Un percorso pratico di analisi, verifica e rafforzamento delle competenze manageriali nella PA

Gli obiettivi

Il mondo della pubblica amministrazione è oggettivamente “almeno un giro indietro” rispetto al mondo privato, con due principali conseguenze: l’organizzazione è prevalentemente basata sulle persone e sulla loro volontà di agire comportamenti utili; proprio per effetto di ciò, l’efficacia dell’amministrazione è fortemente dipendente dalle persone, dai singoli, dalle loro “curve di utilità”, dal loro personale “desiderio” di contribuire. Rendendo l’azione manageriale estremamente complessa, molto più complessa rispetto al leggendario e luccicante mondo privato.

La scarsa efficacia è alimentata da un’infinita e contradditoria regolamentazione (che consente di dare legittimità ex post a qualsiasi comportamento) e dalla mancanza di strumenti di razionalità organizzativa. Si discute e si litiga da anni in tema di valutazione della prestazione, non si dedica nemmeno una stilla di sudore mentale alla definizione delle responsabilità o alla necessaria coerenza tra competenze di ruolo e competenze delle persone. Ancora, la selezione dei dirigenti (dall’esterno o dall’interno) punta quasi esclusivamente sulla verifica delle conoscenze, quelle giuridiche in particolare, ignorando nel modo più forte le soft skills, da tutti considerate il vero fattore di successo dei ruoli manageriali. Ancora una volta, per lasciare che le persone agiscano secondo le proprie preferenze e non secondo le esigenze dell’amministrazione. Pare che la regola vigente sia “burocratizzare laddove le persone possono avvantaggiarsene, lasciare spazi vuoti laddove potrebbe essere necessario all’amministrazione”. Non male….

Ecco però una “bella storia”, un bel caso che dimostra come si possa avere fiducia e si debba sperare in una nuova PA.

Su iniziativa del Capo Dipartimento del Personale di Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM), la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) e il suo Presidente hanno voluto avviare un innovativo progetto di “sistemazione degli spazi vuoti”, ossia un percorso che consentisse di:

  1. Mappare i ruoli apicali (Dipartimenti e posizioni coperte da dirigenti di prima e seconda fascia) e definire le job descriptions
  2. Realizzare i job profiles connessi alle posizioni mappate.
  3. Valutare le competenze manageriali dei titolari delle posizioni.
  4. Identificare il gap tra competenze necessarie e competenze disponibili, per disegnare un percorso di sviluppo individuale e collettivo e rafforzare le competenze “più deboli”.

Certamente obiettivi ambiziosi, non facili da raggiungere, con evidenti aspetti culturali da affrontare e risolvere. In sostanza, un vero progetto di change management.

Per dare al progetto qualche possibilità di riuscita, si è deciso di renderlo sperimentale e di chiedere la disponibilità “volontaria” alla partecipazione. Su circa trecento dirigenti di PCM ben cinquantadue si sono resi disponibili e hanno partecipato al percorso.

Il profilo di ruolo

Un profilo di ruolo è definito come l’insieme delle competenze, delle motivazioni e dei valori necessari in astratto per coprire in modo efficace una posizione. Le competenze, a loro volta, si suddividono in conoscenze tecniche (il sapere), esperienze (il saper fare) e attitudini (tratti di personalità che consentono di “essere”); tra queste componenti, le attitudini sono quella più delicata in quanto più difficilmente modificabile. Il profilo di ruolo può essere inteso anche come una sorta di “DIMA”, una forma ideale a cui occorre fare riferimento quando si seleziona e si sviluppa la persona che va a ricoprirlo. L’utilità e la rilevanza “teoriche” del profilo di ruolo sono immediate: se il titolare reale della posizione avesse le caratteristiche indicate nel profilo, sarebbe perfettamente aderente al ruolo e avrebbe la massima possibilità di agirlo con efficacia. In pratica, le amministrazioni dovrebbero fare il meglio per definire tali profili, selezionare le persone più “prossime”, soprattutto, accompagnare i titolari delle posizioni verso un percorso di miglioramento e sviluppo.

Per giungere a definire il profilo di ruolo occorre costruire la job description, ossia intervistare con una metodologia strutturata il/i titolare/i della posizione. Nel corso di un colloquio che di regola può durare intorno ai 90 minuti, al titolare del ruolo sono chieste le aree omogene di attività previste, la descrizione delle singole attività e le modalità ottimali con cui tali attività sono da svolgere. Il documento che rappresenta i contenuti del colloquio viene successivamente presentato al superiore gerarchico per verificare se tutto corrisponde alle attese istituzionali e, eventualmente, corretto.

