I am talking Mr VicePresident! Diversità di genere e conflitto organizzativo

“Kamala”, “Ursula” e le altre…

Come dice Michela Murgia, prevale una pessima abitudine sui media italiani: mentre il Presidente degli Stati Uniti viene indicati nei titoli con il cognome “Biden”, il Vicepresidente, perché donna, viene appellato con il suo nome proprio “Kamala”. Si tratta, come dice sempre la Murgia. di un depotenziamento, di uno svilimento messo in atto, più o meno consapevolmente, nei confronti di donne potenti, autorevoli e di grande influenza.

La storia dell’ascesa politica dell’afroamericana Kamala Harris, che dallo scorso 20 gennaio è Vice Presidente degli Stati Uniti d’America con l’amministrazione di Joe Biden, dopo aver ricoperto i ruoli di Procuratrice Generale della California e seconda Senatrice di colore al Congresso americano, è emblematica nel rappresentare il superamento di temi quali il conflitto di genere, le discriminazioni razziali e l’overtalking, che contraddistinguono ancora oggi numerosi contesti istituzionali, organizzativi e lavorativi pubblici e privati.

In particolare, in occasione di alcune interrogazioni parlamentari in cui la Harris si rivolse all’ex Ministro della giustizia Jeff Session e a Brett Kavanaugh, nominato alla Corte Suprema dal Presidente Trump, le reiterate e numerose interruzioni subite dalla senatrice, posero alla ribalta della cronaca giornalistica e dei social media il fenomeno dell’overtalking, come tipico esempio negativo di variabile organizzativa all’interno dei gruppi ed espressione di una discriminazione di genere, brillantemente superata dalla Harris attraverso uno stile comportamentale assertivo, duro e molto diretto (S. Chira , 2017).

Recentissimo, ancora, è l’episodio del 7 aprile 2021, in cui la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, impegnata insieme al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel in una visita istituzionale ad Ankara con il leader turco Recep Tayyip Erdoğan, è stata relegata dai due uomini su un sofà, suscitando accese polemiche a livello internazionale sulla infelice gestione del protocollo diplomatico, che ha fatto passare in secondo piano il contenuto politico ed economico della visita,  ponendo all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della gender equality (S. Petrequin , 2021).

Sono poi frequenti ormai le codificazioni del ruolo importante svolto dalle donne nella risoluzione dei conflitti. Tale ruolo è stato più volte affermato sia nella sfera politica, nell’ambito di importanti processi di peace building (emblematici sono, al riguado, i casi del presidente della Liberia Ellen Johnson-Sirleaf, e all’attivista pacifista yemenita Tawakkul Karman).

I temi della gender diversity e della gestione del conflitto organizzativo, più in generale, sono balzati dunque recentemente al centro di numerosi studi scientifici che, anche attraverso approcci empirici, mirano a delineare le implicazioni manageriali utili per valutare le relazioni esistenti tra le variabili del contesto organizzativo (come ad esempio, diversità di genere, carichi di lavoro, i conflitti interpersonali, i vincoli organizzativi) e che, se mal gestite possono determinare assenteismo, burnout, disimpegno morale e comportamenti contro produttivi (Counterproductive Works Behaviours), mentre, se gestiti correttamente, possono rivelarsi utili al superamento delle criticità (Fida R, Paciello M, Tramontano C.,2015; Vardi Y, Weitz E, 2016).

Conflitto e nuovi modelli organizzativi

Il contesto contemporaneo, sia pubblico che privato, è sempre più contraddistinto dalla diffusione di nodelli organizzativi “knowledge intensive”, composti da team interdisciplinari, flessibili e alla continua ricerca di equilibri dinamici e sostenibili nel tempo: i tradizionali modelli gerarchici contraddistinti da sistemi verticali ad autorità distribuita, vengono sfidati da olocrazie, sistemi agili, organizzazioni ambidestre e project based (R. BURTON, B. OBEL, D. HAKONISSON, M. MARTINEZ, 2020; YEUNG, D. ULRICH, 2020; S. ISMAIL, M. MALONE, 2015).

In tali modelli, contraddistinti da sistemi di leadership condivisa, da maggiori occasioni di interazioni ed incontri anche con elementi esterni all’azienda, dalla necessità di conciliare approcci dialettici diversi per garantire la continuità aziendale, in uno scenario sempre più pervaso da tecnologie disruptive, le aziende tendono a dare risalto alla diversità e alla creatività dei team (Paulus & Nijstad, 2003).

In generale, è opportuno chiedersi se ambienti lavorativi contraddistinti da meccanismi orizzontali, leadership condivisa, e in cui interagiscono figure professionali autonome e processi “cross-functional” ed “action learning”, siano potenzialmente fonte di maggiori occasioni di conflitto da gestire.

