L’inclusione delle persone con disabilità può essere osservata attraverso la sua rappresentazione. Le differenze tra il simbolo ISA (Wheelchair symbol) e le sue più recenti versioni diventano così un modo per esplorare come queste rappresentazioni nei contesti organizzativi possano avere un effetto inclusivo, guardando a questi simboli come artefatti organizzativi.
Introduzione
L’obiettivo di questo articolo è esplorare il significato del simbolo ISA come artefatto dell’inclusione organizzativa, nel contesto di Rete Ferroviaria Italiana (RFI). A partire dalla comprensione che chi abita le organizzazioni ha degli artefatti (Pratt e Rafaeli, 2006), questo approccio, simbolico e inclusivo, intende trasmettere plurali significati; “prodotti” di una cultura organizzativa. Con almeno due conseguenze evidenziate in letteratura (Sicca, 2020):
- “prodotto”, in quanto participio passato di un verbo all’infinito, indica sia che tutto è già accaduto, rilanciando quindi l’attenzione alla questione sui processi, come si fa; sia che gli artefatti sono anche un fattore di produzione della cultura organizzativa, come si vedrà a partire dagli studi sul simbolismo;
- il riferimento a di una cultura organizzativa indica un assunto epistemico rivolto al costruttivismo (Berger e Luckmann, 1969), ripreso ad esempio da Karl Weick (1969) sulla dimensione cognitiva del processo dell’organizzare (organizing).
In questo lavoro, pertanto, si affronterà il complesso rapporto tra la dimensione simbolica e quella artefattuale, ripercorrendo gli sviluppi che lo studio sugli artefatti hanno avuto in letteratura (paragrafo 1) e analizzando la dimensione simbolica in riferimento all’inclusione organizzativa (paragrafo 2). Si affronterà poi lo sviluppo del simbolo ISA, passando in rassegna i più recenti studi che se ne sono occupati, al fine di metterne in evidenza specificità e elementi critici (paragrafo 3). L’ultima parte dell’articolo, infine, vedrà una lettura di come un’analisi simbolica possa essere di supporto al miglioramento delle condizioni di inclusività delle persone con disabilità, pur restando consapevoli che l’utilizzo di una simbologia inclusiva è soltanto un primo passo per tracciare percorsi organizzativi di inclusione.
Negli ultimi anni, le aziende di trasporto hanno iniziato a dedicare sempre maggiore attenzione all’utenza con disabilità, sia per ragioni normative che per ragioni di responsabilità sociale. Nel caso di RFI, la divisione del gruppo Ferrovie dello Stato che si occupa della gestione dell’infrastruttura ferroviaria – e dunque della rete e delle stazioni – quest’attenzione non si rivolge solo ai servizi offerti e alle condizioni generali di trasporto, ma anche ad alcuni artefatti e simboli. RFI offre alle persone con disabilità l’utilizzo di specifiche sale in cui chiedere e ricevere assistenza e ha sviluppato un logo apposito, denominato Meeting point, per indicarle. La disabilità è infatti comunemente rappresentata tramite il Simbolo Internazionale di Accesso (ISA), noto anche come Wheelchair Symbol, sul quale alcuni studi recenti (Vice et al. 2020) hanno segnalato profili di criticità, che saranno affrontati nei paragrafi successivi. Questo logo è in realtà solo uno degli ultimi tentativi di innovare la rappresentazione iconica della disabilità e questa è un’esigenza che non deve sorprendere: un simbolo, lungi dall’essere solo un elemento grafico, veicola significati, talvolta ambigui e plurali, che catturano l’interesse degli studiosi simbolisti. Il simbolismo organizzativo si sviluppa come corrente abitata da studiosi che si posizionano ai margini di una dimensione tecnico-razionalista delle organizzazioni, contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti (Gagliardi, 1986). Il loro scopo era inizialmente quello di adottare una dimensione di analisi soft, che tenesse conto di come i sistemi di credenze e di valori sottesi a un’organizzazione diventassero visibili in oggetti riconoscibili come artefatti (Gagliardi, 2011), per loro natura custodi di significati molteplici e spesso polivalenti. Secondo gli studiosi simbolisti, i significati essenziali dell’organizzazione sono celati in piccoli comportamenti, in codici apparentemente trascurabili, che avevano lasciato spazio, fino a quel momento, a grandezze considerate primarie, come il vertice strategico, la struttura, il sistema di interdipendenze.
