Imprenditorialità al femminile: il ruolo delle università nel nostro Paese

L’imprenditorialità, a partire da Schumpeter, è sempre stata considerata una leva di innovazione e sviluppo economico. A seguito della crisi economica, ne è stato evidenziato il potenziale di creazione di posti di lavoro, sia nel caso di imprenditori necessity-driven, self-employed per sfuggire alla disoccupazione, sia nel caso di imprenditorialità opportunity-based, avviata da chi individua nella crisi e nel cambiamento nuove opportunità di business. Più recentemente il rapporto sul Global Entrepreneurship Index 2016 (Acs, Zerb and Autio 2016) ha individuato una correlazione tra imprenditorialità e indicatori di benessere economico e sociale come il prodotto interno lordo di un paese, l’evoluzione digitale e la performance ambientale.

Se per una crescita economica e della società è necessario mobilizzare intelligenza e conoscenza attraverso l’imprenditorialità innovativa, l’Italia è in ritardo (Trento e Faggioni 2016; Visintin e Pittino 2016). Questo dato è confermato dall’ultimo rapporto sul Global Entrepreneurship Index 2016, nel quale ci collochiamo alla quarantottesima posizione in qualità dell’ecosistema per l’impreditorialità (in calo dal 2015 di 7 posizioni), mentre ad esempio Francia è decima e Germania quattordicesima (Acs, Zerb and Autio 2016).

In un quadro di questo tipo è evidente quanto la carenza di imprenditorialità femminile possa avere un peso significativo e negativo a livello di società ed economia, soprattutto nel nostro Paese. Inoltre, avere meno donne imprenditrici rispetto agli uomini significa non valorizzare una quota significativa di intelligenza e risorse di un paese. In Italia, le donne erano il 51,6% della popolazione nel 2013, ma solo il 30,1% degli imprenditori (36% negli USA), anche se in lieve crescita dal 2009 (29,8%).

Lo sviluppo della ricerca a livello internazionale e nazionale ha aiutato a comprendere il fenomeno, e oggi si sa molto sullo stato delle imprese “in rosa”. Più di recente è stata posta attenzione sulla dinamica relativa alla nascita di una nuova impresa, utile punto d’osservazione per comprendere e intervenire su aspetti critici dell’imprenditorialità in generale e di quella femminile in particolare. Nel processo di avvio e sviluppo di un’attività imprenditoriale, un aspetto chiave è il formarsi dell’entreprenuerial intention che porta alla formazione dell’impresa, mentre un secondo step critico è la la fase di avvio subito dopo la creazione dell’impresa. Rispetto a questi due momenti, le università italiane hanno dato un contributo di studio importante, grazie a diversi gruppi e centri di ricerca dedicati all’imprenditorialità e al family business, e con progetti recenti anche a carattere nazionale (Visintin e Pittino 2016). Tuttavia solo da poco e in modo ancora frammentato e diseguale stanno investendo per favorire esse stesse forme di imprenditorialità maschile e femminile, come parte della propria third mission e una delle azioni di un modello di entrepreneurial university (Philpott et al. 2011; Gibb and Hannon 2007).

L’Entrepreneurial intention

La nascita di una nuova impresa si deve ad una intuizione, ad una geniale ricombinazione di concetti esistenti, come nel caso di una nota impresa al femminile che è l’Huffington Post di Arianna Huffington, la quale ha ricombinato blog e newspaper in un nuovo business model (Bruni e Comacchio 2016). Tuttavia, affinchè la prima intuizione possa divenire un insieme di azioni orientate al raggiungimento del risultato desiderato, è necessario che si formi nella persona un entrepreneurial intention, ossia il senso di volontà consapevole e pianificata che guidi le sue azioni e le attività necessarie per sviluppare il nuovo business (Krueger et al. 2000; Fini et al, 2009; Bird 1988). L’entreprenerial intention è determinata sia da fattori ambientali, quali in particolare le opportunità di mercato e tecnologiche dello specifico settore target dell’imprenditrice, che da fattori individuali, come la personalità, le skill e le competenze pregresse, come dimostra anche una recente ricerca realizzata su 200 imprese italiane del settore high-tech (Fini et al 2009).

