L’articolo passa in rassegna tre studi pubblicati di recente per offrire un contributo sul ruolo che gli spazi di lavoro denominati collaborativi o creativi possono giocare nei processi di interazione collaborativa per l’innovazione. In particolare, vengono discussi gli effetti potenzialmente positivi del lavorare in luoghi dove si condividono spazi e risorse, ma se ne considerano anche i limiti e le potenziali distorsioni. L’articolo fornisce alcune implicazioni manageriali a partire dalla centralità che la motivazione individuale e il senso di comunità assumono all’interno di questi spazi.
Una prospettiva sociale della creatività
Accademici e practitioner sono ormai da anni concordi nell’affermare che l’innovazione rappresenta la chiave per sviluppare imprese e interi paesi e che la capacità di innovare è alimentata dalla creatività di individui, organizzazioni e territori. Sono quindi proliferati gli studi volti a comprendere quali siano le determinanti della creatività a diversi livelli. Se negli ultimi anni la letteratura si è focalizzata sullo studio dell’influenza dei tratti personali e di gruppo sulla creatività (per una review si veda George, 2007), più recentemente si è affermato un filone di ricerca particolarmente promettente che pone l’accento sulle determinanti sociali della creatività (e.g., Montanari, 2018; Perry-Smith & Mannucci, 2017) suggerendo di descrivere e interpretare la creatività come un processo dinamico nel quale entrano in gioco attori diversi che interagiscono tra loro, si influenzano, scambiano e condividono risorse, sperimentano e collaborano su progetti condivisi.
Guidati da questa idea, si cerca di promuovere l’innovazione e di favorire la creatività attraverso pratiche di socializzazione, condivisione e collaborazione, tra le quali rientrano anche gli spazi di lavoro denominati collaborativi o creativi, dentro e fuori le imprese. Da un alto, infatti, sono sempre di più le imprese che ridisegnano i propri edifici e uffici secondo layout e soluzioni di arredo volti a favorire la collaborazione interna, tra unità e attori organizzativi, ma anche l’apertura verso l’esterno. Dall’altro, sta diventando sempre più rilevante il fenomeno dei cosiddetti ‘luoghi terzi’ rappresentati da spazi di co-working, FabLab, incubatori/acceleratori di impresa, Living Lab, makerspace/hackerspace, hub creativi. Questi spazi, da oltre quindici anni presenti sulla scena mondiale, si stanno diffondendo sempre di più anche in Europa e in Italia.
La nostra recente ricerca[1] indica, ad esempio, che in Lombardia – con una maggiore concentrazione soprattutto a Milano – questi spazi sono oltre 200 e che in tutte le regioni del Nord-Est il fenomeno sta crescendo esponenzialmente: in Emilia-Romagna gli spazi collaborativi e creativi – che all’inizio del 2000 erano poco meno di venti – sono oggi circa 150. Il trend crescente caratterizza anche le regioni del centro e sud, dove questi spazi sono meno presenti in valore assoluto, ma stanno velocemente aumentando soprattutto nelle città di maggiori dimensioni.
Gli spazi collaborativi o creativi e il loro legame con l’innovazione
Nel suo articolo “Joining a collaborative space: is it really a better place to work?”, Capdevila (2019) definisce gli spazi collaborativi o creativi come spazi localizzati che danno libero accesso a risorse (es. attrezzature d’ufficio e macchinari di prototipazione) e che sono caratterizzati da una cultura di apertura e condivisione, non solo di strumenti, ma anche di conoscenze e di capacità. Si tratta di spazi di creazione e progettazione che attraggono un mix di attori diversi, non solo singoli individui che possono trarre beneficio da processi di knowledge-sharing e innovazione collettiva (si pensi ad esempio a liberi professionisti o start-upper), ma anche dipendenti di imprese e cittadini, che vengono così coinvolti nelle dinamiche creative della loro organizzazione e del loro territorio Al di là di questa definizione comune, l’autore – basandosi su una literature review dei differenti approcci all’innovazione e su uno studio qualitativo di oltre quaranta spazi localizzati a Parigi e Barcellona – riconosce che gli spazi collaborativi o creativi possono differenziarsi per tipo di governance, per il diverso approccio all’innovazione e, di conseguenza, anche per la motivazione dei frequentatori di tali spazi o partecipanti.
