Living o dell’inestricabilità fra senso della vita e senso del lavoro

Living di Oliver Hermonus è il film perfetto per una riflessione sul ‘nuovo lavoro’ di cui tanto si parla. Ambientato agli inizi degli anni ’50, è il remake di Vivere di Akira Kurosawa del 1952, trasposizione de La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj del 1886. E tutto dai riferimenti temporali del film (rimarcati pure da una fotografia effetto ‘anticato’) ai precursori narrativi prima e cinematografici poi sembra gridare: pericolo. Pericolo di lontananza ché oggi tutto è diverso. Nelle imprese poi, figuriamoci che nemmeno c’era l’impresa moderna ai tempi di Tolstoj. E già che il funerale al Novecento sentiamo di doverlo celebrare più volte al giorno. Eppure, Living è un film di straordinaria contemporaneità sul senso della vita che è un groviglio inestricabile con il senso del lavoro, nel bene e nel male. E, quindi, è un film per riflettere un poco su certi racconti di mode sedicenti nuove dal ‘quite quitting alle ‘great resignation’, dallo ‘smart working’ al ‘south working’ fino al ‘no working’, come pure su certe lamentele che ‘i giovani di oggi, signora mia, non hanno più voglia di lavorare/di andare in ufficio/di fare sacrifici/et. al.’ È già tutto lì. Non solo lì nel novecentesco Kurosawa, ma proprio lì nell’ottocentesco Tolstoj. Essere sempre immersi nella disamina di trasformazioni attualissime talvolta sembra più funzionale alle zuffe ideologiche. Perché, invece, la questione esiziale è antica. Ed è la questione del senso per l’essere umano. E del guazzabuglio, mai davvero districabile, fra senso della vita e senso del lavoro. E, quindi, Living, come prima Vivere e prima La morte di Ivan Il’ič, dice del lavoro che definisce la persona e non può che essere vita. E così Mr. Williams è prima di tutto un funzionario del dipartimento ‘Lavori pubblici’ dell’ufficio municipale londinese. Il suo lavoro, per quanto mal svolto o forse proprio perché mal svolto, lo definisce, come definiva Ivan Il’ič, “membro della Corte di Giustizia” e prima di lui suo padre: “Era figlio di un funzionario che a Pietroburgo fra ministeri e dipartimenti vari aveva fatto quel tipo di carriera che sbocca alla fine in una situazione particolare: è chiarissimo che il funzionario in questione non è adatto a svolgere nessun incarico di qualsivoglia peso, tuttavia per la sua lunga anzianità di servizio e per il suo grado egli non può essere licenziato e perciò si vede assegnato un posto fittizio, inventato apposta per lui, e uno stipendio non fittizio (…)”. E così i cambiamenti nella vita di Ivan Il’ič sono innanzitutto i cambiamenti del suo lavoro: “E Ivan Il’ič diventò così un uomo nuovo. A Ivan Il’ič fu offerto un posto da giudice istruttore”.

È il groviglio inestricabile di vita e lavoro. ‘Permeability’ la chiamano gli studiosi di organizzazione.

