Se c’è un luogo che ferma il trascorrere del tempo questo è il museo. Afferra e trattiene qualcosa che è già esistito o è in corso di svolgimento, fermato in un momento preciso, pertanto lo sguardo al futuro è poco più di un necessario strabismo con l’intento di mettere meglio a fuoco il passato. Eppure da anni ormai i musei fanno i conti con la necessità di innovare.
Il presente lavoro, propone uno studio europeo condotto da alcuni ricercatori spagnoli che, partendo dall’orientamento al visitatore, fornisce alcuni spunti di riflessione sul ruolo che le strategie di innovazione e di conservazione rivestono nel conseguimento di performance di mercato ed economiche sia dei piccoli che dei grandi musei.
Introduzione
Negli ultimi anni le profonde trasformazioni che hanno interessato il contesto economico-sociale italiano ed europeo, unitamente alle politiche di bilancio pubblico sempre più restrittive, hanno costretto i musei e le altre istituzioni deputate alla valorizzazione del patrimonio culturale a rivedere significativamente le proprie strategie organizzative. In particolare, in Italia, negli anni Novanta del secolo scorso, il museo nella ricerca di una sempre maggiore efficienza di gestione e, contestualmente, di un miglioramento della qualità del servizio, è stato protagonista di un vero e proprio processo di managerializzazione.
Ciò è avvenuto in un quadro di interventi normativi che hanno sostanzialmente modificato l’organizzazione e il funzionamento del sistema museale e dei beni culturali, rafforzando da una parte il potere di indirizzo degli organi dell’apparato centrale e, dall’altra, conferendo una maggiore autonomia gestionale alle singole strutture. Rientrano in queste iniziative l’istituzione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (D.lgs 368/1998), la creazione di sovrintendenze “autonome” o speciali e i vari provvedimenti che dalla legge Bersani arrivano alla modifica del titolo V della Costituzione, fino ai più recenti decreti Franceschini e ai relativi provvedimenti di attuazione sulla riorganizzazione dei musei e del MIBACT-(Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo – D.M 23 dicembre 2014; D.P.C.M. 171/2014; D.M. 44/2016). Da un punto di vista della gestione, già nel ’93 la legge Ronchey (L. 4/93) aveva concesso, in forte rottura rispetto al passato, la possibilità di esternalizzare ai privati alcuni “servizi aggiuntivi”, rendendo di fatto possibile che soggetti esterni divenissero attori del sistema; le norme successive, prevedendo anche la stipula di accordi tra Ministero e soggetti pubblici o privati e la costituzione di fondazioni, associazioni e società, finalizzate ad un più efficace svolgimento delle attività (L.368/98), hanno di fatto aperto la via ad una gestione anche privata nei musei pubblici.
In questo scenario di cambiamenti si è acceso il dibattito tra i sostenitori della valorizzazione dei beni culturali, da una parte, e i difensori della tutela e conservazione di essi, dall’altra.
Un dibattito che le esigue risorse finanziarie ed umane a disposizione del sistema dei beni culturali riempiono di contenuti non solo meramente ideologici ma anche legati alla sopravvivenza della stessa organizzazione.
Pertanto diventa fondamentale per il museo muoversi “nella direzione giusta”, finalizzando gli sforzi verso scelte che possano generare risultati soddisfacenti.
Da qui il trade-off: difendere la summa finalità del museo, ovvero conservazione e tutela del patrimonio, o al contrario puntare sull’innovazione, alla ricerca di nuove opportunità e talvolta moderne identità del museo?
Il presente contributo riprende e integra un recente studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Vallodolid in Spagna (Camarero, Garrido, Vicente, 2015), i quali, attraverso una indagine condotta su un campione di 491 musei europei (di cui 110 britannici, 104 italiani, 142 francesi e 135 spagnoli), eterogenei per natura dell’esposizione e per dimensioni, hanno cercato delle prime risposte al dilemma “innovazione-conservazione”, oggi attuale più che mai.
Innovazione versus conservazione: scelte obbligate tra opportunismo e romanticismo o unica via di customer orientation?