Secondo i maggiori sostenitori di questo movimento (Gagliardi, 1986; Alvesson e Berg, 1992), i due momenti che sanciscono ufficialmente l’introduzione della visione simbolista delle organizzazioni sono l’incontro a casa di Lou Pondy (Kilduff, 1986) di un gruppo di studiosi che poi avrebbero partecipato alla pubblicazione della raccolta di saggi dal titolo Organizational Symbolism (Pondy et al., 1983), e una serata in un pub di Glasgow, avvenuta nel 1981 durante un convegno dello European Group of Organization Studies (EGOS), in cui viene fondata la Standing Conference of Organizational Symbolism (SCOS), che diventa prima una rete informale di studiosi che si sentono stretti nei vincoli disciplinari esistenti, e che progressivamente si istituzionalizza fondando un proprio gruppo (che attualmente si riunisce ogni due anni) e una rivista, che viene fondata con il nome di Dragon e che diventa prima Studies in Cultures, Organizations and Societies e che infine, sedimentando lo studio interno alla cultura organizzativa (Strati, 2017), diventa Culture and Organizations.
Lo studio degli artefatti e delle culture organizzative
La prima attestazione nella lingua italiana[1] della parola artefatto risalirebbe al 1654, nel romanzo di Emanuele Tesauro, dal titolo Il cannocchiale aristotelico, intendendo come artefatto ciò che si contrappone a naturale. Nel 1708 invece, Anton Francesco Bertini (con lo pseudonimo di Anton Giuseppe Branchi) utilizzò la parola artefatto con una diversa intenzione, indicando genericamente quanto di buono fosse fatto da mano umana, e lo fece per difendersi dalla censura del suo racconto “Lo specchio che non adùla”[2]. Il fatto che Tesauro fosse un drammaturgo e Bertini un medico ci suggerisce i possibili percorsi di evoluzione di questo lemma. Infatti, secondo la Treccani, la parola artefatto indica qualcosa di “fatto con artifizio, artificioso, adulterato”, che compromette quindi l’integrità di qualcosa. Artefatto si dice di un vino il cui processo naturale di fermentazione è stato corrotto con sostanze esterne, o anche di un errore nello sviluppo di un’immagine fotografica; si dice poi anche di comportamenti umani non spontanei e che sono giudicati negativamente da chi li osserva.
Dal punto di vista degli studi organizzativi, tra i maggiori contributi allo studio degli artefatti troviamo la visione della cultura organizzativa di Edgar Henry Schein (2010 [1985]) che individua tre livelli attraverso cui studiare la cultura nelle organizzazioni, distinti attraverso il loro grado di osservabilità. Gli artefatti rappresentano, secondo la visione di Schein, il livello maggiormente visibile, nonché la manifestazione in superficie di quelli che sono gli assunti di base, cioè idee e valori innervati nella cultura organizzativa che sarebbero poi responsabili dei comportamenti di chi le organizzazioni le abita, e degli esiti dei processi decisionali sottesi. Questa visione di cultura organizzativa consegna storicamente a Schein lo scettro di autore chiave di un’idea di cultura che stava conoscendo il suo maggiore sviluppo in quegli anni, soprattutto grazie alla contrapposizione sia con i modelli organizzativi razionalisti, sia con quelli contingenti, che stavano entrambi per essere messi in discussione[3]. Schein propone i suoi tre livelli di analisi della cultura organizzativa prima nel 1984, sullo Sloan Management Review, e nel 1985 con la prima edizione di Organizational Culture and Leadership. Quasi parallelamente si sviluppa un’idea di artefatto organizzativo che sembra simile a quella di Schein, ma che parte da presupposti epistemologici diversi, cioè quelli degli studiosi simbolisti. Per gli studiosi del simbolismo organizzativo, la cultura non è una variabile nelle organizzazioni, non può essere considerata come categoria teorica da far interagire con altre categorie teoriche come la struttura, la rete e altre. Le organizzazioni sono proprio delle culture, e in quanto tali contengono sistemi di valori i cui significati che sono trasmessi attraverso gli artefatti (Gagliardi, 1990). Gli artefatti quindi sono osservabili, ma non rappresentano (almeno non solo) un livello superficiale della cultura organizzativa. Sono veicoli di significato, attivi nel coltivare e sviluppare la cultura organizzativa, in una dimensione prevalentemente estetica, cioè mediata dai sensi. Nella letteratura organizzativa, queste due premesse epistemologiche continuano a convivere. Infatti, l’articolo di Schein del 1984 è stato pubblicato in italiano nel volume curato da Gagliardi, Le imprese come culture (1986) e parimenti Schein, a partire dalla seconda edizione di Organizational culture and leadership (1997) ha inglobato la visione simbolista degli artefatti:
“Some culture analysts argue that among the artifacts, you find important symbols that reflect deep assumptions of the culture, but symbols are ambiguous, and you can only test a person’s insight into what something may mean if the person has also experienced the culture at the deeper level of assumptions (Gagliardi, 1990)” (Schein, 2010: 24).
