Stiamo assistendo a rilevanti trasformazioni del lavoro. Alcune di queste agiscono ormai da tempo; altre si sono attivate o si sono amplificate a fronte della recente pandemia. Aldilà delle inevitabili difficoltà e delle incertezze del momento, si apre una grande opportunità di riprogettazione e dobbiamo utilizzarla per costruire lavori di senso per le persone e produttivi per le imprese e le comunità. Ma il lavoro e la sua analisi organizzativa hanno perso negli anni centralità tanto negli studi quanto nel dibattito. Per agire in modo intenzionale e non ritrovarsi a subire trasformazioni emergenziali al ribasso è necessario ora un investimento sul lavoro e sulla sua strumentazione di analisi.
Le retoriche contro il lavoro
La progressiva riduzione di centralità del tema del lavoro e dei connessi strumenti di analisi è un fenomeno in corso ormai da tempo e a cui hanno contribuito diversi fattori.
La retorica decrescista e antagonista. I primi venti anni del nuovo secolo sono stati caratterizzati dal ritorno alla retorica del lavoro come depauperamento della persona. Tanto dai movimenti anti-impresa (Klein 2000) quanto dai fautori della decrescita (Latouche,2007) il lavoro è stato circoscritto a fonte di sostentamento economico. Ne è derivata la nascita del mito risolutorio del ‘reddito’ elargito dallo Stato, ma anche la ricomparsa di rappresentazioni antagoniste di lavoro e capitale. La crisi che stiamo vivendo mette in evidenzia, però, che il lavoro non si crea per legge e che nasce e si sviluppa nelle imprese (pubbliche e private). E la bassa efficacia di politiche pubbliche passive rimarca che il lavoro non ha una valenza solo economica né per la persona né per la comunità e che non ci si può limitare a sostituirlo con un sussidio.
La retorica delle nuove élite culturali. Contestualmente si è diffusa la rappresentazione di una nuova élite, altamente istruita, che non si identifica con il lavoro e che si riconosce nelle scelte di tempo libero. È una élite che si descrive attraverso consumi sostenibili (ad esempio, mangiare e vestire organico), che dedica risorse e energie alla cura diretta dei figli (si pensi, all’epica dell’allattamento a oltranza) e alla preparazione di cibo sano (Currid-Halkett, 2017). Ma l’identità della persona avulsa dal lavoro e costruita intorno ai consumi culturali si infrange sui dati di analfabetismo funzionale dei Paesi. Per quanto queste élite possano essere un fenomeno sociologicamente interessante, i dati empirici mostrano che si tratta di una esigua minoranza di persone e quasi esclusivamente concentrate nei centri delle grandi città internazionali. Per la maggioranza degli altri la perdita della dimensione identitaria e sociale del lavoro non viene colmata dall’affermazione di altre dimensioni. Per moltissime persone l’impresa rimane uno dei pochi luoghi in cui continuare a sviluppare apprendimento e fare comunità sociale e il rafforzamento di una identità professionale rimane, quindi, centrale per il benessere della persona (Cappetta, 2018a).
La retorica della persona e delle competenze personali. A partire già dagli anni ’30 del novecento negli studi organizzativi si è diffuso un crescente interesse per la persona (Mayo, 1923). Risultò chiaro che le analisi tecniche del lavoro dovessero essere completate con lo studio delle caratteristiche delle persone e delle loro relazioni. Più recentemente, però, questa attenzione verso la persona, i suoi comportamenti e le sue competenze emotive, relazionali e manageriali (Pfeffer, 1994) si è sviluppata a scapito dell’interesse per l’analisi delle caratteristiche del lavoro e delle competenze tecniche. Ma la produttività delle imprese e delle comunità è strettamente connessa alle competenze tecniche; come pure lo skill mismatch fra domanda e offerta di lavoro in molti Paesi è principalmente concentrato sulle figure tecniche e, in particolare, sui tecnici intermedi. Risulta oggi evidente che, pur essendo tutti concordi sulla centralità della persona, non possiamo sottovalutare la dimensione tecnica del lavoro.