Il tema delle scelte strategiche dei musei ha una solida base teorica negli studi sulla tutela del patrimonio e sull’innovazione, solitamente associate a due diversi orientamenti: il primo verso il patrimonio culturale, il secondo verso il cliente. Negli ultimi anni il ruolo tradizionale di custodia delle collezioni si è dovuto necessariamente coniugare con l’esigenza di attrarre nuovi visitatori e di soddisfarne le aspettative.
L’apertura al mercato nelle organizzazioni culturali ha ormai compiuto tappe significative, dopo aver mosso i primi passi nel campo che più era vicino al settore, quello dell’educazione e dell’istruzione. Un contributo di inizio millennio (Gilmore e Rentschler, 2002) ricordava, infatti, che il primo periodo del marketing museale (da metà degli anni ‘70 a metà anni ‘80 circa del secolo scorso) ha riguardato l’educazione dei visitatori, con conseguente attenzione alla raccolta di informazioni sugli stessi per adattare o allargare l’offerta ai fini educativi. La fine degli anni ’80 ha segnato invece l’inizio del periodo di professionalizzazione dei musei. La “celebrazione dell’imprenditorialità” come è stata chiamata da Volkerling (1996:202), ha visto una prima élite di musei prendere in seria considerazione le attività di marketing.
In questa ottica, tipicamente market e service oriented, il processo trasformativo sottendeva obiettivi e finalità di allargamento della visibilità del museo, incremento del numero di fruitori e in ultima analisi miglioramento della performance, attraverso azioni tese all’ampliamento dell’offerta e al miglioramento della qualità del servizio. Tale processo di cambiamento ha riguardato anche l’introduzione di innovazioni tecnologiche e infrastrutturali di attività parallele e “accessorie” al core business (bookshop, ristoranti, ecc.).
È a seguito di questa prima trasformazione che si generano profondi interrogativi sul “ruolo sociale” del museo. Il dibattito tra gli studiosi e gli operatori economici rimane però intrappolato nella disputa ideologica che vede da un lato i “tradizionalisti”, difensori della “funzione di conservazione” dell’heritage di un territorio, e dall’altro i “modernisti”, aperti ad una visione di mercato, cliente-centrica, innovativa, che considera il museo come promotore di cultura, generatore di conoscenza e valore aggiunto per la collettività. Il confronto interessa anche il ruolo della figura apicale del museo, il direttore, sospeso anch’esso tra due stili antitetici: il “direttore-imprenditore” e il “direttore-custode”; il primo incline ad un orientamento al mercato, il secondo alla conservazione sebbene la distinzione tra i due stili non appaia affatto netta (Gilmore e Rentschler, 2002: 758).
Alla base di tutto si pone la questione principe di come approcciare l’orientamento ai visitatori nelle organizzazioni culturali.
L’innovazione, specie tecnologica, è divenuta in buona parte “l’oggetto del contendere” e non sorprende che si sia concentrata su di essa l’attenzione di molti studi. Ad esempio è stato esaminato come incidono sull’innovazione le politiche pubbliche e alcune caratteristiche dei musei, quali natura, dimensioni, ecc. (Camarero, Garrido, Vicente, 2011; Vicente, Camarero e Garrido, 2012), senza però che si sia trovata una risposta al problema di fondo e cioè se l’innovazione rappresenti un approccio allo sviluppo del museo in alternativa alla custodia.
A rendere più interessante (e forse anche a superare) il problema si è inserito il nuovo paradigma dell’economia dell’esperienza, proposto da Pine e Gilmore (1998): gli Autori spiegano che i consumatori sono alla ricerca di un’esperienza unica, memorabile, che li coinvolga emotivamente; essi non acquistano un servizio ma pagano per vivere un’esperienza intrinsecamente personale, cioè eventi indimenticabili a forte impatto emotivo. La differenza tra i due termini è chiara: “Quando un consumatore compera un servizio acquista un set di attività intangibili che deve svolgere da solo; ma quando egli compra un’esperienza paga per trascorrere del tempo godendo di una serie di eventi memorabili che un’azienda allestisce come in un gioco teatrale per impegnarlo in un modo personale” (Pine e Gilmore, 1998: p. 2).