Pur avendo riconosciuto l’approccio simbolista, Schein (espressione di una tradizione di psicologia delle organizzazioni e punto di riferimento negli anni a seguire della cultura prevalente – mainstream – di management) non ha ceduto al richiamo della profondità degli artefatti organizzativi, mediati dai sensi, neanche nelle edizioni successive del suo testo. La spiegazione della coesistenza di queste visioni degli artefatti organizzativi in un’estetica delle organizzazioni (Strati, 1999) può essere attribuita all’approccio non dogmatico seguito dalla tradizione simbolista. Se da una parte, il recupero della tradizione dell’antropologia delle organizzazioni proposta in apertura di questo scritto ha consentito di poter guardare alle organizzazioni come culture, dall’altra lo studio dei valori simbolici degli artefatti organizzativi porta ad interpretazioni ambigue, perché plurimi sono i messaggi che i simboli possono rappresentare a seconda dei gruppi con cui interagiscono. Si vedano di seguito alcuni studi sull’uso degli artefatti nelle organizzazioni.
Uno degli artefatti di maggior interesse per gli studiosi di organizzazioni sono stati storicamente gli edifici aziendali. Se è vero che nell’era della digitalizzazione la collocazione fisica delle aziende assume sempre meno importanza, è anche vero che alcune associazioni tra luogo fisico e azienda continuano ad avere un potere evocativo. Senza intenzione di approfondire le motivazioni di tale potere evocativo, si ricorda a livello nazionale il l’idea di distretto industriale e a livello internazionale la Silicon Valley, ormai sinonimo di attività a forte concentrazione tecnologica e innovazione. Berg e Kreiner (1990) nel loro studio sugli edifici aziendali come risorse simboliche affrontano il valore che gli edifici e l’organizzazione del setting fisico hanno come artefatto organizzativo. Il maggior contributo di questo studio è stato quello di notare che se è vero che l’architettura e il design degli artefatti fisici trasmettono significati simbolici, percorrere la strada all’inverso è molto più complicato se non addirittura impossibile. Infatti, nonostante gli investimenti e gli sforzi di alcune aziende da loro studiate, non è per niente facile immaginare ex ante un significato da immettere artificialmente in una cultura. Ciò che si mette di mezzo è il linguaggio scelto, cioè quello dell’architettura, che non risulta in grado di recepire concetti e riflessioni che siano troppo complessi, i cui codici non sono assimilabili dalle architetture. Pur essendo meno imperante al giorno d’oggi la rappresentatività dei quartier generali delle multinazionali e in generale delle medie e grandi aziende, l’intuizione di base dei due autori si fonda sull’importanza dell’immagine nella comunicazione della propria identità.
Fa da controcanto a questa prospettiva Robert Witkin (1990) che con l’idea di “imperativo estetico” segna una separazione netta tra gli artefatti e la dimensione superficiale della cultura organizzativa. Assumendo una stretta correlazione tra esperienza estetica – mediata cioè attraverso i sensi – e conoscibilità dell’organizzazione, Witkin critica qualsiasi banalizzazione tesa all’apparire dell’estetica organizzativa e si concentra su quella che definisce una “presenza strutturata”, un modo di essere nell’organizzazione che è dettata dall’esperienza sensoriale in rapporto con il setting fisico. Gli artefatti possono essere studiati anche attraverso le norme e le routine (Royer e Daniel, 2019). Nel primo caso gli artefatti posso contenere meccanismi coercitivi (Schulz, 2008), ma anche principi che diventano poi istituzionalizzati (Lawrence e Suddaby, 2006). Quando gli artefatti sono invece delle routine, queste si rinforzano a vicenda, tendendo a rendere i significati simbolici sempre più espliciti e dimenticando quasi, in sede di analisi organizzativa, il valore artefattuale di quelle manifestazioni.