Creare le condizioni perché si manifesti l’entreprenerial intention può favorire, quindi, l’imprenditorialità, soprattutto nelle donne, in quanto la ricerca ci dice che l’avvio di un’impresa è meno probabile tra le donne che tra gli uomini (Jennings and Brush 2013).

I dati recenti del Global Entrepreneurship Monitor confermano che un gap ancora c’è nell’entrepreneurial intention delle donne italiane. La percentuale media di donne sulla popolazione adulta italiana che segnala l’intenzione di avviare una propria impresa è circa del 10% (22% a livello mondiale), non molto inferiore a quella maschile che si attesta attorno al 15% (Kelly et al. 2014).

Volendo capire se questo dato è confermato a livello di studenti universitari, l’ultima indagine GUESSS (Global University Entrepreneurial Spirit Student’s Survey 2013) fornisce dati aggiornati su 34 paesi, tra cui l’Italia, dove hanno partecipato 7765 studenti (47% donne) triennali e magistrali di tre percorsi, Scienze naturali, Business e Economics e Scienze sociali, da nove università (Minola et al. 2015).

In Italia l’82% (80% dei maschi) delle studentesse prevede un percorso come dipendente in azienda subito dopo la laurea, mentre solo un 5% si vede nel ruolo di imprenditrice (self-employed o per successione nel business di famiglia), dato più basso del campione nazionale GEM comprendente tutte le età. Alla domanda della survey di identificare la propria collocazione a cinque anni dalla laurea, la percentuale di studentesse che si vede imprenditrice sale di molto ed è pari al 32%, mentre nei ragazzi sale al 50%. Questo dato presenta luci ed ombre. E’ positiva la crescita della percentuale e il fatto che coloro che si vedono in futuro come imprenditrici o imprenditori, con uguale percentuale (7%) si immaginano nell’azienda familiare. Ad indicare un fenomeno di allineamento delle opportunità offerte e colte dai figli maschi e femmine in seno a un family business. Negativa invece è la differenza tra studentesse e studenti che scelgono di fondare ex-novo una propria azienda, in quanto il 25% delle donne lo pianifica per il futuro, contro il 47% degli uomini.

Il dato relativo all’intento imprenditoriale femminile in Italia si spiega, da un lato, guardando alle limitate opportunità che le donne vedono nell’ambiente competitivo. Un segnale si coglie nell’indicatore GEDI 2015 per quanto concerne l’Italia; dove l’opportunity recognition è il parametro più basso del set che misura, in modo comparato, la bontà dell’ecosistema italiano a favore dell’imprenditorialità femminile.

Un secondo fattore da considerare sono le opportunità formative ad hoc offerte dalle università italiane. Secondo i dati GUESSS tre quarti degli studenti italiani non è soddisfatto della formazione all’imprenditorialità offerta dalle proprie università. Inoltre il 75% degli studenti dichiara di non aver mai frequentato un corso sull’ imprenditorialità, contro il 62% degli internazionali. Solo il 15% ha frequentato un corso obbligatorio e il 12% un elective di questo tipo, contro il 22% e il 19% degli internazionali.

