresa familiare possono aver costruito nel tempo delle relazioni fiduciarie con i propri dipendenti e collaboratori da consentire loro di valutare meglio (e insieme) i punti di forza e di debolezza della propria impresa. Esiste, cioè, un legame peculiare tra ciascuna impresa familiare e le risorse umane in essa impiegate che potrà difficilmente essere replicato in altri contesti o imprese. Eguale discorso potrà essere fatto con riferimento alle relazioni di filiera che si saranno costruite nel tempo.
Allo stesso tempo, però, questo aspetto così caratteristico delle imprese familiari può costituire un’arma a doppio taglio trasformandosi in un grave limite. Nello specifico, il rischio è che, al momento di effettuare tali valutazioni su certe tipologie di risorse, si venga influenzati dal legame quasi “affettivo” che gli individui sviluppano verso certe “risorse” verso cui ci si lega oltremodo e che, invece, sarebbe opportuno eliminare o sostituire. Si tratta di un aspetto da non sottovalutare poiché è dimostrato come il mantenimento inerte di alcune risorse produca costi elevati per le imprese, riducendone le possibilità di creazione di valore in futuro; e questo pare particolarmente rilevante per le organizzazioni familiari, spesso limitate nella propria disponibilità di capitale proprio perché, per scelta, non aperte al finanziamento di soggetti esterni alla famiglia.
Al contrario, l’eliminazione di alcune risorse storiche dell’impresa può essere all’origine di un cambio direzionale che può rivelarsi decisivo per il successo o sopravvivenza dell’impresa. Pare evidente come tali risorse, ormai obsolete e da sostituire, possano anche essere delle risorse umane (sia esterne all’impresa che interne e, quindi, parte del nucleo familiare). Ciò è ovviamente ancor più difficile da mettere in pratica proprio alla luce delle relazioni che si sono create tra l’impresa familiare e tali individui. Si tratta di un circolo vizioso che si instaura in queste situazioni rendendo difficile l’apertura al cambiamento. Ciò va attribuito al contrasto che si crea tra l’eliminazione di alcune risorse e l’incertezza del futuro di cui, in particolare per questa tipologia d’impresa in cui i membri della famiglia hanno investito buona parte del proprio patrimonio, si ha un estremo timore. Il risultato è, spesso, una preferenza per strategie a basso rischio che finisce per incrementare ulteriormente inerzia e immobilismo segnando la strada verso l’inevitabile disfatta.
La contemporanea presenza di elementi positivi e negativi dell’avere un capitale umano di origine familiare implica la necessità di saperne gestire l’organizzazione e sviluppo ai fini del successo e creazione di valore. Per questa ragione, ci concentriamo sul modello concettuale di Sirmon e Hitt (2003), che tra i primi hanno guardato all’organizzazione delle risorse nelle imprese familiari. Tuttavia, essendo il nostro focus rappresentato dalle sole risorse umane, proveremo a integrarne il modello con quello di Carnes e colleghi (2017) con un’ottica esclusiva sul capitale umano delle imprese familiari (Fig. 1).
Il modello di riferimento in un contesto di espansione
Il modello di Sirmon e Hitt (2003) sulla gestione delle risorse ai fini della creazione di valore si compone di tre fasi: inventory, bundling e leveraging. Grazie alla loro implementazione sequenziale, si dovrebbe poter migliorare le risorse esistenti creando un vantaggio competitivo e producendo valore per l’impresa. Adesso, integriamo tale modello con quello di Carnes e colleghi (2017), secondo cui un percorso di crescita debba essere orchestrato lungo sei step: ovvero, acquisizione, raggruppamento, disinvestimento, stabilizzazione, arricchimento e ricombinazione delle risorse. Abbiamo inserito tali sei passaggi nel modello di Sirmon e Hitt (2003) e ci siamo focalizzati esclusivamente sul fattore umano di un’impresa familiare volta alla crescita. Infatti, a seconda dello strumento di crescita prescelto (e.g. joint venture, acquisizione, greenfield investment), sarà differente anche il percorso che dovrà essere seguito dalle risorse umane.