Simboli e inclusione organizzativa
La questione della simbologia ha una considerevole importanza sul piano dell’inclusione organizzativa. Questo è un costrutto che si distingue dall’integrazione e che considera l’individuo nella propria unicità e appartenenza (Shore, 2011), nella misura in cui l’individuo non deve soltanto sentirsi parte di un’organizzazione, ma deve percepire la propria unicità come valorizzata.
Come si legge infatti in una riflessione di Sicca, (2016):
“L’inclusione avviene attraverso le sollecitazioni che, chi è al centro (con ruoli di governo delle pratiche vigenti), riceve da chi abita i margini. Sono i margini i luoghi in grado di stimolare una rilettura delle prassi prevalenti e del pensiero ad esse sotteso”.
Con ciò si intende che, mentre nella logica dell’integrazione si richiede a chi è ai margini di un sistema dato di conformarsi a pratiche esistenti per, appunto, poter essere integrato, il punto di vista dell’inclusione organizzativa è quello di un ripensamento delle cornici esistenti sulla base delle esperienze di chi ne era escluso, con l’obiettivo di una rimozione delle cause stesse dell’esclusione (Nolfe e Sicca, 2020). Si tratta di un costrutto teorico che si adatta alla riflessione sulla disabilità a partire dalle sperimentazioni sulla simbologia della mobilità il cui impedimento esprime il primato del danno ai diritti della persona. Infatti, l’indipendenza alla mobilità non solo in una società evoluta, ma in assoluto in termini archetipici è per definizione esperienza di relazione con il proprio corpo, (Kelly e Field, 1996), di rappresentazione della soggettività, anche a dispetto (e pur nel rispetto, non neutrale) del salto di paradigma tecnologico dell’ultima manciata di anni che consente una sempre più fitta interazione su scala globale a distanza, in tempo reale. Si tratta, evidentemente, di un tema che tocca nel profondo la condizione della soggettività, come anche di quella con disabilità fisica o motorie che assurge in questo modo a lente di ingrandimento che rende cioè visibile una condizione (considerata marginale), che interessa dinamiche dell’agire organizzativo in realtà presente anche in contesti considerati centrali. Se poi si considera che il mondo della disabilità non è limitato alle sole specificità motorie, ma che queste sono una parte del tutto; allora risulta evidente come le questioni qua poste (assicurare autonomia in dialogo con l’alterità è uno dei cardini della soggettività) esprimono proprio quel potenziale da noi attribuito al costrutto dell’inclusione, come sede ideale per la migliore comprensione dei contesti sociali.
I simboli e il simbolismo, vanno dunque pensati, studiati, progettati e interpretati a partire da questa impostazione: perché nel contrassegnare o delimitare un luogo, uno spazio o un’attività, incorporano visioni e pratiche, diventando essi stessi elementi di inclusione o esclusione.
Il simbolo ISA
Il Simbolo internazionale di accessibilità (International Symbol of Access), brevemente ISA, fu ideato nel 1968 da Susanne Koefed e successivamente modificato da Karl Montan, e adottato ufficialmente nel 1969 (figura 1). Fu inizialmente creato per indicare accessi e spazi dedicati a persone con disabilità motorie, ma nel corso del tempo ha assunto un significato via via più ampio: è oggi spesso utilizzato per riferirsi a tutte le disabilità. Il simbolo contiene dei messaggi che sono rivolti all’utenza con disabilità, segnalando un posto assegnato, ma allo stesso tempo si rivolge anche a coloro che non sono disabili, prescrivendo un comportamento, ad esempio quello di non occupare il posto assegnato.
Nel corso degli anni sono emerse alcune critiche a questo simbolo (Ben-Moshe e Powell, 2007) e gli elementi risultati maggiormente problematici in questa raffigurazione sono molteplici. A nostro parere tra i più rilevanti, innanzitutto, vi è la staticità e passività della figura rappresentata; a ciò si aggiunge, ed è forse la questione maggiormente complessa, che ormai questo simbolo è una sineddoche, utilizzato infatti per rappresentare tutto il dominio della disabilità, quando invece era nato per indicarne solo un segmento specifico.
Contraddizioni nel simbolo ISA e proposte di superamento
Alcuni recenti lavori (Barstow et al. 2018; Vice et al. 2020) sembrano confermare che il simbolo ISA contiene elementi contraddittori; vale la pena, in questa sede, di riportare cosa sia stato riscontrato.