Per quanto concerne il tipo di governance, Capdevila (2019) distingue gli spazi con una logica bottom-up dagli spazi con un approccio top-down. I secondi sono disegnati ad hoc da un’organizzazione che presidia il processo di innovazione nello spazio, come accade per esempio negli spazi collaborativi aziendali o universitari, ma anche in molti Living Lab e FabLab. I primi, invece, sono spazi che rispondono a una logica bottom-up poiché sono creati dagli users, ossia dagli stessi utilizzatori dello spazio che hanno il desiderio di condividere e sviluppare una comunità di interesse; è quanto accade in molti spazi di co-working o negli hackerspace.
Dal punto di vista dell’approccio all’innovazione, secondo l’Autore, ci possono essere spazi collaborativi o creativi che adottano metodi, tecniche e approcci (come ad esempio il design thinking) che guidano la creatività dei partecipanti verso soluzioni innovative a un problema dato, favorendo processi di partecipazione collettiva e di co-creazione. L’utilizzo di queste tecniche prevede che chi partecipa sia selezionato e formato durante tutto il processo. È questo l’approccio che secondo Capdevila caratterizza gli oltre 220 spazi che fanno parte della rete mondiale dei FabLab, laboratori nei quali sono presenti strumenti sofisticati come stampanti 3D, laser cutters e nei quali gli utenti documentano tutti i progetti e li condividono online, avendo accesso anche alla formazione organizzata dalla Fab Academy. A caratterizzare gli spazi di co-working è invece spesso un approccio all’innovazione finalizzato a catalizzare un cambiamento sociale e/o a soddisfare bisogni sociali. Coerentemente, in questi spazi si trovano professionisti e start-up motivati se non da un puro scopo sociale da un mix di orientamento al profitto e finalità sociale.
Gli spazi di co-working non sono solo riservati agli utilizzatori/membri dello spazio, ma sono spazi aperti alla partecipazione dei cittadini, di solito auto-gestiti, autonomi e non dipendenti da finanziamenti pubblici. I Living Lab sono proposti, invece, da Capdevila come intermediari fisici (che così si differenziano dalle piattaforme online) di processi di innovazione aperta, ossia di processi con i quali un’impresa – per sviluppare o migliorare i propri prodotti o servizi – ricorre non solo a fonti di innovazione interne, ma anche a fonti esterne come clienti, utilizzatori, fornitori, concorrenti, università, istituzioni pubbliche. Da questo punto di vista, i Living Lab facilitano la partecipazione fisica degli utenti in processi di co-creazione e di innovazione aperta, basati su sfide di business reali, il cui obiettivo è ottenere risultati tangibili che sono commercialmente sfruttabili o realizzabili sul territorio di riferimento. Gli hackerspace sono, invece, nella proposta di Capdevila, spazi spesso auto-organizzati, non profit, che operano secondo i principi della user driven innovation dell’etica hacker e cioè apertura, condivisione, approccio peer-to-peer, altruismo, sperimentazione, esplorazione.
Infine, sul fronte della motivazione dei frequentatori, come in parte già accennato, Capdevila distingue tra spazi che possono essere frequentati da individui che hanno una forte motivazione intrinseca, ossia che ricercano dall’innovazione cui partecipano un beneficio personale o un impatto sull’ambiente sociale locale, oppure da individui che non sono motivati dal risultato finale dell’innovazione, bensì dalla partecipazione al processo, che può quindi essere incentivata estrinsecamente. Il primo tipo di motivazione caratterizza, ad esempio, i frequentatori di spazi di co–working che si ispirano a modelli bottom-up di innovazione sociale, mentre la seconda è tipica degli utilizzatori di spazi di innovazione aperta top-down, come ad esempio un FabLab (di un’università) o un Living Lab (coordinato da un’impresa e/o una rete di imprese)
Capdevila è consapevole dei limiti della sua analisi, che può risultare forzata dato che, per esempio, i diversi approcci all’innovazione non sono incompatibili e quindi possono essere implementati simultaneamente dallo stesso spazio. Nella realtà, infatti, esistono spazi che combinano diversi tipi di attività e di approcci, così come esiste un’enorme diversità di pratiche tra spazi dello stesso tipo. Inoltre, lo schema proposto da Capdevila suggerisce che il legame tra questi spazi e l’innovazione passa attraverso la natura o lo scopo delle attività che vengono svolte e la motivazione dei frequentatori, che dovrebbero essere allineati. Da questo punto di vista, l’articolo offre interessanti implicazioni e spunti per la gestione di questi spazi, suggerendo che l’innovazione generata negli spazi collaborativi o creativi non possa essere considerata un risultato automatico della mera condivisione fisica di spazi e risorse da parte di utenti con diverse competenze, ma sia il prodotto di una comunità, sia pur guidata da logiche e/o tecniche diverse.