Inoltre, la maggiore flessibilità e precarietà del lavoro rendono variabili e ridisegnano completamente il quadro di aspettative ed impegno degli individui. Le persone, per quanto maggiormente interconnesse a livello organizzativo, si ritrovano a confrontarsi con atteggiamenti nuovi nei confronti della carriera, della retribuzione, dei sistemi di Compensation & Benefit, forse con tendenze ad amplificare le occasioni di conflitto (Gabrielli G., 2010).  Infatti, una larga parte della letteratura, si è concentrata sui fattori determinanti della diversità e della creatività dei gruppi di lavoro e sulla connessa gestione dei conflitti (De Dreu, 2006, 2008; Farh, Lee e Farh, 2010).

Nei fatti, la diversità negli ambienti di lavoro può amplificare le occasioni di confronto e di conflitto, che possono essere determinate da fattori quali le percezioni selettive, la sfera cognitiva dell’individuo, la comunicazione inefficace, i problemi relazionali tra le parti, gli interessi percepiti come incompatibili, le differenze di valori e le emozioni (SCHETACH A., 2009). Diversi studi empirici hanno dimostrato, tuttavia, come al contrario anche la scarsa attenzione verso la diversità possa determinare maggiormente episodi di conflitto sui luoghi di lavoro, generando bassa produttività, turnover, maggiori tassi di assenteismo, minore coinvolgimento (S. EINARSEN, A. SKOGSTADA, E. RØRVIK, Å.BJØRKE LANDE, M. NIELSEN, 2016).

Nell’ambito degli studi sul comportamento organizzativo, il Conflict Management e la capacità di negoziare rappresentano due delle aree di maggiore emersione della diversità di genere (TRICKEY D. 2004; D. Tjosvold, 1993).

Spesso, infatti, quando sono presenti stereotipi di genere, in alcune aziende il conflitto tende a connotarsi con atteggiamenti di bullismo, sessismo ed overtalking (B. N. Ome , 2013; Anderson K. , Leaper C, 2018; Sorenson, P. & Hawkins, K., 1995) .

Le forme di “bullismo” sul luogo di lavoro, ad esempio, colpiscono oltre il 10% della popolazione attiva in ogni tipo di azienda e, sono determinate in gran parte da ostilità interpersonale e disequilibrio di potere formale o informale ( Samnani, K., Singh, P., 2012; Zapf, D., Escartin, J., Einarsen, S., Hoel, H., Vartia, M. 2011).

Cosa ne pensano le donne esperte di Hr management?

Per verificare se vi sia uno stile manageriale più adeguato da seguire in azienda, in particolare da parte delle donne, nell’ambito della risoluzione dei conflitti e quali possano essere le strategie più adeguate a seconda dei vari contesti, si è proceduto ad intervistare sei donne italiane esperte di Human Resource Management, appartenenti all’AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del personale) e all’Assochange (Associazione Italiana di Change Management). La finalità delle interviste è stata principalmente quella di comprendere, al di là delle motivazioni che generano conflitto in azienda, se la differenza di genere possa influenzare i comportamenti nella gestione del conflitto. In particolare, l’indagine ha cercato di comprendere come le donne gestiscano i conflitti allorché siano attaccate con comportamenti bullisti, sessisti o discriminatori e quale sia il miglior stile manageriale per gestire queste situazioni.

Tabella 1: Profilo delle intervistate

La scelta di un approccio metodologico di tipo qualitativo, in cui le interviste sono state fondate sulla narrativa, sulla descrizione, sull’interpretazione, sul contesto e sul significato, ha avuto il precipuo scopo di dare risalto al racconto ed alla rievocazione di eventi emblematici rappresentativi di episodi di overtalking, sessismo e conflitto di genere nelle organizzazioni e alla loro successiva risoluzione tramite la catalogazione di alcune best practices comportamentali e manageriali.

Dalle interviste, dunque, sono emerse alcune indicazioni organizzative e comportamentali che in fase di rielaborazione si è ritenuto di proporre come consigli o punti su cui concentrare l’attenzione, sicuramente ma non solo, delle donne manager,

Piu donne ci sono meglio è!

La diversità di genere costituisce, secondo tutte le donne intervistate, un tema di rilevante attualità nel contesto italiano, contraddistinto ancora da una scarsa presenza di donne nei ruoli chiave di carattere executive o dirigenziale (inferiore alla media UE), nonostante i progressi operati negli ultimi anni anche grazie alla legge Golfo-Mosca e, in generale, alla maggiore sensibilità dei media e dell’opinione pubblica (I. Li Vigni, 2019).