La retorica della complessità e della flessibilità organizzativa. Negli ultimi anni una trasposizione azzardata delle riflessioni sulla modernità liquida (Bauman, 2000) ha suggerito a taluni che la modernità dell’organizzare passi dal concetto di fluidità (Schreyogg e Sydow, 2010). Si è parlato di organizzazioni ‘sempre in stato instabile’ (Eisenhardt e Martin, 2000), di organizzazioni ‘senza confini’ o con confini ‘sfocati’ (Ashkenas et al., 2002), di organizzazioni ‘virtuali’ (Davidow e Malone, 1992) in cui tutto fluisce senza sosta ed interno ed esterno si confondono. Ma quanto la liquidità di Bauman ha finito per giustificare la delegittimazione di ogni organizzazione sociale a favore di una fantomatica rappresentanza diretta dell’homo consumens (2007), tanto la fluidità organizzativa è diventata la scusa per non volersi assumere responsabilità specifiche e per non volersi cimentare nella complessa impresa di progettare lavori specifici su competenze specifiche. Tanto πάντα ῥεῖ. Ma il rifiuto di organizzare le responsabilità e i lavori, lungi dal costituire un elemento di postmodernità, rischia di diventare una fuga consolatoria dalla complessità. Nel momento in cui le persone si trovano ad operare in impresa, le unità e le responsabilità organizzative non possono essere fluide, o le abbiamo attribuite o non ci sono. E così i lavori e le connesse competenze non possono essere sfocati, o li abbiamo definiti o non ci sono e, se servono, si devono sviluppare. È la continuità del monitoraggio, non la fluidità, ad impedire che le regolarità necessarie tanto nei lavori quanto nelle strutture di responsabilità si trasformino in rigidità (Cappetta, 2018b).
Senza lavoro non c’è valore
Per quanto si sia pensato di poterne fare a meno, il tema del lavoro e della sua analisi ritorna. E diventa centrale per le persone, le imprese e le comunità.
Il lavoro non è un insieme di compiti che la persona ripete per riempire 40 ore settimanali e ottenere un salario. Il lavoro non genera solo valori economici e non può essere sostituito da un sussidio. Il lavoro non può essere ridotto solo a un ‘posto’ da tutelare. È sicuramente importante discutere di lavoro in termini di tutele (e del resto siamo passati senza soluzione di continuità dall’annoso dibattito sull’articolo 18 a quello –ugualmente sfiancante- sul reddito di cittadinanza). Ma è almeno altrettanto rilevante occuparsi di qualità del lavoro e progettare il lavoro affinché sia generativo di valori multipli e non solo economici (Porter e Kramer, 2011).
Il lavoro è un insieme di compiti finalizzati a produrre un risultato di arricchimento materiale e immateriale per la persona, per l’impresa e per la comunità. Ed è questo risultato nella sua completezza che dà il senso al lavoro e che lo rende un lavoro di qualità, qualcosa con cui le persone possano identificarsi e che contribuisce al loro benessere.
Oggi c’è un insieme non piccolo di persone, di cui i NEET (‘not in education, emplyment or training’) sono solo una parte, per cui il lavoro non è un fatto identitario, ma nemmeno un fatto aspirazionale. C’è un insieme di persone per cui il lavoro non è un’opportunità per attivare una crescita, né uno strumento per identificare la comunità sociale di riferimento. In un romanzo del 1978 Primo Levi raccontava che servono lavori di cui ci si possa innamorare. Servono lavori che agiscano come ‘salvazione’ per la persona, perché un lavoro bello può essere ‘la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra’ (Levi, 1978). E da qui bisogna ripartire e dirci che occuparci di bellezza del lavoro non è vezzo da radical chic. In una economia non più incentrata sulla ripetizione di attività semplici parlare di bellezza del lavoro significa parlare di produttività.