Una delle cose che risaltano è che questo simbolo non è in grado di rappresentare tutte le diverse possibili disabilità motorie, perché non tutte vengono affrontate con l’uso della sedia con le ruote, e ancor meno può rappresentare ogni tipo di disabilità. Dunque da simbolo inclusivo, quale dovrebbe essere, risulta al contrario contenere un effetto esclusivo. In Vice et al. (2020) si sottolinea però una differenza di percezione connessa all’età dei rispondenti: il gradimento generale per questo simbolo risulta proporzionale all’età anagrafica.
Contemporaneamente, all’interno dello stesso studio, emerge che le persone con disabilità esprimono una valutazione più favorevole al simbolo ISA, probabilmente recuperando il so aspetto funzionale, rispetto alle persone che non hanno disabilità.
Per quanto attiene alle questioni affrontate in questo lavoro l’aspetto più interessante che si può rinvenire nello studio di Vice et al. (2020) è che molti intervistati collegano il simbolo ISA unicamente alla disabilità motoria e, in particolare, svariati di loro hanno mostrato di ritenere che esso serva a indicare che una zona è dedicata esclusivamente alle persone che utilizzano la sedia con le ruote. Peraltro, non sorprendentemente, la valutazione di questo simbolo è maggiormente favorevole tra gli intervistati che presentano disabilità motorie piuttosto che tra coloro che presentano altri tipi di disabilità.
È necessario ricordare che si tratta di uno studio condotto con una grande maggioranza di rispondenti provenienti dagli Stati Uniti, rendendo la valutazione geograficamente connotata, ma con probabili elementi di comparazione anche in Europa. D’altronde, come abbiamo visto, le critiche all’ISA non sono una novità recente, così come non lo è il tentativo di superarlo.
La necessità di intervenire su questo simbolo, infatti, è emersa ormai da tempo e non solo dall’altro lato dell’Oceano Atlantico: nel corso degli ultimi anni sono emerse svariate proposte, preparate da molteplici attori e organizzazioni, per innovare questo simbolo che sembra ormai risentire del tempo trascorso. Alcune di queste proposte sono menzionate nel lavoro di Ben-Moshe e Powell; in questa sede ci accingiamo a nostra volta a passarne in rassegna una breve selezione che include le sperimentazioni a nostro parere maggiormente significative.
Innanzitutto Dominguez et al. (2013) ricordano che tra il 1999 e il 2000 la ICTA (International Commission on Technology and Accessibility) ha prodotto due nuovi simboli, da utilizzarsi separatamente o in congiunzione con l’ISA: uno volto a ricomprendere tutto il dominio della mobilità, e l’altro dedicato alle disabilità uditive (figura 2). Lo stesso studio sottolinea altresì che permangono svariate mancanze nella raffigurazione delle diverse forme di disabilità, tra le quali spicca l’assenza di un’icona in grado di rappresentare le disabilità cognitive.
È del 2013 l’Accessible Icon Project, un tentativo di correggere uno degli elementi più problematici dell’ISA, ovvero la staticità e passività che sembra emergere in tale raffigurazione: in questo caso, infatti, l’individuo sulla sedia con ruote viene rappresentato in una posa dinamica (figura 3).
Questo nuovo simbolo però non ha trovato un riscontro positivo dall’International Organization for Standardization (ISO), che non ne ha approvato l’utilizzo generalizzato.
Un ulteriore e più recente rifacimento dell’ISA è quello elaborato dalla Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) nel 2019. In questo caso, l’individuo sulla sedia con ruote indossa un casco automobilistico (figura 4): quest’immagine va infatti apposta su ogni veicolo iscritto a una competizione sportiva organizzata sotto l’egida della FIA il o la cui pilota sia una persona non deambulante. Come si legge nel comunicato della Federazione, ciò è obbligatorio e serve a identificare i veicoli il cui pilota potrebbe aver maggiormente bisogno di assistenza in caso di accidente.
Quello che costituisce ad oggi il tentativo forse più ambizioso di superare gli elementi critici dell’ISA, sostituendolo integralmente con una nuova raffigurazione, è il simbolo creato dall’ONU nel 2015 (figura 5). In questo, gli elementi di design che hanno caratterizzato i simboli precedenti, a partire dalla sedia con ruote, ma anche il disegno bianco su campo blu, vengono accantonati in favore di una figura umana stilizzata.