Allemand et al. (2017), in riferimento alla scarsa partecipazione delle donne in posizioni chiave in ambito finanziario, ha del resto evidenziato come un reporting non finanziario e/o di sostenibilità è oggi giudicato più trasparente e veritiero e contraddistinto da meno asimmetrie informative, allorchè il responsabile della direzione sia una donna; Cleaver (2016) ha sostenuto che bisognerebbe includere più donne all’interno dei consigli amministrativi perché migliorano il valore per gli azionisti. La teoria organizzativa indica in genere che la presenza di donne è associata a risultati organizzativi migliori in quanto la loro inclusione “migliora le decisioni del consiglio di amministrazione e facilita decisioni difficili da prendere in considerazione che sono considerate sgradevoli da tutte le commissioni maschili”.

Anche dai risultati delle interviste, la Gender Diversity è associata a prestazioni più solide rispetto a quelle ottenute da aziende con un organico prevalentemente “al maschile”, anche se tale risultato si apprezza solo in presenza di una quota critica di almeno il 30% delle donne nelle organizzazioni. Raggiungere una presenza rilevante di donne nelle aziende può aumentare inoltre il livello di innovazione dell’azienda e la sua credibilità (accountability) esterna (H. Lee, J. Choi, S. Kim , 2018).

Siate pronte a tutto: ci sono aziende evolute e aziende “primitive”!

Dalle interviste è emerso come i conflitti che scadono e decadono su questioni di genere sono più diffusi in contesti aziendali “non evoluti” o se si vuole culturalmente “primitivi”. Tali degenerazioni possono essere più o meno accentuate in base a fattori culturali, psicologico relazionali, al comportamento organizzativo delle varie posizioni aziendali, e possono essere influenzate da alcuni fattori quali il tipo di settore, la dimensione dell’azienda e il livello organizzativo in cui si palesa il conflitto (ad esempio relazioni industriali).

Fate attenzione alle parole!

Le donne intervistate hanno posto l’accento su alcuni frequenti utilizzi impropri del linguaggio che, enfatizzando una caratteristica estetica o sessuale (signora” o “signorina” piuttosto che “dottoressa” o “consigliere”) o un riferimento all’aspetto fisico (“brava e bella” piuttosto che “brutta ma brava”), sono ancora degli stereotipi diffusi che mettono in secondo piano il ruolo delle competenze, delle qualifiche, e di una diversità culturale effettiva. La percezione generale è che le parole sono importanti, ma che in questi casi il conflitto non va spostato, appunto dal livello verbale. Tutte le intervistate sono concordi nel ritenere che l’inappropriatezza dell’uso di alcuni termini va senz’altro sottolineata, se non corretta, ma che esasperare il conflitto sulla base di una parola “infelice” potrebbe essere addirittura controproducente, dato che a volte l’uso di questi termini rappresenta addirittura una consapevole provocazione.

Non accettate provocazioni!

Circa il tema dell’overtalking e del sessismo, dalle interviste emerge come, al di là delle singole specificità, atteggiamenti di questo tipo spesso provocano ricadute sulle sinergie necessarie al buon funzionamento dei meccanismi aziendali. Infatti, non soltanto sotto il profilo umano, ma anche come scelta strategica, la prassi del non lasciar parlare, di interrompere durante i momenti di scambio, impedisce il brainstorming, il team working e potrebbe ostacolare nuove visioni circa determinate questioni aziendali. E’ fondamentale, in tale prospettiva, risolvere il conflitto rivalutandone il significato costruttivo del conflitto, che va interpretato sempre come una occasione di crescita organizzativa. Naturalmente nelle aziende più evolute, laddove si dovessero verificare dei comportamenti sessisti o palesemente discriminatori è ormai possibile ricorrere, anche in questi casi ad organismi con ruoli disciplinari e sanzionatori. Il conflitto in questi casi va dunque trasferito ad un livello istituzionale, ricorrendo ad un soggetto terzo. Più difficile invece appare la situazione che a volte si crea in aziende con una cultura padronale nella quale il cambiamento culturale è sicuramente rallentato.

Siate collaborative, ma … fino a un certo punto.

Per ciò che attiene alla scelta dell’approccio comportamentale per affrontare il conflitto, anche in condizioni di Gender diversity, dalle interviste è emerso che vi è una diffusa convinzione, quasi uno stereotipo, che lo stile manageriale di gestione dei conflitti in azienda adottato dalle donne sia uno stile più collaborativo. Le esperte di HR Management raccomandano un approccio “gender free” e di utilizzare stili di risoluzione del conflitto diversi a seconda dell’interlocutore e della situazione, ma convengono sul fatto che in molti casi l’approccio prevalente rischia di essere connesso alla personalità del singolo e dunque sia stabile a seconda dei contesti. Un approccio collaborativo ed assertivo allo stesso tempo può di conseguenza essere alla base delle best practices osservate e raccontate dalle donne intervistate. In ogni caso appare indispensabile sia per gli uomini sia pe le donne manager sviluppare una elevata capacità di ascolto, una maggiore acquisizione di consapevolezza del ruolo, alla positiva gestione dell’intelligenza emotiva (C. Blackburn, B. Martin, S. Hutchinson, 2006). 