Non è solo una questione di prossimità fisica…anzi!
Nella prossimità fisica – ossia nella ridotta distanza spaziale per avere interazioni face-to-face – Capdevila (2013) aveva già individuato un elemento che rende gli spazi collaborativi o creativi dei microcluster, ossia dei luoghi nei quali si ripropongono, su una scala dimensionale ridotta, dinamiche di mobilizzazione e di condivisione di conoscenza tipiche dei cluster geografici. Più di recente, sempre Capdevila (2015) ha sottolineato come la prossimità fisica di professionisti e lavoratori diversi che frequentano lo stesso spazio possa positivamente interagire con altre dimensioni di prossimità – ad esempio con quella sociale e cognitiva – favorendo lo sviluppo di relazioni basate sulla fiducia reciproca e aumentando così la disponibilità a interagire e a collaborare. La collaborazione è considerata l’elemento essenziale perché soggetti con prospettive diverse condividano informazioni e risorse, risolvano problemi complessi e promuovano l’innovazione.
Tuttavia, ci sono studi che mettono in discussione la relazione positiva tra prossimità fisica e collaborazione. Ad esempio, diverse ricerche hanno dimostrato come lavorare in open office possa innescare conflitti, promuovere comportamenti difensivi della propria ‘territorialità’ e minare la collegialità. Questi studi contribuiscono a spiegare il fallimento di molti spazi collaborativi o creativi pensati per facilitare gli incontri casuali e le interazioni collaborative e finiti per inibire la collaborazione e l’innovazione.
Un contributo su questo giunge da uno studio qualitativo di Irving, Ayoko e Ashkanasy, dal titolo “Collaboration, Physical Proximity and Serendipituous Encounters: avoiding collaboration in a collaborative building” pubblicato nel 2019 su Organization Studies. L’articolo evidenza come la mera prossimità fisica non sia sufficiente a creare dinamiche collaborative e, di conseguenza, a favorire processi di creatività e innovazione collettiva. Al contrario, la ricerca svolta all’interno di un ampio spazio di lavoro open a elevata prossimità progettato e implementato allo scopo di sviluppare nuove relazioni di collaborazione tra gli oltre 1000 dipendenti di tre diverse organizzazioni presenti nello spazio, ha evidenziato come gli attori possano rispondere in diverso modo a elevati livelli di prossimità, anche arrivando a mettere in campo strategie ‘distruttive’ della collaborazione. In particolare, gli autori identificano diverse strategie che i lavoratori mettono in atto per evitare la collaborazione all’interno dello spazio:
- Focalizzarsi sulle collaborazioni esistenti, dando priorità alle collaborazioni già in atto e ricercando eventuali nuove collaborazioni solo con gli attori che già fanno parte della propria rete, rifiutando così le potenzialità offerte da incontri casuali;
- Rinforzare i confini di gruppo, ad esempio socializzando solo con chi appartiene già al proprio gruppo di lavoro ed evitando di interagire con altri gruppi;
- Attivare policies ereditate dalla precedente situazione lavorativa (cioè quando non si lavorava nello spazio collaborativo), ad esempio attenendosi a regole e procedure firm-specific, utilizzando contatti e sistemi di comunicazione della propria organizzazione di appartenenza, evitando opportunità di problem–solving collaborativo;
- Minimizzare le interazioni sociali, stabilendo regole informali che restringono le opportunità di interazione negli spazi di lavoro condivisi, ma anche utilizzando segnali non verbali di indisponibilità a interagire.
Queste quattro strategie innescano altrettanti meccanismi (la non apertura alla casualità/spontaneità; la non ricerca di collaboratori da altri gruppi; la scarsa flessibilità; la riduzione dell’obbligo sociale di interagire) che insieme hanno l’effetto di ridurre quelle interazioni non pianificate e non programmabili, spontanee e informali – in inglese serendipitous encounters – che la prossimità fisica dovrebbe almeno in teoria favorire e dalle quali dovrebbero scaturire occasioni per nuove collaborazioni, condivisione, creatività e innovazione.