Il modello inizia col valutare e inventariare le risorse a disposizione, così come quelle che l’impresa dovrà ottenere (i.e., complementari) e che potranno essere trasferite, ad esempio, dall’impresa partner o acquisita o, ancora, inviate presso la filiale. Tale fase pare essenziale perché l’impresa possa comprendere quale sia il proprio punto di partenza prima d’intraprendere un percorso di espansione. La pianificazione organizzativa (i.e., orchestration) della crescita prevede che essa sappia valutare le risorse disponibili, sapendo se i familiari selezionati per la guida del processo siano pronti ad affrontare tale nuovo e impegnativo percorso avendo un bagaglio completo di conoscenze. Diversamente, occorrerà capire come appoggiarsi ad altri manager prelevati dal mercato del lavoro o facenti parte dell’impresa partner o acquisita e inseriti nel team alla guida dell’espansione per avere, così, una miglior conoscenza del nuovo ambiente e delle relative scelte da intraprendere.
L’espediente di far crescere i membri di famiglia meno esperti in contesti d’impresa diversi (possibilmente anche in imprese non familiari), oltre che geograficamente eterogenei, non sempre riesce a produrre quella maggior duttilità ed elasticità di pensiero, se questi non sono anche affiancati dal supporto professionistico di manager estranei alla famiglia (e.g., Stewart e Hitt, 2012). L’idea, ad esempio, potrebbe essere quella d’immaginare un membro della famiglia affiancato da un manager esperto, sperando poi che, nel tempo, questi possa fare a meno di tale ausilio e gestire il business in autonomia (almeno a livello di singola filiale).
Per tutte queste ragioni, il modello integrato arricchisce la fase d’inventario dei due step di acquisizione e disinvestimento delle risorse umane, che vedono l’inserimento di nuovi soggetti nel team manageriale e l’eliminazione di alcune risorse umane ritenute non necessarie perché in possesso di abilità che non sembrano aggiungere alcun valore al percorso attraversato in quel momento dall’impresa.
La fase successiva del modello è quella di “bundling”, ossia quella in cui l’impresa si adopera nel raggruppare le risorse disponibili. Qui essa deve capire come potersi affermare nel nuovo contesto. Pertanto, l’integrazione nel modello dei due step di “raggruppamento” e “stabilizzazione” paiono necessari per aiutarla a: a) capire come organizzare le risorse umane, suddividendole in team e sottogruppi con precisi obiettivi di periodo; e b) capire quali siano i possibili miglioramenti, anche solo incrementali, da condurre in un primo momento, intervenendo nei principali aspetti di debolezza (ad esempio, richiedendo che i lavoratori svolgano un periodo di addestramento continuato).
La terza e ultima fase è quella di “leveraging”, ossia in cui l’impresa tenta d’impiegare le risorse per la creazione di valore. Qui l’integrazione dei due step dell’arricchimento e ri-configurazione pare cruciale per l’affermazione dell’impresa. L’arricchimento sarà il prodotto di una ricerca operata inizialmente all’interno dell’impresa: questa cercherà di arricchire il bagaglio conoscitivo dei propri membri attraverso la ricerca e sperimentazione interna e, in seguito, in combinazione con il proprio partner, acquisita o filiale. La collaborazione con altri soggetti, professionisti o esperti locali potrà, quindi, guidare il percorso di ricerca dell’impresa in direzioni nuove e più idonee alla crescita intrapresa, arricchendo le conoscenze dei membri della famiglia con aspetti strategici complementari (aspetti che, operando da soli, non sarebbero mai riusciti a individuare e perseguire).
Una volta arricchita la conoscenza del team manageriale, a questo punto occorrerà riorganizzare risorse e conoscenze per la creazione di valore. Invero, il mero possesso di una certa base di risorse non può bastare. Altrettanto importanti saranno la configurazione e ri-configurazione che l’impresa dovrà dare a tali risorse grazie all’apprendimento e all’esperienza appresa sul campo. Si tratta di un processo continuo per il quale la letteratura sostiene occorrano meta-competenze. Attraverso queste ultime le imprese capiscono che uso fare delle proprie risorse (i.e., configurazione) e come tale uso possa modificarsi nel corso del tempo (i.e. ri-configurazione).