Meglio essere Leader situazionali e illuminate!

Le donne intervistate riscontrano ancora delle differenze di genere negli stili di leadership prevalenti ed hanno sottolineato come la cultura italiana sia ancora molto maschilista, e per certi versi misogina.  Sembra quasi che l’unica forma di leadership considerata efficace, e che quindi anche le donne devono seguire ,sia quella considerata tipica dello stilo “maschile”: aggressiva e autocentrata. E’ vero invece che, ormai anche molte donne chiamate ad occupare posizioni di vertice sappiano già valutare con attenzione come possa essere appropriato a seconda dei casi anche uno stile leadership più emotivo e coinvolgente. Questo stile di leadership è stato classificato dalle esperte di Hr Management come tipico di uno stile “illuminato” e lo hanno anche considerato, in base alla loro esperienza, più facilmente attuabile. Alcune hanno evidenziato che spesso quando si trovano in posizioni apicali, le donne utilizzano il potere per agire, per risolvere problemi e dunque come uno strumento abilitante al raggiungimento del risultato, mentre al contrario molti uomini utilizzano il potere del ruolo o della posizione per ambizione personale.

Conclusioni: stili Gender free

Nella cultura occidentale, il termine «conflitto» è stato connotato prevalentemente da significati negativi e associati a un concetto di violenza. È molto frequente pensare che si tratti di situazioni da evitare in quanto potrebbero arrecare malessere generale e portare a una notevole «erosione» delle relazioni.

In realtà i conflitti possono anche essere un’opportunità di crescita personale, di miglioramento delle relazioni, di rafforzamento dei team di lavoro. Il Conflict Management consiste nell’adozione di best practices volte a risolvere le divergenze determinate dalla diversità degli approcci e degli atteggiamenti. Tradizionalmente, si distinguono cinque stili manageriali nella gestione del conflitto, che vanno interpretate come tattiche diverse a seconda dei contesti e delle situazioni da risolvere (A. F. Simpao, 2013) :

  1. Stile di collaborazione (collaboration): presuppone un approccio fondato sulla combinazione di assertività e collaborazione volta ad identificare una soluzione che soddisfi pienamente le preoccupazioni di tutti. Ha una prospettiva di lungo termine e favorisce le relazioni.
  2. Stile competitivo (competition): coloro che competono sono assertivi e poco collaborativi e disposti a perseguire le proprie preoccupazioni a spese di un’altra persona. Generalmente l’adozione di questo stile funziona quando non interessa la relazione ma il risultato è importante nel breve termine, come quando, ad esempio, si compete con un’altra azienda per un nuovo cliente.
  3. Stile di aggiramento (avoidance): coloro che evitano il conflitto tendono a non essere assertivi e non collaborativi mentre eludono diplomaticamente un problema o semplicemente si ritirano da una situazione minacciosa.
  4. Stile accomodante (accomodation): Si tratta dello stile opposto a quello competitivo, contraddistinto da un elemento di rinuncia o sacrificio per soddisfare l’altra persona. Anche se può sembrare generoso, potrebbe trarre vantaggio dai deboli e provocare risentimento.
  5. Stile di compromesso (compromise): questo stile mira a trovare una soluzione conveniente e reciprocamente accettabile che soddisfi parzialmente entrambe le parti nel conflitto, pur mantenendo una certa assertività e cooperazione.

Male or Famale ciò che conta è l’obiettivo

Sulla scorta dell’analisi empirica operata attraverso il metodo qualitativo, il confronto con alcune human resource manager ha messo in luce, in primo luogo, la necessità diffusa di un cambio di passo culturale del mondo imprenditoriale italiano in relazione alla perfetta integrazione delle donne nei contesti lavorativi, ed in secondo luogo ha rivelato come la scelta di uno stile di gestione del conflitto non dipenda dal genere, ma piuttosto da una mentalità aperta e capace di saper leggere e risolvere le criticità alla base dei conflitti. Elementi discriminati che fanno protendere verso l’adozione di uno stile piuttosto che di un altro sono: le conoscenze, le competenze, la situazione contingente, l’obiettivo che si vuole raggiungere, il contesto, gli interessi concreti delle parti coinvolte; é importante capire cosa si può ottenere e come.

Se ciò è vero, tuttavia, va anche detto che lo stile collaborativo, che non rinunci tuttavia a profili di assertività ed autorità ove necessario, sia quello più diffuso ed utilizzato dalle donne manager, che attraverso tale approccio riescono ad interpretare in maniera appropriata e flessibile la dinamicità di variabili che contraddistingue i contesti lavorativi contemporanei, in cui conflitto e diversità vanno necessariamente interpretati come un’occasione di crescita ed evoluzione

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