In un contesto caratterizzato da “economie di esperienza”, è dunque fondamentale per le imprese progettare attentamente il servizio per far sì che i consumatori paghino volentieri per l’esperienza vissuta (Wu, 2012).
Pertanto l’azione delle istituzioni culturali e dei musei risulta interessata ad accattivare le emozioni dei visitatori e a superare le loro aspettative, innovando e agendo sugli elementi tecnologici, tenendo conto della dimensione cognitiva, sociale e introspettiva dell’esperienza stessa (Cavaliere, Sassetti e Lombardi, 2017; Ferraro, 2011; Packer, 2008), come mezzo per ottenere performance migliori.
Le evidenze nei musei sono in tal senso le più varie e vanno dalla creazione di mostre-show all’impiego di innovazioni funzionali ad una più ampia o più profonda fruizione personale, diretta o remota, di opere d’arte, all’impiego di soluzioni avanzate per le attività interne.
In Italia rappresenta un caso interessante la Galleria degli Uffizi (Lazzeretti, 2016), una delle più antiche e importanti d’Europa, che sin dalla fine degli anni ’80 ha intrapreso un percorso di informatizzazione, volto dapprima a monitorare la conservazione delle opere e a raccogliere dati in modo automatico, successivamente a digitalizzare la collezione per creare database condivisi con i principali musei europei e consentire reti di ricerca e consultazione da remoto. Questa strategia di innovazione, sviluppatosi in partnership con Università e imprese specializzate, ha portato dalla fine degli anni 2000 ad oggi ad una progressiva intensificazione dell’esperienza del visitatore, agendo su più fronti nel processo di creazione di valore sia per il cliente che per l’organizzazione.
Innovazione, conservazione e performance: uno studio europeo
A far luce sulla questione conservazione vs innovazione nei musei sembra che l’unica via possibile sia ascoltare il cliente. L’orientamento al visitatore, imprescindibile per garantire la sua soddisfazione, può risanare l’apparente contrapposizione tra esigenze di conservazione e di innovazione.
Da un punto di vista manageriale occorre in ogni caso interrogarsi su quali aspetti privilegiare, su quali siano gli effetti delle due strategie sulle performance, ovvero se sia più vantaggioso perseguire l’una o l’altra.
Lo studio di Camarero, Garrido, Vicente (2015), proposto in questo articolo, si pone come primo obiettivo quello di verificare se l’orientamento al visitatore ha un impatto positivo tanto sulla innovazione tecnologica quanto sulla conservazione; in altre parole se sia l’innovazione che la conservazione possono essere considerate due risposte diverse di un medesimo orientamento al cliente. La ricerca, inoltre, fornisce risposte anche con riferimento alla dimensione del museo, segmentando il campione di analisi in piccoli e grandi musei.
Un secondo obiettivo riguarda la ricerca delle relazioni tra gli orientamenti all’innovazione o alla custodia e le performance museali, misurate in termini economici e di mercato. Le performance economiche comprendono non solo i risultati reddituali e finanziari, ma anche l’incremento del numero di visitatori, l’aumento del numero degli amici dei musei, l’incremento di fondi attraverso esposizioni temporanee o di posti di lavoro. Le performance di mercato riguardano invece i benefici ottenuti dagli individui, pertanto comprendono la capacità dell’impresa di accrescere l’interesse dei visitatori, la loro soddisfazione e lealtà o l’immagine del museo.
In particolare, lo studio ipotizza una mediazione positiva dell’innovazione tra l’orientamento al visitatore e performance di mercato ed economiche dei musei. A supporto di tale ipotesi contribuiscono gli studi che mettono in evidenza come l’innovazione tecnologica permetta di intercettare nuovi target, in generale un numero maggiore di visitatori, e aumentarne il livello di soddisfazione, nonché migliorare l’efficienza e i risultati aziendali
Anche l’orientamento alla conservazione, che consente di attrarre e fidelizzare pubblici particolari, dovrebbe migliorare le performance di mercato; si tratta sovente, però, di una élite, di nicchie della domanda che potrebbero non garantire buone performance economiche ai piccoli musei, caratterizzati da un ridotto numero di visitatori. Pertanto è ipotizzabile che l’orientamento alla custodia influenzi negativamente i risultati economici dei musei minori, mentre impatti positivamente su quelli dei grandi, con elevati volumi di visite e con ampi spazi per la presentazione e la fruizione tradizionale delle opere.