Neanche questa nuova icona è stata però esente da critiche: alcune voci hanno individuato una somiglianza con l’Uomo vitruviano, l’opera di Leonardo da Vinci che raffigura l’essere umano perfetto, concetto che sembra poco adatto a rappresentare l’inclusione delle diversità.
Un approccio diverso è invece stato utilizzato da RFI per la creazione del simbolo che indica i Meeting point ovvero, come si anticipava all’inizio, gli spazi nei quali, all’interno delle stazioni, le persone con disabilità possono richiedere e trovare assistenza. In questo caso il nuovo simbolo viene costruito con la giustapposizione di quattro simboli già esistenti (ISA, disabilità visive, disabilità motorie e disabilità uditive), per rappresentare un più ampio spettro della disabilità (figura 6).
Rileggere l’accessibilità attraverso l’inclusione
I processi di inclusione delle persone con disabilità sono lunghi e coinvolgono svariati attori. Il simbolo dal quale abbiamo preso le mosse per questa riflessione è prodotto (nell’accezione proposta al paragrafo 1) di una loro prima fase, quella della presa di consapevolezza e delle prime azioni istituzionali ma, come sembra emergere dalla letteratura esaminata, esso non sembra più sufficiente a rappresentare una sensibilità fattasi man mano più articolata.
Se questo, da un lato, valorizza l’importanza dell’elemento simbolico nell’inclusione organizzativa, nella quale il simbolo stesso ha la forza di un artefatto, dall’altro fa emergere la necessità di una più approfondita analisi sulla rappresentazione della disabilità, che altrimenti rischia di non poter essere raffigurata con una pienezza di significato consona alla sensibilità contemporanea. La strada proposta in questo articolo è quella di valorizzare i simboli legati all’accessibilità come artefatti organizzativi. Tra le possibili direzioni per la valutazione della dialettica tra azione organizzative e azione individuale (Sicca, 2021), sembra utile tenere presente sia la polisemia dei significati trasmessi a diversi gruppi di interesse, sia i significati veicolati nella sedimentazione della cultura organizzativa. Lo stesso simbolo, comunica alle persone con disabilità una possibilità di accesso all’organizzazione, prescrive dei comportamenti che non siano d’ostacolo all’accessibilità e infine suggerisce modalità in cui interagire con l’utenza, nelle fasi di assistenza e di supporto alla mobilità e parimenti gli artefatti sono sentieri e tracce della vita organizzativa, percepiti attraverso i sensi (Gagliardi, 1990). La difficile sfida di conoscere l’universo vario della disabilità attraverso l’uso di simboli che non dimenticano una natura funzionale (prescrivere un comportamento) può contribuire allo sviluppo di una società più attenta e pronta alle sfide dell’accessibilità, mai solo motoria e solo funzionale, che la renda, si spera, inclusiva.
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[1] Bergantini, Gian Pietro, Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca, Venezia, 1745.
[2] Si riportano le ragioni per l’utilizzo di quello che il Bertini definisce egli stesso un latinismo (artefatto), al solo scopo di comprendere l’enorme peso che il medico fiorentino riponeva nell’azione di ‘fare con arte’. Il suo acerrimo critico, tale Giovan Paolo Lucardesi, letterato di Buggiano e già paziente (probabilmente insoddisfatto) del Bertini, attribuiva al medico originario di Castelfiorentino l’utilizzo di “metafore ardite”. Il Bertini, sotto lo pseudonimo di Branchi, argomenta la critica, facendo riferimento alle metafore ardite di Platone, definite tali dalle autorevoli analisi di Dionisio Longino e Diogene Laerzio, i quali sottolineavano l’eccessiva distanza che Platone poneva tra il verso e la prosa nella metafora “le gomene dell’anima”. Nei vari passaggi descritti dal Bertini, dal verso alla prosa, la gomena diventa prima fune, poi vincolo, poi artefatto (e il Bertini incalza scrivendo che vi è certo nessun permesso da chiedere a Lucardesi per poter utilizzare un latinismo), poi oggetto sensibile e infine oggetto insensibile, così da essere finalmente associato all’anima. Quindi, ciò che il Lucardesi aveva definito metafora ardita era, secondo l’opinione di Bertini, di ben più immediata comprensione rispetto a ciò che la critica letteraria (Longino e Laerzio) aveva storicamente definito come metafora ardita.
[3] Per un resoconto di come l’attenzione agli aspetti culturali si diffondono in contrapposizione ai modelli organizzativi esistenti, si veda l’introduzione di Gagliardi, P. (1986).