Se studi precedenti hanno sottolineato come il desiderio di privacy, la mancanza di comunicazione e di identificazione e il basso livello di engagement organizzativo possano minare l’interazione all’interno di uno spazio collaborativo aziendale, questo studio sottolinea l’importanza della motivazione individuale a collaborare, (l’apertura, la flessibilità e la ricerca attiva di nuove interazioni sociali e collaborative da parte dei frequentatori degli spazi collaborativi). È infatti la combinazione di questi tre elementi a favorire nuove collaborazioni che possono essere incoraggiate, a livello organizzativo, ad esempio fornendo incentivi e, a livello individuale, agendo sulle ragioni che spingono le persone ad attivare comportamenti che favoriscono lo sviluppo di relazioni sociali e collaborative in condizioni di prossimità fisica ed evitino l’isolamento. Un limite di questo studio può essere quello di riferirsi a lavoratori dipendenti che, in quanto tali, afferiscono a un’organizzazione con regole, procedure e sistemi che possono disincentivare i singoli all’interazione spontanea in un contesto di prossimità fisica e portano ad attribuire maggiore importanza alle ricompense estrinseche legate alla collaborazione. Tuttavia, la motivazione intrinseca – già citata da Capdevila (2019) – può giocare un ruolo importante per tutti i frequentatori degli spazi collaborativi dunque anche per questo tipo di lavoratori. Uno degli elementi che motiva le persone spontaneamente è la presenza e la possibilità di affiliarsi a una comunità di riferimento all’interno dello spazio collaborativo.
Sulla necessità di fornire una comunità basata sulla condivisione di valori e fabbisogni si sono concentrati quegli studi che, a differenza di Capdevila (2019) vedono questi spazi non solo come luoghi direttamente deputati all’innovazione, quanto come catalizzatori di gruppi sempre più ampi di professionisti e lavoratori indipendenti (knowledge workers, creativi ma anche gig workers) o smart workers che tramite le tecnologie digitali possono lavorare anywhere and anytime (Spinuzzi, 2012). In generale, infatti, in mancanza di un’organizzazione di afferenza molti lavoratori indipendenti sono alla ricerca oltre che di uno spazio fisico nel quale svolgere il loro lavoro (più o meno creativo), anche di un holding environment che aiuti non solo ridurre l’incertezza, ma anche ricercare la propria identità professionale (Petriglieri et al., 2019).
Dalla motivazione individuale al senso di comunità
In linea con questo approccio, Garrett, Spreitzer e Bacevice illustrano, nell’articolo “Co-constructing a Sense of Community at Work: The Emergence of Community in Co-working Spaces”, pubblicato su Organization Studies nel 2017,come gli individui, nel corso delle loro interazioni quotidiane, sia formali sia informali, svolgono un vero e proprio lavoro di costruzione di una community.
Lo studio di Garrett e colleghi è stato condotto in un co-working negli Stati Uniti, attraverso osservazioni etnografiche, interviste a frequentatori dello spazio (equamente distribuiti tra freelance indipendenti e smart workers dipendenti) e analisi di email condivise in una newsletter interna. Lo studio racconta come il senso di comunità presente nel co-working sia l’elemento cardine a fare la differenza e a distinguere lo spazio collaborativo da altri luoghi che molti lavoratori indipendenti adottano per svolgere la propria professionale, uno su tutti la casa.
Gli autori raccontano come nel co-working analizzato emergano quattro elementi che sono associabili alle tipiche dimensioni della costruzione del senso di comunità: la nascita di un’identità collettiva (membership); il riempimento del vuoto sociale (integrazione); lo sviluppo del senso di proprietà dello spazio (influenza); la nascita di amicizie spontanee (legami emotivi).