La Figura 1 mostra le relazioni che lo studio intende verificare.
I risultati
Lo studio evidenzia dei risultati interessanti e in parte diversi da quanto ipotizzato.
Conferma come l’orientamento al cliente abbia effetti positivi sia sulla innovazione tecnologica che sull’orientamento alla custodia, indipendentemente dalle dimensioni dei musei.
Analizzando le relazioni dirette tra orientamento al cliente e performance, con riferimento alle due tipologie, emerge una interessante distinzione. Nei grandi musei tale relazione è positiva e statisticamente significativa sia per le performance di mercato che economiche, per i piccoli musei tale relazione è significativa solo con riferimento alla performance di mercato.
Osservando l’effetto di mediazione dell’orientamento all’innovazione tecnologica tra l’orientamento al visitatore e le performance (di mercato ed economiche), la ricerca conferma una relazione positiva e significativa tanto nei grandi che nei piccoli musei.
Diverso invece è il risultato con riferimento all’effetto di mediazione dell’orientamento alla custodia sulle performance. Questo, è positivo e significativo solo sulle performance di mercato dei grandi musei, mentre nei piccoli musei si presenta negativa ma non significativa. Con riferimento alle performance economiche essa è negativa e significativa solo nei piccoli musei.
Una rappresentazione iconica, riportata nelle Figure 2 e 3, può aiutare a comprendere meglio i risultati.
Implicazioni pratiche e spunti di riflessioni alla luce dei caratteri del sistema museale italiano: l’orientamento incompiuto
Innovazione e custodia possono essere considerate due diverse risposte di uno stesso orientamento al visitatore, sebbene non sempre in grado di essere messe in relazione con le performance che il museo deve presidiare.
Con riferimento alla realtà italiana ci chiediamo quanto siano orientate al cliente le nostre organizzazioni museali.
Il sistema museale italiano è fotografato periodicamente dall’Istat nel rapporto “I musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia”. L’analisi più recente (Istat, 2016) ci presenta una realtà comprendente 4158 musei sparsi sul territorio (1,7 ogni 100 Kmq e 12000 abitanti), composta per la maggior parte da strutture molto piccole e con pochi mezzi: Il 67,5% degli istituti ha non più di 5 addetti e solo l’8,9% ne ha più di 10 (l’1,5% circa da 50 in su); il 63,8% dei musei è di proprietà pubblica: il 41,6% del totale appartiene ai Comuni e solo il 9% al Ministero; i musei statali attraggono da soli quasi il 40% dei visitatori totali.
In questa galassia, molto eterogenea anche in base all’area geografica, una esigua minoranza di istituti conduce indagini di mercato: il rapporto Istat segnala che solo il 14,3% svolge monitoraggi sistematici sulla domanda e che il 42,6% ha effettuato indagini in modo occasionale. Nonostante l’assenza generalizzata di strumenti di monitoraggio della clientela, i musei attuano politiche tariffarie differenziate per età, con una maggiore attenzione ai bambini (gratis in più del 56% delle strutture), mentre sono meno frequenti le agevolazioni per i giovani (entrata gratuita solo nel 5,9% dei casi) e per le famiglie (gratis nel 5,1% dei musei e con sconto nel 24,7%); gli anziani possono accedere gratuitamente nel 14,3% dei casi e con biglietto ridotto nel 48,5%. Solo il 37,5% de musei è dotato di servizi di assistenza e/o di strutture per l’accesso fisico ai visitatori disabili e soltanto in un quinto dei musei (20,4%) i disabili possono trovare materiali e supporti informativi specifici, come percorsi tattili o pannelli in braille per i non vedenti.
Le forme tradizionali di fidelizzazione, quali abbonamenti o carte museo, sono presenti nel 12,9% del totale strutture, di solito in quelle di grandi dimensioni. La formula del biglietto cumulativo è invece più diffusa e proposta da quasi un quarto dei musei (24,8%).