Ad esempio, quando la crescita dell’impresa avviene tramite un’acquisizione, il management dell’acquirente deve sapere come riconfigurare le risorse a disposizione per il loro miglior utilizzo. Si tratta di un complesso di attività che dev’essere pianificato, flessibile ove si comprendano i miglioramenti da poter apportare in corsa, e che richiede una conoscenza dei meccanismi legati a un’acquisizione. Ne deriva come occorra un management esperto, che abbia già vissuto esperienze di processi d’integrazione post-acquisitiva (Pisano, 2012) e che sappia come muoversi per legittimare e radicare l’impresa entrante nel nuovo contesto. In altre parole, è difficile che un membro della famiglia – giovane e inesperto o, comunque, con conoscenze limitate al proprio contesto locale o domestico – possa rivelarsi abile in un processo così complesso. Come si può coordinare al meglio lo scambio di risorse tra casa madre e acquisita locale? E che risorse scambiare? I temi del coordinamento e integrazione sono cruciali per il successo di un’espansione ottenuta tramite acquisizioni d’imprese, ma potrebbero essere riproposti alla stessa maniera anche nel caso di alleanze o investimenti greenfield.
In ultima analisi, il percorso può anche essere osservato ciclicamente. Il modello, infatti, presuppone come l’impresa apprenda da questa serie di passaggi e metta in moto un ciclo virtuoso di cui poter beneficiare in futuro, ad esempio nell’organizzazione di nuovi progetti di espansione.
Alla luce dell’analisi effettuata, appare chiaro come le risorse umane e le conoscenze tacite da esse possedute siano troppo importanti perché le imprese familiari possano operare in autonomia senza il supporto di manager esterni alla famiglia. Occorre far convivere la famiglia con delle competenze e managerialità al proprio interno di matrice non familiare. Tale cruciale considerazione le obbliga a valutare quali siano le risorse necessarie, fare una cernita di quelle esistenti e scegliere quali eliminare o acquisire, stabilendo come pianificare l’inserimento di soggetti estranei alla famiglia che, proprio per questo, possano garantire conoscenze, competenze ed esperienze di cui i membri della famiglia sono sprovvisti.
Conclusioni
Obiettivo di questo lavoro è stato guardare all’evoluzione del capitale umano interno alle imprese familiari in un contesto di espansione. Si è cercato di comprendere come le peculiarità di tali imprese in termini di gestione affidata ai soli membri della famiglia abbiano di certo dei risvolti positivi, ma portino con sé anche importanti limitazioni che possono essere attutite solo tramite un elaborato processo di organizzazione o orchestration del capitale umano.
Pertanto abbiamo integrato il modello di Sirmon e Hitt (2003) sulla gestione delle risorse in genere al fine di creare valore con quello di Carnes e colleghi (2017) sulla resource orchestration. Ne sono risultate tre fasi, ognuna delle quali composta da due passaggi essenziali perché tali risorse possano essere preparate al nuovo percorso di crescita che le aspetta.
Nel complesso, se diamo per scontato che qualsiasi attività di business abbia origine in una cultura imprenditoriale da tramandare di generazione in generazione, la famiglia può trasmettere i propri valori alle generazioni più giovani lasciando che siano queste a interpretare l’eredità culturale ricevuta, adattandone alcuni aspetti rilevanti (se necessario) in chiave più dinamica e innovativa, e applicandola secondo nuovi modelli di business rappresentativi dell’evoluzione dell’attività messa in piedi dal fondatore dell’impresa. In questo caso, la famiglia dovrà saper supportare il processo di crescita e trasformazione di tutte le sue componenti e, in particolare, delle risorse umane avendo chiaro il cammino che i propri discendenti dovranno percorrere per poter raggiungere un livello di piena maturità.
Bibliografia
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