Se guardiamo ai programmi di student’s entreprenuership realizzati in Italia, una nostra analisi delle pagine web dei 77 atenei italiani, ci dice che solo un 25%  dichiara di promuovere, con attività diverse, l’imprenditorialità dei propri studenti. Un’esperienza ancora sporadica, ma efficace, è il caso dei Contamination Lab, attivati in alcune Università Italiane a seguito di un progetto Ministeriale collegato alla legge sulle start-up innovative del 2012. Si tratta di un sistema di strumenti, percorsi formativi e di mentoring-coaching di esperti dal mondo delle imprese, volti a sostenere iniziative imprenditoriali nate dalla contaminazione di idee tra studenti che hanno background diversi e vengono da diverse discipline. L’esempio di maggior successo di Contamination lab è quello dell’università di Cagliari, responsabile scientifico Chiara Di Guardo, selezionato dal ministero dello Sviluppo economico (Mise) per rappresentare l’Italia in Europa al Premio europeo sulla promozione d’impresa. Il CLab di Cagliari, che coinvolge ogni anno 120 studenti, ha avviato nel 2016 la quarta edizione e ha già al suo attivo la nascita di 20 start-up. Nel CLab la presenza delle donne è bilanciata rispetto alla presenza di uomini, con una partecipazione alle tre edizioni in media del 45%. Se guardiamo alla percentuale di abbandoni del percorso, è interessante notare che non vi sono differenze di genere. Inoltre, anche in termini di skills e di start-up activities non si riscontrano differenze di genere, anche rispetto a variabili come l’autoefficacia imprenditoriale, a cui le donne, in base a diversi studi,  assegnano punteggi inferiori rispetto agli uomini (Wilson, Kickul, e Marlino, 2007). Un dato interessante è che le donne sembrano più ottimiste degli uomini. Questo può suggerire che le strategie di fronteggiamento messe in atto dal CLab aiutino le donne a superare le sfide del percorso. Questo potrebbe spiegare anche l’assenza di  differenze di genere rispetto agli abbandoni.

Un aspetto che può favorire lo sviluppo dell’entrepreneurial intention è acquisire consapevolezza delle proprie competenze, soprattutto di tipo soft, e formulare la propria vision per il futuro (Bonesso et al. 2014). A livello universitario il Ca’ Foscari Competency Centre lavora integrando le iniziative per l’imprenditorialità dell’ateneo con Competency Lab che favoriscono lo sviluppo di una consapevolezza del proprio profilo di competenze e una learning agenda utile per sostenere un futuro progetto di imprenditorialità anche femminile. La metodologia didattica adottata nei Lab integra sia attività in aula che attività on-line, da svolgersi tramite una piattaforma digitale proprietaria, attraverso la quale viene realizzata anche la valutazione delle competenze trasversali in etero e self-evaluation. Per quanto riguarda le attività in aula, oltre alla didattica tradizionale, sono previste attività interattive e di peer-coaching. Il Lab si integra con un seminario di orientamento all’imprenditorialità rivolto agli studenti che intendono avviare un’attività d’impresa. Da Marzo 2013 a Maggio 2014 hanno partecipato ai lab 103 studenti e 70 studentesse.

Early stage start-up

Una volta presa la decisione di avviare una impresa, qual è la presenza femminile tra le imprese di giovane età? In Italia la percentuale di donne sulla popolazione attiva, che è coinvolta in un processo di formazione di una nuova impresa, o ne ha appena lanciata una, è in media meno del 5% (5% in Europa) e inferiore a quella maschile, che è appena superiore al 5% (Kelly et al. 2014).

La differenza tra la percentuale delle donne con intento imprenditoriale (10%) e quelle con una impresa appena avviata (5%) indica la difficoltà di tradurre una idea di business e una intenzione imprenditoriale in un progetto che possa concretamente trasformarsi in una nuova impresa.

Le caratteristiche dell’imprenditorialità attivata dalle donne segnalano le barriere che le imprenditrici devono ancora affrontare in questa fase.

L’imprenditorialità delle donne incide ancora in modo prevalente nel settore dei servizi, rispetto a quello dell’industria, e nell’industria la loro presenza riguarda comparti più tradizionali, rispetto al settore high-tech e ICT.

Per quanto riguarda la crescita dimensionale, le donne che guidano nuove imprese e prevedono di assumere 6 o più addetti nell’arco di 5 anni, in Italia sono meno del  10%, il tasso più basso di tutta l’Europa innovation-driven, che in media ha valori che sono il doppio di quello italiano (Kelly et al. 2014).