Non miglioreremo i dati di produttività senza agire sulla qualità del lavoro. E progettare lavori di qualità e produttivi significa ritornare all’analisi del lavoro e intervenire in modo intenzionale sulle sue caratteristiche. Lavori di qualità e produttivi devono essere caratterizzati da un risultato di senso compiuto, da varietà e ricchezza dei compiti, da discrezionalità rispetto alle modalità per raggiungere il risultato; devono essere svolti in condizioni di sicurezza; devono contribuire a rispondere ai bisogni di socialità delle persone (Morgesson e Humphrey, 2006). Lavori di qualità e produttivi necessitano di un patrimonio ampio e solido di competenze, innanzitutto di competenze tecniche. Per questo motivo, progettare lavori di qualità e produttivi significa anche dotarsi diffusamente di percorsi di formazione investendo sia in politiche aziendali che in politiche attive per la riqualificazione del lavoro (Cappetta e Del Conte, 2019).
(Ri)Emerge finalmente la necessità di rimettere il lavoro al centro e di avere a disposizione strumenti rigorosi di analisi, di progettazione e di gestione del lavoro.
La centralità del lavoro (e della sua analisi) in epoca di pandemia: un lavoro agile di qualità
L’emergenza pandemica ha portato al centro del dibattito la modalità di lavoro agile. Mai come negli ultimi mesi abbiamo parlato di lavoro agile. E mai ne abbiamo parlato in modo tanto ideologico. La modalità agile è stata presentata di volta in volta come occasione di liberazione del lavoro dal controllo e dalla specializzazione, come strumento per la sostituzione della gerarchia con la fiducia, come automatico generatore di mansioni creative e soddisfacenti, come provvidenziale soluzione di taglio del costo del lavoro. Non a caso in Italia lo abbiamo chiamato ‘smartworking’ e nella scelta dell’attributo ‘smart’ abbiamo concentrato tutta la nostra aspirazione ad una modalità di lavoro migliore, anzi “socialmente desiderabile” (Corsi, 2017). Ma superata una prima e forse comprensibile fascinazione, è doveroso essere precisi per sfuggire ad un dibattito superficiale che, dopo essere improduttivo, comincia a diventare dannoso. Ripartire dagli studi e dagli strumenti di analisi organizzativa è fondamentale per una analisi rigorosa che ci permetta di progettare lavoro agile di qualità.
Da ormai molti anni gli studi evidenziano che grazie allo sviluppo delle tecnologie un numero crescente di lavori può distribuirsi e non essere vincolato all’interno dei confini fisici dell’impresa e dei tempi di lavoro rigidamente prestabiliti. Ma questo appariva abbastanza chiaro già a McLuhan nel ‘64. Il fatto che questa distribuzione del lavoro avvenga e avvenga in modo efficace è una scelta organizzativa e questa scelta non è banale. Di questa scelta, fatti i debiti distinguo per i cambiamenti introdotti dall’evoluzione delle tecnologie, se ne discute attivamente dalla fine degli anni ’90 almeno (Orlikowski, 2000). E si evidenzia che il lavoro in modalità agile non è la panacea risolutrice di ogni problema: di per sé l’introduzione di lavoro agile non produce in modo automatico aumenti né di produttività individuale né tantomeno di produttività complessiva di impresa; e non produce in modo automatico neppure incrementi di soddisfazione del lavoratore. Al contrario, i risultati del lavoro agile (siano essi di produttività o di soddisfazione) dipendono da molti elementi, fra cui sono centrali le caratteristiche del lavoro (Gajandran e Harrison, 2007). Molte di queste caratteristiche le conosciamo e le sappiamo misurare (Morgeson e Humphrey, 2006). E, misurandole, le imprese più avanzate hanno costruito indicatori di ‘prontezza’ dei lavori (‘work readiness’) sulla base dei quali scelgono l‘intensità con cui introdurre la modalità agile.