Sulla base del documento condiviso, l’analista di organizzazione stende la job e l’esperto di psicologia organizzativa “traduce” i contenuti del ruolo in competenze, motivazioni e valori ideali. Si giunge così a due documenti:

  • Un documento che contiene le aree di attività previste dal ruolo e la loro scomposizione in attività e responsabilità (la job description).
  • Un documento che illustra in primis le competenze necessarie e, in particolare, le attitudini che il titolare della posizione dovrebbe avere per essere efficace. In secondo luogo, contiene le motivazioni e i valori coerenti con il ruolo nel suo complesso (il job profile).

Tale documento diviene la “DIMA” del ruolo, il riferimento ideale per consentire al titolare attuale e futuro di confrontarsi con le competenze, le motivazioni e i valori posseduti e avviare un percorso di apprendimento.

L’assessment delle competenze dei titolari

Una volta definito il profilo di ruolo, è necessario valutare se il titolare possiede in tutto o in parte le caratteristiche ivi indicate. Si passa così a utilizzare metodologie di assessment che consentono di “leggere” le competenze/attitudini espresse e latenti delle persone da valutare, nonché di evidenziare le motivazioni al lavoro e i valori sottostanti il comportamento (sono escluse dall’analisi le conoscenze tecniche e le esperienze, entrambe date per scontate).

Le metodologie disponibili, ossia quelle che hanno dimostrato in modo continuo e ripetuto risultati di elevata precisione, sono sostanzialmente due:

  1. Assessment individuale “in presenza”. Nel corso di circa tre ore di prove, il candidato è messo a contatto con situazioni e settings di diverso tipo (dal role play all’in basket, dalla riunione alla negoziazione simulate) e viene osservato da uno psicologo del lavoro. In tali situazioni, non esistono e non rilevano comportamenti “giusti” o “sbagliati”. L’oggetto dell’analisi sono le modalità con cui la persona reagisce agli stimoli del contesto, mostrando – ad esempio – approcci analitici o sintetici alla raccolta dati, schemi de lettura del problema più o meno ampi, sensibilità o meno verso l’ascolto, e così via. L’osservazione del comportamento consente allo psicologo di identificare le attitudini che portano a quella tipologia di azione e a definire il profilo della persona sotto esame.
  2. Assessment tramite uno o più test on line. Negli ultimi anni, sono stati sviluppati test e batterie di test on line che consentono, con livelli di precisione assolutamente elevati, di analizzare e definire le competenze personali. Sono test che si basano sul concetto di “uniformità relativa”: i ricercatori hanno individuato in campioni molto numerosi (fino a 300.000 persone) dei collegamenti ricorrenti tra alcune risposte ben definite e ricorrenti con la presenza di una o più caratteristiche di personalità dell’individuo. A ciò si aggiunga che le domande sono “non programmabili”, ossia non è possibile intuire l’esito e le conseguenze delle possibili risposte. Infine, è utile aggiungere che i sistemi di elaborazione risiedono al di fuori dei confini nazionali (di regola nel nord America), garantendo la totale non influenzabilità degli esiti. Tutto ciò porta a considerare tali test la forma più oggettiva di analisi e lettura delle competenze. Dall’altro lato, è opportuno sottolinearne la minore attenzione al dettaglio e alle sfumature rispetto all’assessment condotto dallo psicologo. I test si dividono poi in due ulteriori categorie: i test “generali” e i test finalizzati. Nel primo caso, si prescinde dalle specificità della posizione e si punta a “capire la persona” nella sua interezza, leggendone un numero di caratteristiche molto ampio: il test più solido in questo ambito è il Success Finder, che ha la possibilità di individuare 85 tratti. In questi casi, l’esito tende a essere utilizzato per lo sviluppo della persona in generale e per il suo orientamento verso il futuro della carriera: quali le aree di attività più coerenti con la persona? Come orientare la persona nel futuro e quali percorsi suggerirle? Il secondo gruppo di test è invece orientato a leggere alcune specifiche caratteristiche attitudinali della persona in relazione a un determinato profilo di ruolo per giungere a un confronto diretto tra ruolo e persona. Le domande che ci si pone sono molto operative: quali le coerenze/incoerenze della persona rispetto alla posizione? Cosa devo fare, come devo muovermi per rendere la persona più efficace in quello specifico ruolo? In entrambi i casi, è previsto un colloquio in cui lo psicologo certificato procede alla restituzione ed elaborazione condivisa dei risultati. In questo ambito, due le più diffuse ed efficaci famiglie di test: Hogan (più articolati e più costosi), SHL (più semplici ed economici).