Particolarmente significativo e positivo è invece l’impatto in termini di innovazione delle donne, in quanto la percentuale di imprese che portano sul mercato un prodotto o servizio nuovo per i clienti e non ancora offerto dalla concorrenza, in generale, è simile tra uomini e donne.

Una caratteristica che segnala dinamicità e capacità di competere è rappresentata dalla propensione all’internazionalizzazione. Secondo dati GEM la percentuale sul totale di imprenditrici alle prime fasi, che sono orientate a realizzare almeno il 25% del loro fatturato oltre i confini domestici, varia a livello internazionale. In Italia le donne imprenditrici con forte propensione all’internazionalizzazione sono circa il 10% del totale (gli uomini sono più del 25%). In media in Europa la percentuale è maggiore di quella italiana. Tuttavia, un dato positivo viene dal Female Entrepreneurship Index 2015, secondo il quale le donne imprenditrici italiane hanno una buona propensione all’export (Terjesen e Lloyd  2015).

Diversi fattori possono intervenire nel facilitare o impedire l’avvio e implementazione di un progetto imprenditoriale, in particolare se innovativo e con valenza internazionale. Di nuovo le università possono avere un impatto significativo, considerando che start-up innovative possono essere avviate non solo dalle studentesse ma anche, in seno ai dipartimenti, dalle stesse ricercatrici.

Da questo punto di vista, una buona percentuale di atenei italiani sta investendo in uffici per il trasferimento tecnologico che possono accompagnare fenomeni di spin-off. Il rapporto Netval 2015 indica che in totale sono 1.144 le imprese spin-off della ricerca pubblica, in forte crescita. Nel 2013 sono state costituite 110 unità (pari al 9,6% del numero complessivo di imprese spin-off ad oggi identificate nel nostro Paese) con un buon tasso di sopravvivenza e un’età media pari a circa 6 anni di attività.  Purtroppo la ricerca Netval si focalizza sulle imprese e non sugli imprenditori, quindi manca il dato di genere, che darebbe una interessante chiave di lettura sulle opportunità offerte e colte dalle donne ricercatrici nelle diverse aree di ricerca.

Sul piano del sostegno da parte delle università alle imprese in formazione, tra il 2004 e il 2010 sono stati creati 23 incubatori collegati al contesto universitario italiano (Annovi 2014) e il dato è in crescita. Queste iniziative tendono a sostenere le start-up fornendo spazi per il co-working dove neo imprenditori e imprenditrici possono incontrarsi e discutere dei propri progetti, sono offerti programmi di mentoring e opportunità di networking, oltre ad assistenza più specialistica.

Un’altra iniziativa universitaria con un buon impatto sulla nuova imprenditorialità anche femminile è la Start Cup Competition, che coinvolge oggi il 70% degli atenei italiani, ed è volta a sostenere, mediante un processo di competizione selettiva, la cultura d’impresa entro le università, sostenendo l’avvio dei progetti imprenditoriali più promettenti, sia di studenti che di ricercatori. La Start-cup competition viene organizzata dal PNICube, l’associazione che coordina incubatori e business plan competition a livello universitario. Fondata con l’obiettivo di stimolare la nascita di start-up nel contesto universitario, l’associazione ha tra i propri aderenti 35 università. La Business Plan Competition è organizzata su due fasi, la prima a livello locale, nell’ambito delle Start Cup regionali organizzate dalle università di una medesima regione, la seconda e ultima fase, su base nazionale, è il Premio Nazionale per l’Innovazione (PNI). I vincitori entrano negli incubatori e usufruiscono di uffici, connessione internet, altri servizi, consulenza manageriale e networking. Grazie alla visibilità e la comunicazione dello Start-Cup, viene favorita anche la narrazione di storie di impresa di successo e la presentazione di role model, utile a sostenere la formazione di un entrepreneurial intention femminile.