In particolare, sentirsi membri dello spazio non vuol dire solo affittare una scrivania, ma condividere l’identità dello spazio e i suoi valori. Allo stesso tempo, la membership dello spazio conferisce visibilità e riconoscimento professionale. Le persone non vedono lo spazio solo come un luogo di lavoro, ma anche come una comunità che supporta e definisce lo sviluppo della propria identità professionale. La necessità di riempire il vuoto sociale è una delle motivazioni principali che spinge le persone a frequentare gli spazi collaborativi. La mancanza di interazioni sociali quotidiane, tipica del lavoratore indipendente che non ha uno spazio lavorativo dedicato al di fuori di casa, provoca infatti un senso di isolamento che porta a ricercare per l’appunto una comunità, sia personale sia professionale. Molti provano inizialmente a lavorare in bar o spazi pubblici, ma questi luoghi si rivelano presto inadatti perché da una parte non favoriscono l’interazione e dall’altra non permettono la costruzione di una comunità stabile di riferimento. Allo stesso modo, anche affittare un ufficio in proprio, oltre ai costi più elevati, non consente l’interazione sociale che alcuni professionisti cercano. Lo sviluppo del senso di proprietà dello spazio è un altro elemento connesso alla nascita della comunità. Quando i coworker iniziano a sentirsi spontaneamente responsabili dello spazio e collaborano per rispondere ai bisogni collettivi, contribuiscono alla creazione di una comunità. Le persone sviluppano un senso di proprietà, di appartenenza allo spazio, un coinvolgimento emotivo che va oltre l’idea dello spazio per lavorare. Infine gli autori raccontano come lo sviluppo del senso di comunità passi ovviamente dalla nascita spontanea di amicizie e legami personali tra i coworker. Lo spazio, forse proprio in virtù di identità e valori condivisi, dà la possibilità ai suoi membri di essere loro stessi e di aprirsi ai colleghi in maniera più spontanea e disinteressata che in un normale posto di lavoro, dove vigono gerarchie più o meno strutturate e dove inevitabilmente esistono dinamiche competitive legate agli sviluppi di carriera. Il fatto che i coworker non siano i ‘veri’ colleghi in qualche modo aiuta a costruire legami più profondi e autentici.
Lo studio di Garrett e colleghi (2017) illustra anche il processo e i meccanismi collettivi che portano alla nascita del senso di comunità all’interno di spazi collaborativi: sostenere una visione condivisa della community; ‘incontrare’ la community; impegnarsi nelle attività della community. In cosa consistono questi tre meccanismi? Il primo si riferisce alle azioni di sostegno della visione condivisa della community e si sostanzia in tutte le attività di esplicitazione della visione della comunità, sia all’interno dello spazio, contribuendo a rinforzare la comunità interna, sia all’esterno, consentendo l’autoselezione per potenziali membri che possono così valutare se esista un’affinità valoriale.
Il secondo meccanismo riguarda le azioni collettive per ‘incontrarsi’ con la community. Questo vuol dire accettare in maniera più o meno attiva le norme sociali legate all’affiliazione alla community, trovare degli elementi in comune con gli altri membri ed essere a conoscenza del potenziale della comunità, anche se non ancora esplorato. Non tutti infatti, nonostante supportino la comunità, partecipano in modo attivo agli eventi, agli incontri e alle possibilità offerte dallo spazio, ma seguono le norme e le pratiche condivise e sono convinti che esistano delle potenziali sinergie tra professionisti.
Il terzo meccanismo che porta alla nascita del senso di comunità riguarda l’effettivo coinvolgimento volontario e spontaneo in comportamenti costitutivi quali la creazione di routine condivise sul lavoro (ad esempio il pranzo insieme o la pausa caffè) e la partecipazione a eventi comuni fuori dall’ambito lavorativo; tutti momenti che facilitano il rafforzamento di legami personali tra membri della community. In questo senso, accettare di avere responsabilità all’interno della community è un altro elemento che rafforza l’investimento affettivo che le persone fanno nello spazio.
In che modo questi meccanismi sono collegati? In un processo per cui le persone si autoselezionano per entrare nello spazio in base all’identità che lo spazio comunica all’esterno. Ogni membro poi partecipa sostenendo la comunità e il suo potenziale in modo più o meno attivo e rafforzando il legame con la comunità in un coinvolgimento sempre maggiore. In questo senso gli autori sottolineano come sia importante il ruolo ‘agentico’ del singolo nella costruzione del senso di comunità, ma come questo venga di fatto realizzato solo in modo collettivo e non in maniera fortuita. Ci vuole quindi negli spazi collaborativi una visione orientata esplicitamente alla costruzione di una comunità che sia in grado di rafforzarsi in modo continuo, poiché è la presenza della comunità uno degli elementi centrali a favorire l’effettiva collaborazione e la nascita di output creativi e innovativi.