La strada per l’innovazione tecnologica è stata intrapresa da tempo e si sta procedendo con una certa velocità, ma dal Rapporto emerge come ci sia ancora molto da fare: gli istituti con un sito web dedicato sono poco più della metà (57,4% contro 50,7% del 2011); il 40,5% dei musei ha un account sui social media (come Facebook, Twitter, Instragram, ecc.), ma solo il 6,6% dispone di un servizio di biglietteria online. Meno del 20% dei musei possiede spazi per proiezioni video, attività interattive e/o ricostruzioni virtuali; il 15,2% offre al visitatore la possibilità di utilizzare audioguide e videoguide e il 9,1% applicazioni per dispositivi digitali mobili come tablet e smartphone (Istat, 2016).
L’innovazione nell’offerta vede piuttosto diffusi i percorsi e le attività o gli spazi per i più piccoli; caffetteria e ristorazione sono presenti solo nel 12,4% delle strutture e il 35,1% degli istituti è dotata di museum shop.
Con riferimento all’innovazione organizzativa la metà degli istituti (45,9%) appartiene ad un sistema museale organizzato, che consente di condividere risorse umane, tecnologiche e/o finanziarie.
Considerando l’orientamento alla custodia, i risultati non sembrano molto più incoraggianti. Anche se nel 2015 otto istituti su dieci hanno dichiarato di avere aperto al pubblico tutti gli spazi espositivi disponibili, solo una parte del patrimonio da loro conservato è fruibile dai visitatori: poco più del 40% dei musei e delle istituzioni similari dichiara di esporre almeno il 90% dei beni conservati, mentre il 35,6% meno della metà delle collezioni detenute. I musei che possiedono ingenti quantità di beni (oltre 50 mila oggetti) sono in grado di esibire mediamente solo l’8% delle opere (Istat, 2016).
Anche nella capacità di allestimento si riscontrano problemi: solo il 25% dei musei dichiarano di avere effettuato una rotazione dei beni esposti al pubblico.
Un’ampia quota dell’enorme patrimonio di collezioni non è nemmeno identificata e registrata; meno del 70% dei musei ha inventariato i beni posseduti, il 45,8% ha adottato una catalogazione cartacea e solo il 37,4% ha archiviato il proprio patrimonio in formato digitale.
Alla luce di questi dati, nei musei italiani l’orientamento al cliente appare ancora incompiuto e con esso le correlate strategie di innovazione tecnologica e di custodia dei beni. L’innovazione si presenta piuttosto incerta e timorosa e sarebbe interessante comprendere meglio se ciò sia dovuto più ad un conflitto identitario o ad una difficoltà di investimenti. Allo stesso modo la conservazione appare internally – oriented, una scelta volta più a “proteggere il fortino” degli attacchi dell’esterno, che non a condividere, se pur in modo tradizionale e “con adeguato distacco” l’ingente patrimonio di conoscenza di cui si dispone.
In una prospettiva di alternativa strategica tra innovazione e conservazione, i risultati dello studio europeo sui musei dovrebbero far propendere per l’implementazione di strategie di innovazione tecnologica, in grado di influenzare positivamente le performance sia economiche che di mercato dei musei italiani (grandi e piccoli).
Le difficoltà di una simile scelta nel nostro sistema emergono immediatamente se si pensa che in Italia il 14,6% dei musei e istituti a pagamento non realizza più di mille euro all’anno dall’incasso dei biglietti (il 61,8% non supera i 20 mila euro) e che solo il 20% circa delle strutture con meno di 1.000 ingressi riesce a godere di sostegno finanziario pubblico (Istat, 2016).
Pertanto il rischio è che l’innovazione resti preclusa alla gran parte delle nostre organizzazioni e sia appannaggio di una minoranza di strutture grandi, principali destinatarie dei finanziamenti pubblici. Il rapporto dell’Istat del 2016 ricorda, infatti, che le strutture con meno di 1.000 ingressi riescono a godere di sostegno finanziario pubblico solo nel 19,9% dei casi, mentre tra i musei che accolgono tra 100 mila e 500 mila visitatori la percentuale è del 37,4%.