Un ecosistema per l’imprenditorialità anche femminile

In generale, nelle prime fasi di vita della propria impresa, le donne vivono lo stesso tipo di barriere degli uomini, tuttavia la ricerca ci dice che per molte di queste barriere l’asticella che le donne devono superare è più alta, in particolare nella individuazione di fonti di finanziamento (Jennings and Brush 2016). Di conseguenza le iniziative volte a sostenere un ecosistema per l’imprenditorialità possono certamente favorire anche l’imprenditorialità femminile, tuttavia particolare attenzione e strumenti adatti vanno attivati a favore del target femminile, ancora oggi più debole, sebbene stia dando segnali positivi di crescita.

Purtroppo come si è visto l’Italia risulta ancora non alla pari con altri paesi, in fatto di supporto a start-up e start-up al femminile. La legge 221 del 2012 è stata solo un primo passo nella costruzione di un ecosistema efficace ed efficiente.

Un recente report sui migliori eco-sistemi per le start-up (Global Start Up Ecosystem Report 2012), da cui l’Italia risulta esclusa, ha identificato un set di risorse necessarie nelle prime fasi di vita di una impresa innovativa, tradotto in otto indicatori utili ai policy maker. Tra questi vi sono indicatori che misurano le iniziative di venture capital a sostegno delle start-up, la qualità dei network a supporto dell’imprenditorialità tra cui mentorship, service providers e altre fonti di finanziamento, inoltre vi sono indicatori che misurano il talento degli imprenditori-trici, età, l’educazione, l’industry expertise e il grado di successo in precedenti iniziative imprenditoriali  e infine è compreso anche il grado di diversità supportata da un eco sistema, dalle diversità demografiche a quelle tra imprese.

Migliorare ciascuno di questi elementi di un ecosistema per l’imprenditorialità può favorire anche quella femminile. Infatti la ricerca indica che i migliori Eco-system, tra cui Silicon Valley, Tel Aviv, Los Angeles, Seattle, New York e Boston, hanno una percentuale di imprenditrici che, seppur non  alla pari con gli uomini in quanto oscilla tra il 9 e il 18%, è mediamente superiore a quello di ecosistemi più bassi nel ranking, nei quali la componente femminile si attesta in media attorno al 5%.

Gli aspetti a cui va rivolta l’attenzione nell’ambito di una costruzione dell’ecosistema per start-up anche femminili sono diversi, tra questi, importanti sono l’acceso al credito, il training su business skill e la rete di supporti. Relativamente ai primi due interventi, un recente report dell’ILO’s Women’s Entrepreneurship Development (WED) programme (2015), indica che iniziative che integrano finanziamenti come le borse e il business training, come avviene negli Start-Cup, sono più efficaci di iniziative separate.

In relazione al ruolo del network nella nascita di una nuova impresa, diversi studi ci dicono che la rete di partnership di business e collaborazioni anche informali è centrale nella formazione di una nuova impresa (Comacchio et al. 2016). Per questo nel 2009 la Commissione europea ha inaugurato l’European Network of Female Entrepreneurship Ambassadors, per rendere più visibili degli inspirational role models per donne con l’intenzione di divenire imprenditrici e ha dato seguito a questa iniziativa con la costituzione, nel 2011, dell’European Network of Mentors for Women Entrepreneurs, che su base volontaria fornisce consulenza a donne che avviano o gestiscono un proprio business.

Iniziative di questo tipo sono presenti anche in Italia, anche a cura di diverse associazioni a favore delle donne imprenditrici. Corsi sulla leadership al femminile, tavole rotonde con imprenditrici, sistemi di social networking attivati da diverse università italiane, vanno in questa direzione. La sfida per il futuro è riuscire a consolidare queste iniziative, integrandole meglio con tutte le azioni per l’imprenditorialità, che possano rafforzare le nostre università anche come Entrepreneurial universities.

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