Nella pratica ciò vuol dire porre l’accento sul ruolo che i singoli frequentatori possono attivamente svolgere nello spazio e sulla figura dell’host (o community manager), per creare un senso di comunità all’interno di tali spazi. Gli host infatti possono svolgere da mediatori tra le diverse dimensioni emergenti negli spazi collaborativi (trasferimento e condivisione di conoscenza, processi di cross-fertilization, prossimità, senso di comunità, ecc.) e l’effettivo sviluppo di creatività e innovazione (Brown, 2017). Tale ruolo di mediazione può assumere la sua massima espressione nei casi in cui gli host sono effettivamente in grado di porsi come veri e propri ‘curatori’ attivi degli spazi collaborativi, facilitando incontri e momenti di interazione tra utenti, promuovendo collaborazioni interne e rafforzando la fiducia reciproca tra i frequentatori (si veda anche Merkel, 2015). Si tratta di un ruolo fortemente relazionale e affettivo in contrasto con una facilitazione più strettamente direttiva, anche se sono ancora pochi i contributi in letteratura che integrano le motivazioni e il ruolo dei frequentatori, il ruolo degli host e i contenuti degli spazi collaborativi in uno schema più ampio volto a esplorarne gli effetti su creatività e innovazione a livello individuale e collettivo (Clifton, Füzi e Loudon, 2019).
Gli studi esistenti lasciano ancora spazio per esplorare un fenomeno così contemporaneo e mutevole come gli spazi collaborativi e creativi. Per esempio, manca ancora un chiaro schema di analisi che illustri il modo in cui singole figure professionali, organizzazioni o gli stessi spazi collaborativi possano concretamente trarre beneficio in termini di output creativi e innovativi. I contributi presi in esame in questo articolo dunque possono fornire degli spunti per far luce su alcune dinamiche virtuose e alcune delle “ombre” ancora presenti.
Bibliografia
- Brown, J. (2017). Curating the “Third Place”? Co-working and the mediation of creativity. Geoforum, 82, 112-126.
- Capdevila, I. (2013). Knowledge Dynamics in Localized Communities: Co-working Spaces as Microclusters. Available at: SSRN 2414121
- Capdevila, I. (2015). Co-working spaces and the localised dynamics of innovation in Barcelona. International Journal of Innovation Management, 19(3), 1-28.
- Capdevila, I. (2019). Joining a collaborative space: is it really a better place to work? Journal of Business Strategy, 40(2), 14-21.
- Clifton, N., Füzi, A., Loudon, G. (2019). Co-working in the digital economy: Context, motivations, and outcomes. Futures, In press.
- Garrett, L. E., Spreitzer, G. M., & Bacevice, P. A. (2017). Co-constructing a sense of community at work: The emergence of community in co-working spaces. Organization Studies, 38(6), 821-842.
- George, J. M. (2007). Creativity in organizations. The academy of management annals, 1(1), 439-477.
- Irving, G. L., Ayoko, O. B., & Ashkanasy, N. M. (2019). Collaboration, Physical Proximity and Serendipitous Encounters: Avoiding collaboration in a collaborative building. Organization Studies, 1-24.
- Merkel, J. (2015). Co-working in the city. Ephemera: Theory & Policies in Organizations, 15(2), 121-139.
- Montanari, F. (2018). Ecosistema creativo. Organizzazione della creatività in una prospettiva di network. Franco Angeli, Milano.
- Perry-Smith, J. E., & Mannucci, P. V. (2017). From creativity to innovation: The social network drivers of the four phases of the idea journey. Academy of Management Review, 42(1), 53-79.
- Petriglieri, G., Ashford, S. J., & Wrzesniewski, A. (2019). Agony and ecstasy in the gig economy: Cultivating holding environments for precarious and personalized work identities. Administrative Science Quarterly, 64(1), 124-170.
- Spinuzzi, C. (2012). Working alone together: Co-working as emergent collaborative activity. Journal of Business and Technical Communication, 26(4), 399-441.
[1] Il progetto di ricerca “A multidisciplinary study of physical and on-line collaborative spaces and their implications for creativity and innovation”, finanziato dall’Università di Modena e Reggio Emilia, è stato realizzato dal Dipartimento di Comunicazione ed Economia in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria.