Recensione: Smetto quando voglio. Il lavoro nel nuovo millennio tra quiet quitting e silenzio organizzativo 

  Paolo Iacci, Egea, Milano, 2024

«Smetto quando voglio» è il tranquillizzante ritornello con cui chi è a rischio di una qualche dipendenza rassicura sé e gli altri di essere in grado di controllare la situazione. Lo stesso che Paolo Iacci adotta come titolo di questo agile e incisivo volumetto che esamina lo stato odierno del rapporto tra le persone e il lavoro. Persone che già vengono classificate come dipendenti in senso giuridico in quanto soggetti di un rapporto di lavoro subordinato. E con un curioso shift semantico lo diventano in senso metaforico perché a rischio di workaholism cioè di dipendenza dall’abuso di lavoro, assimilabile (non senza qualche forzatura) a quello di alcool, nicotina, caffeina e altre sostanze

È difficile trovare qualche imprenditore, politico, manager privato o pubblico che non si dichiari per la centralità delle risorse umane. E ancora più difficile trovarne due che concordino sul significato di questa centralità. L’espressione è ormai consunta e rischia di diventare inutilizzabile. Soprattutto a fronte della progressiva diminuzione del numero di coloro che si dichiarano per la centralità del lavoro nella loro esperienza esistenziale. Il che apre le porte al quiet quitting di cui parla Iacci. 

Molti giovani (e meno giovani) stanno dimostrando un crescente distacco nei riguardi del lavoro che viene vissuto in termini strumentali e non per i suoi contenuti e per le opportunità di esprimersi, di apportare un contributo originale, di intessere relazioni e arricchire esperienze. Sono forse da evitare argomenti che servono a dare ai giovani spiegazioni consolatorie che capovolgono il problema (il distacco del lavoro nei riguardi dei giovani) e rimandano a mancanze della società, della scuola e delle aziende. È preferibile cercare di sfidarli a darsi carico del problema. È una sfida epocale che richiede alle nuove generazioni uno sforzo creativo per cogliere le opportunità che la tecnologia, le crescenti sensibilità sociali e ambientali, i bisogni emergenti nei servizi alle persone offrono a chi voglia innovare i contenuti del proprio lavoro senza aspettare che siano «altri» a dirgli cosa fare.

Un recente rapporto Censis-Eudaimon rileva che il 67,7% degli occupati italiani auspica una riduzione del tempo dedicato al lavoro. Questo desiderio si manifesta in misura crescente al crescere dell’età e raggiunge quasi il 70% tra gli over 50 per i quali sconfina presto nel pensionamento vissuto come liberazione. Mentre nei giovani si esprime attraverso l’esigenza di focalizzarsi su attività e valori personali ritenuti più importanti. Attualmente, il 30,5% degli occupati (34,7% tra i giovani) afferma di impegnarsi solo per lo stretto necessario. Una vera e propria fuga dal lavoro.

Siamo un po’ lontani dalla visione di un grande studioso del lavoro come Elliott Jaques (1917-2003): «Il lavoro di una persona non soddisfa solo i suoi bisogni materiali. In un senso molto profondo, gli dà una misura del suo equilibrio mentale». Secondo questa prospettiva la qualità della vita è in relazione con la qualità del lavoro ed entrambe influiscono sul valore generato. Concorda Iacci: «È attraverso il lavoro che l’uomo esprime sé stesso e la propria capacità di incidere nello sviluppo sociale. Individuale e collettivo». Iacci interpreta i dati sopra richiamati in senso evolutivo e lascia intravvedere un recupero: «La spinta verso il lavorare il meno possibile sta in molti casi lasciando il posto alla voglia di trovare piacere e divertimento nel proprio impiego facendo però attenzione a evitare di esagerare», evitare di cadere nel workaholism

Dovremmo distinguere tra il valore generato per l’impresa e misurato in termini di efficienza, produttività e così via, e il valore generato per le persone stesse e per la società. Per le persone si deve capire che oltre al ritorno in termini economici è decisivo il ritorno in termini di gratificazione individuale e sociale, di coinvolgimento emotivo e professionale. In questo non aiuta l’eclissi dei «mestieri» tradizionali e il loro dissolvimento in «mansioni» che si scompongono e ricompongono a un ritmo dettato più dalla tecnologia che da un disegno di costruzione di una figura professionale. La concezione di questo disegno resta un fatto essenzialmente individuale che richiede impegno, motivazione e responsabilità. E formazione, molta formazione – aggiunge Iacci. Richiede anche un ambiente organizzativo meno silenzioso, più adatto ad accoglierlo a valorizzarlo assumendo responsabilità verso la comunità e il futuro. 

«Che fine ha fatto il futuro?» Si chiede Iacci. In effetti si ha la sensazione di essere immersi in un ambiente dominato dalla ricerca spasmodica di risultati economici di breve periodo, se non istantanei, senza memoria, senza visione, senza responsabilità. Dove la centralità del lavoro è solo una figura retorica che non trova certo consistenza nell’esperienza di lavoro in sé e che non può essere surrogata da qualche (per altri versi apprezzabile) misura di riduzione dell’orario di lavoro, welfare aziendale, di smart working e simili.

Vale ancora la distinzione classica tra lavoro prescritto e lavoro discrezionale. Per i lavori prescritti, figli dell’epoca fordista, è iniziata da tempo una lunga marcia di trasferimento alle macchine. Anche se non sarà facile evitare il rischio di un «neo-fordismo digitale», tale trasferimento richiederà molto più tempo e più gradualità di quanto non paventino gli apocalittici di una robotizzazione che non sarà mai totale, mentre tutti i lavori subiranno processi di ibridazione con forme di automazione operativa, informativa e decisionale. Questa ibridazione consentirà di essere più efficaci e produttivi in molte attività e di liberare tempo per dedicarsi ad altro. 

Dedicarsi in particolare ai lavori discrezionali che richiedono capacità di giudizio, intuizione, attenzione etica ed estetica, creatività e imprenditorialità. Diventare imprenditori di sé stessi non è solo un’immagine retorica bensì una prospettiva di lavoro reale nella quale emergono l’investimento e il rischio, assenti in una carriera tradizionale. Si tratta di ingredienti essenziali per la (ri)costruzione del senso del lavoro che resta un processo tipicamente umano e individuale che può essere potenziato ma mai sostituito dalla rete sociale e dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale.

Probabilmente si dovrà estendere il concetto di lavoro a tutte le attività, comprese quelle esterne al rapporto d’impiego: il lavoro di cura e di supporto familiare, il volontariato (quello vero), le attività artistiche senza scopo di lucro e altro ancora. Si tratta pur sempre di lavoro ancorché non retribuito, almeno per ora. Ma domani? La riduzione del «tempo necessario» per la produzione genererà enormi aumenti di produttività e potrebbe consentire di sviluppare servizi idonei a rimettere in circolo e distribuire più equamente l’enorme ricchezza così creata. Servizi con un elevato grado di interazione umana e personale che dovrebbero consentire anche di assorbire l’occupazione resasi eccedente nell’industria.  Conclude Iacci: «È giunta l’ora di un nuovo umanesimo, a partire dalle attività economiche […] Nella sua storia l’umanità ha commesso il grave errore di separare tecnologia e umanesimo. È giunta l’ora di riparare a questo errore». Il vero banco di prova, la vera sfida da vincere per questa riunificazione sarebbe quella di far dialogare l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana.

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Professore emerito di Organizzazione Aziendale
Università di Padova

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