L’introduzione diffusa della modalità agile non pone solo un tema di progettazione, ma anche di gestione del lavoro. La perdita dei vincoli tradizionali di spazio e di tempo ha effetto su numerosi elementi organizzativi: l’osservabilità a vista dei comportamenti, la frequenza del coordinamento tacito e non pianificato, l’intensità dell’apprendimento sociale. Per questo motivo, la gestione del lavoro agile richiede di declinare in modo diverso i meccanismi organizzativi di divisione, di controllo e di coordinamento del lavoro. E anche in questo caso la conoscenza e gli strumenti organizzativi ci sono di supporto. Già dagli anni ’70 alcune imprese hanno ridotto la necessità di coordinamento e di controllo per osservazione diretta attraverso la progettazione di lavori caratterizzati da alta discrezionalità e bassa interdipendenza. E per valutare i lavori così progettati hanno sperimentato meccanismi di monitoraggio della prestazione individuale basati sull’attribuzione di obiettivi specifici al singolo (il ‘management by objective’ o MBO). Per alcuni lavori questa riprogettazione ha funzionato bene, mentre per altri non ha funzionato affatto. E ha, invece, prodotto maggiore orientamento al breve periodo, maggiore competizione individuale, minore cittadinanza organizzativa, maggiore attenzione alla proprio prestazione personale a scapito di quella complessiva del proprio gruppo e dell’impresa. Altre imprese, le prime già dagli anni ’60, hanno ridotto il fabbisogno di integrazione aumentando non l’autonomia del singolo, ma del gruppo di lavoro – con il lavoro ad ‘isole’, per ‘unità semiautonome’ – e hanno attivato meccanismi di valutazione e ricompensa basati sui risultati del gruppo (il ‘gain sharing’). E similmente grazie ai nuovi strumenti di ‘agile management’ si sono diffuse le ‘squad’, gruppi interfunzionali in cui la soddisfazione e la ricchezza del lavoro derivano proprio da una più stretta connessione con gli altri. Negli ultimi anni questi meccanismi di divisione e monitoraggio del lavoro in gruppo sono stati utilizzati sempre più di frequente per comunità virtuali, in cui molti o tutti i partecipanti lavorano in remoto.
In sintesi, non è affatto detto che l’introduzione della modalità agile debba necessariamente implicare la divisione in lavori individualizzati con obiettivi misurabili nel breve periodo e ridotta interdipendenza da ogni comunità sociale in impresa. E potrebbe, invece, al contrario essere gestita attraverso un più intenso impiego di comunità virtuali e di strumenti di coordinamento e monitoraggio basati sul gruppo. Oggi abbiamo la conoscenza e gli strumenti organizzativi per scegliere. Possiamo progettare lavori a cui corrispondano un numero maggiore o minore di compiti, una maggiore o minore varietà dei compiti, una maggiore discrezionalità nella scelta delle modalità di raggiungimento dei risultati. Possiamo progettare meccanismi di controllo dei comportamenti di contribuzione individuale e di gruppo, meccanismi di controllo dei risultati individuali, meccanismi di controllo dei risultati di un gruppo. Quello che non possiamo fare è sostenere che il lavoro agile agirà da magica bacchetta di sambuco. L’efficacia della modalità agile non deriverà automaticamente dalla sua diffusione emergente e a pioggia, ma dipenderà dalla riprogettazione delle caratteristiche del lavoro e dei meccanismi organizzativi che ne supportano la gestione (Cappetta e Del Conte, 2020).
La diffusione repentina del lavoro agile può essere un’opportunità di miglioramento del lavoro se diventa occasione di riprogettazione. Sprecare questa opportunità rischia di farci ritrovare alla fine della pandemia con lavori più poveri, più isolati, più ripetitivi e alla fine, quindi, meno produttivi. Usiamola, invece, per costruire lavori di senso, lavori ‘salvifici’ à la Levi.
Conclusioni
Abbiamo le conoscenze per tornare a valorizzare il lavoro e tutte le sue diverse modalità. Abbiamo gli strumenti per fare di questo momento un’occasione per costruire lavori migliori per l’impresa, per la persona e per la comunità. È necessario, però, riconoscere che queste conoscenze e questi strumenti organizzativi non sono ugualmente diffusi in tutti i contesti lavorativi. Si pone, quindi, in modo urgente la questione del supporto tanto ai lavoratori più fragili quanto alle imprese meno managerializzate. E diventa fondamentale far convergere e coordinare soggetti e risorse sia pubbliche che private sulla sfida della bellezza del lavoro.
Bibliografia
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