Il Capo Dipartimento – in accordo con la Scuola – ha chiesto di percorrere entrambe le strade, sia per avere le migliori possibilità di individuare con precisione il profilo di competenze, sia per sperimentare e capire in modo pragmatico la metodologia più adatta.

L’ambiente di apprendimento e di sviluppo

Una volta completata la fase di assessment, PCM ha avuto a disposizione tre set di documenti: le job delle posizioni mappate, i profili di ruolo e il profilo di competenze delle persone che coprono i ruoli sotto esame e che si sono offerte volontarie. Il confronto tra job profiles e profilo di competenze delle persone ha consentito di individuare le aree in cui è necessario intervenire per rafforzare la persona e accrescere il grado di copertura della posizione.

Dalle aree di miglioramento individuate si desume un percorso individuale e/o collettivo di formazione in senso lato. Tale percorso può includere occasioni e ambienti di apprendimento quali la formazione in aula, il coaching individuale, project work guidati, business games o altro che possa essere coerente con il fabbisogno segnalato.

Il piano di sviluppo non è ancora stato completato. Alcuni dati sono però già disponibili e si sta operando sulla progettazione esecutiva. A titolo di puro esempio, ecco alcuni dei temi che sono emersi e che sono oggetto di lavoro:

  • La motivazione e le attitudini dei collaboratori
  • I processi decisionali in ambienti politicamente complessi
  • La negoziazione e la gestione dei conflitti al di fuori dei ruoli gerarchici
  • La gestione del potere “informale”
  • I network e la loro influenza sulle decisioni.

I risultati prodotti e i prossimi passi

In attesa di vedere il piano di sviluppo completo, è utile far luce su alcuni importanti risultati che riguardano il lato change.

Prima di tutto, PCM ha deciso di proseguire il progetto e di renderlo obbligatorio per tutti i dirigenti. Di fronte ai rischi paventati da molti all’avvio del percorso, questo è di per sé un brillante esito. Di più! Tale decisione è sì il frutto della managerialità e del coraggio del Capo Dipartimento (donna…), ma anche dei segnali confortanti emersi durante e alla fine del progetto “pilota”. Le interviste sono state accolte con sospetto (“Ho molto da fare, vero che finiamo rapidamente?”), poi rese ampie, profonde, interessanti (i tempi effettivi sono stati quasi sempre molto più lunghi dei tempi ufficiali). La stesura delle job è stata recepita dapprima con curiosità, poi con soddisfazione (“Finalmente so che faccio e che fanno i miei colleghi”). La partecipazione agli assessment in presenza e via web ha suscitato qualche preoccupazione (“Ma la mia privacy? Cosa vogliono sapere di me e della mia personalità? Ma che domande fanno?”), ma – dopo le prime esperienze e le conseguenti “chiacchiere informali” – è diventata quasi normale e per nulla ostacolata. Al momento sono in corso i colloqui di feedback e le reazioni sono ampiamente positive, non abbiamo rilevato alcuna resistenza, tanto meno “incidenti”.

In sintesi, il progetto ha creato un’atmosfera altamente positiva e, francamente, contro ogni previsione. Il progetto “gode di ottima stampa” e le persone coinvolte sono tutte mediamente soddisfatte dell’esperienza, ritengono il processo “faticoso, ma interessante e utile”, riconoscono l’utilità delle job, dei job profiles e dei profili di competenze, tanto che nessuno ha negato la propria disponibilità per la prosecuzione. Ne è testimonianza concreta la decisione di affidare alla SNA l’incarico di ampliare il progetto e coinvolgere tutti i restanti 250 Dirigenti e Capi Dipartimento.

Tutto questo è sufficiente per affermare che si è riusciti a cambiare un pezzo della PA centrale? Assolutamente no, ovviamente. Qualche elemento positivo è indubbiamente emerso e consente di essere moderatamente ottimisti. Se è vero che i tentativi di valutare le prestazioni sono tutti miseramente falliti, parrebbe opportuno verificare l’efficacia della strada aperta: rendere coerente persone e posizioni con meccanismi di selezione e mobilità “oggettivi” e premiare i migliori con i sistemi di sviluppo e, conseguentemente, con la carriera.

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