Nel solco di quanto emerge dallo studio l’attenzione va anche posta sul fatto che la nostra offerta museale globale potrebbe risentire nel tempo di una decrescente attenzione alla custodia. Tale orientamento, infatti, non sembra in grado di migliorare le performance delle grandi strutture se non in termini di soddisfazione dei bisogni dell’utenza, di immagine, ecc. (performance di mercato) e, per altri versi, contribuisce negativamente al presidio dei risultati economici delle piccole.
Eppure, ci chiediamo se la strategia di custodia possa davvero essere lasciata all’esiguo numero dei grandi musei (meno del 9% quelli con più di dieci addetti e 1,5% con più di 50), che, alla ricerca di performance di mercato, si potranno occupare di arricchire le collezioni, creare nuovi spazi espositivi, investire nella tutela e conservazione delle opere esistenti.
Queste prime riflessioni sulla realtà italiana possono suggerire la necessità per le organizzazioni museali di rafforzare i percorsi di innovazione organizzativa, ad esempio attraverso una sempre maggiore integrazione tra piccoli e grandi musei.
Una integrazione ben comunicata e fatta percepire ai visitatori, in modo che questi riconoscano le singole scelte di differenziazione all’interno di un’offerta più ampia e articolata e non maturino la sensazione di un servizio frammentario, con riferimento ora all’innovazione tecnologica ora alla custodia.
Inoltre, a nostro avviso, sarebbe opportuno considerare l’integrazione dei due orientamenti, che lo studio invece considera alternativi. Ha davvero ancora senso contrapporre nettamente innovazione e conservazione? Nei bisogni dei consumatori sono così chiaramente distinguibili le esigenze di innovazione o di custodia? E nelle soluzioni adottate è così definito il confine tra le due? Ad esempio, quando si apporta una innovazione tecnologica nella fruizione, si vanno a soddisfare nuovi bisogni hi-tech o bisogni culturali tout court?
Dunque, se pur il dibattito è orientato in modo bipolare restano tante le domande aperte.
Conclusioni
Da decenni ormai i musei hanno acquisito la consapevolezza dell’importanza del cliente e ciò ha portato rilevanti cambiamenti nelle forme di progettazione e produzione dei servizi, nella comunicazione e nelle modalità di fruizione da parte del cliente.
Eppure spesso nelle organizzazioni innovatrici sembra aleggiare un senso di colpa, una percezione di tradimento rispetto alla originaria missione del museo. Altre volte le strutture appaiono in una condizione di smarrimento strategico, non sapendo in quale direzione andare per maturare dei buoni risultati, se pur in una condizione di conflitto valoriale.
Il lavoro dei ricercatori spagnoli rappresenta un punto di partenza interessante: per gli studiosi di management, per le sfide che pone in termini di future traiettorie di ricerca, magari esplorando le interdipendenze tra le due strategie proposte, considerate nell’articolo come risposte indipendenti; per i direttori di museo e per le istituzioni, per gli spunti di riflessione che il lavoro stimola circa la necessità di percorrere in modo consapevole direttrici di sviluppo concorrenziale e sostenibile.
Lo studio sollecita operatori economici e studiosi del nostro paese a porsi delle domande sulla nostra realtà museale, che per dimensioni, capacità di autofinanziamento e supporti esterni potrebbe non riuscire a far tesoro delle indicazioni che emergono dai risultati, oppure non essere in grado esplorare soluzioni alternative o di integrazione al dilemma innovazione-conservazione, rassegnandosi pertanto al perseguimento della via meno gravosa per la struttura.
In particolare, molti nostri musei potrebbero non riuscire a tenere conto di una chiara evidenza dello studio, ovvero la necessità di investire nell’innovazione tecnologica per il miglioramento delle performance di mercato ed economiche. I piccoli musei, poi, dovrebbero valutare con attenzione le strategia di conservazione, a causa dei negativi ritorni in termini di performance economica.
La possibilità di scongiurare il rischio che si creino ulteriori polarizzazioni nel comparto (musei innovatori versus musei conservatori), affatto sovrapponibili ad una oculata differenziazione nell’offerta, potrebbe passare attraverso l’innovazione organizzativa che, mediante la costituzione o il rafforzamento di sistemi integrati, potrà garantire lo sviluppo delle strutture e la loro capacità di essere veri attori nell’economia dell’esperienza.
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