E, quindi, Living, come prima Vivere e prima La morte di Ivan Il’ič, dice di bruttezza del lavoro che contagia la bruttezza della vita. E, o, viceversa. Ma anche di bellezza del lavoro che poi contagia la vita e dà senso. E, o, viceversa. Parto dalla bruttezza, che è l’inizio di Living. Mr. Williams, come Ivan Ill’c e prima suo padre, è un ‘quiet quitter’ direbbe qualcuno oggi. Mr. Zombie è il soprannome, che gli ha dato una sua collega (che forse, non a caso, è donna e giovane e eccentrica e non riconosciuta dall’organizzazione). Ha scelto di non partecipare, di non contribuire, di non assumersi responsabilità. Ha un basso livello di ‘commitment’ direbbero gli organizzativi. La reificazione della sua non contribuzione è la pila in cui si assommano le pratiche più complesse: “per il momento possiamo tenerla qui, non nuocerà a nessuno”. E la pila deve rimanere alta: “altrimenti tutti penseranno che non state lavorando”. L’intera organizzazione in cui lavora Mr. Williams non è interessata a produrre valore e le pratiche si muovono in circolo fra i dipartimenti (dai ‘Lavori pubblici’ alle ‘Aree verdi’ alla ‘Igiene’ e poi di nuovo tutto daccapo nel senso inverso) senza mai trovare soluzione. A ricordarci il ‘lasciapassare A38’ in Asterix e le 12 fatiche, che poi è la weberiana inversione mezzi-fini. Ma poi, all’improvviso, Living diventa un film sulla bellezza del lavoro e della vita. Mr. Williams, di fronte alla prospettiva della morte, decide di riprendersi il senso della vita riprendendosi il senso del lavoro. E prende la pratica più complicata, nascosta nella pila più alta, quella che ha fatto più giri fra i dipartimenti la pratica del parco giochi in un quartiere povero- e decide di assumersene la responsabilità. ‘Accountability’ si dice negli studi di organizzazione. Mr. Williams sceglie di tornare al lavoro (e in vita) prendendosi la responsabilità di creare un valore specifico, concreto, compiuto per la sua organizzazione, per la sua comunità e per sé. E il senso del risultato che sente di voler raggiungere trasforma il suo lavoro e la sua vita. Lo spinge a comportamenti inusuali: indossa un nuovo cappello dapprima e poi cammina vigorosamente fra i corridoi e corre sotto la pioggia e implora il grande capo. E genera bellezza, del lavoro e della vita. E genera valore, nel lavoro e nella vita. Alla fine, il parco giochi è là e -spoiler- lui passerà la notte prima di morire sull’altalena. E canta. Living dice, in modo più immediato di molti manuali di organizzazione, che un lavoro bello, un lavoro di qualità, deve essere innanzitutto un lavoro di senso. Senso per la persona che lo svolge, per l’organizzazione in cui lavora, per la sua comunità di riferimento. ‘Job meaningfulness’ la chiamano gli analisti organizzativi. E poi racconta che un lavoro bello deve portare a un risultato, piccolo o grande che sia, ma completo, che la persona può apprezzare nella sua interezza una volta raggiunto. ‘Job identity’ è il nome organizzativo di questa caratteristica. E, infine, evidenzia che un lavoro bello non è un lavoro isolato, ma si svolge insieme agli altri perché necessita del contributo e delle competenze di molti e perché l’energia dei molti è ricchezza e soddisfazione. ‘Job interdependence’ è la dimensione organizzativa che misura il grado di connessione di un lavoro con gli altri. Living ci racconta che occuparci di bellezza del lavoro non è solo una attività da nerd organizzativi; né un tema solo a favore della produttività delle imprese. Ma è fatto rilevantissimo per il benessere delle persone e delle comunità. Infine, Living, e prima Vivere e prima ancora La morte di Ivan Il’ič e prima ancora molti e molti altri, è lì a ricordarci che la questione del lavoro non la risolveremo con una battaglia retorica fra novecentisti e visionari del mondo nuovo. Progettare lavori di qualità è indispensabile per le persone, per le imprese e per le comunità. Progettare lavori di qualità genera valore per tutti e, quindi, va incentivato certo anche con le leggi adeguate. Ma non sarà una legge, per quanto ben scritta, a risolvere una questione così antica e così fondativa dell’essere umano. Dobbiamo entrare nelle imprese a progettare lavori specifici, con persone specifiche dotate di competenze specifiche. E, date le condizioni dignitose di lavoro (lo ripeto e, con enfasi, ché so quanto non sia scontato), non possiamo porre attenzione solo a tempi e luoghi rischiando nuovi antagonismi per problemi vecchi: quelli della settimana 4 giorni contro quelli della settimana a 5 giorni, quelli del remote working 5 giorni su 5 contro quelli 2 giorni su 5, etc. etc. Certo è più faticoso, ma è necessario ripartire dai contenuti e dalle competenze dei lavori. Perché sono i contenuti e le competenze a dare senso al lavoro. Che poi è vita. Nei primissimi giorni dell’anno Dario Di Vico ci invitava dalle pagine di Sette del Corriere della sera “a dedicare – anche con un po’ di enfasi- l’anno che viene, l’ombroso 2023, alla Qualità del lavoro”, dopo tanto e solo parlare di quantità. Ecco, dopo aver visto Living, mi è sembrato un augurio perfetto.

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