Lavoro agile: il tortuoso trade-off tra modello di organizzazione del lavoro e strumento di welfare

Le norme che prevedono il “lavoro agile” nel nostro ordinamento si sono stratificate nel corso degli anni, a partire dall’art. 4 della Legge 191/1998 (Bassanini ter), dove si parla per la prima volta di “lavoro a distanza“ fino ad arrivare all’art. 14, comma 1 della Legge 124/2015 (Riforma Madia), nella quale si sancisce la necessità di avviare misure organizzative volte a promuovere l’attuazione del “telelavoro” e la sperimentazione di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa. 

Tale strumento è stato poi successivamente sollecitato anche dall’art. 18 della Legge 81/2017 la quale, al fine di incrementare la competitività’ e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, ha promosso il lavoro agile quale “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività’ lavorativa”. Sotto queste coordinate, gli stessi presupposti che avevano sollecitato il “lavoro a distanza” e il “telelavoro” risultano inevitabilmente condizionati da un punto di vista diverso, che richiede di invertire la logica di utilizzo: la nuova modalità di lavoro agile diviene uno strumento non più orientato a soddisfare alcune esigenze soggettive, bensì un vero e proprio modello di organizzazione del lavoro tramite il quale conciliare al meglio esigenze organizzative, istituzionali e personali attraverso il potenziamento delle competenze, delle responsabilità e della flessibilità. 

Il lavoro agile emergenziale 

La situazione emergenziale e l’urgenza di individuare modalità di convivenza con la pandemia, hanno inevitabilmente richiesto un adeguamento immediato delle consuete modalità lavorative. E’ intervenuto così l’art. 1, comma 6 del DCPM del 11.03.2020, che ha imposto alle PP.AA. di assicurare lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio personale dipendente. 

Fin da subito, con decreto legge n. 18/2020 è stato definito che il lavoro agile è la modalità ordinaria di prestazione dell’attività lavorativa nelle pubbliche amministrazioni (art. 87 comma 1), introducendo peraltro una versione “semplificata”, la quale prevede che durante il periodo emergenziale per accedere al lavoro agile non sia necessaria la stipula dell’accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente prevista dalla Legge 81/2017. Successivamente con il DL 104 del 14 agosto 2020 il lavoro agile è passato dall’essere la modalità ordinaria ad essere una delle modalità ordinarie di effettuazione della prestazione lavorativa. Si è così consolidato, probabilmente, un trend che vedeva inizialmente il lavoro agile in regime sperimentale, per poi diventare la modalità di lavoro prevalente e, infine, passare ad essere una delle modalità ordinarie di prestazione lavorativa. 

L’evoluzione del lavoro agile emergenziale 

Con la seconda ondata dell’epidemia, è stata di nuovo rafforzata l’esigenza di utilizzare il lavoro agile, anche e soprattutto nella pubblica amministrazione. Il DPCM del 13 ottobre 2020, infatti, ha sancito all’art. 3 comma 3 che nelle Pubbliche Amministrazioni sia incentivato il lavoro agile, con le modalità stabilite da uno o più decreti del Ministro. Sei giorni dopo, il Ministro per la Pubblica Amministrazione ha emanato di conseguenza un decreto che ribadiva come, fino al 31 dicembre 2020, rimane in vigore la versione semplificata che non prevede la stipula dell’accordo individuale. 

La maggiore novità introdotta stavolta dal decreto, sul piano organizzativo, riguarda la previsione che il lavoro agile possa avere ad oggetto sia “le attività ordinariamente svolte in presenza”, sia “attività progettuali specificamente individuate tenuto conto della possibilità del loro svolgimento da remoto” (art. 1 comma 3). Sotto la lente dell’organizzazione del lavoro, si tratta di un notevole passo in avanti rispetto alla precedente previsione del DL 18/2020, la quale prevedeva addirittura la possibilità per le pubbliche amministrazioni di esentare il personale dal servizio e considerare il periodo di esenzione come servizio prestato a tutti gli effetti1. Con il nuovo decreto sembra invece che le attività dei lavoratori di una Pubblica Amministrazione possano essere adattate, e quindi variare leggermente, in ragione della diversa organizzazione del lavoro, o debbano comunque essere individuate attività progettuali, eventualmente sostitutive delle attività ordinariamente svolte, abbandonando dunque la precedente previsione “ipergarantista” del DL 18/2020. 

Un chiarimento necessario 

Il decreto del 19 ottobre torna anche ad illustrare che cosa si intende per lavoro agile, vale a dire lo svolgimento della prestazione lavorativa in parte nei locali della pubblica amministrazione e in parte all’esterno degli stessi. Tale impostazione è avvalorata anche dalla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del decreto stesso, che prevede una rotazione del personale tesa ad assicurare un’equilibrata alternanza nello svolgimento dell‘attività lavorativa in modalità agile e di quella in presenza. Ritornare su queste descrizioni era probabilmente necessario anche in ragione della diffusione, nel dibattito pubblico, di un’impropria concezione di lavoro agile. L’utilizzo dello pseudoanglicismo smart working, difatti, non ha di certo contribuito a fare chiarezza, offrendo una visione eccessivamente “romantica” dell’evoluzione del lavoro, il quale secondo alcuni commentatori diverrebbe finalmente “intelligente”, andando così a mettere in cattiva luce le altre modalità ordinarie di prestazione dell’attività lavorativa. 

Ricordiamo che uno pseudoanglicismo è una costruzione sintattica conforme alla morfologia della lingua inglese, ma in realtà inesistente nei dizionari inglesi. Abbiamo infatti scoperto tutti quanti, tra lo scetticismo e lo stupore, che il termine smart working non esiste nel lessico anglosassone, il quale invece utilizza, per esprimere il medesimo concetto, la locuzione remote working. Più correttamente, la International Labour Organization definisce il lavoro agile come ICT mobile work, vale a dire svolgimento del lavoro fuori dagli ambienti aziendali utilizzando tecnologie avanzate. Sulla scorta di queste descrizioni, però, molti hanno teso ad identificare il lavoro agile con una modalità di organizzazione del lavoro che prevede l’esecuzione della prestazione interamente da remoto. Secondo la disposizione normativa italiana, invece, il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro in cui la prestazione viene svolta in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa(articolo 18 della legge 81/2017). Tuttavia, la disquisizione attorno al termine smart non può essere liquidata attraverso un mero ragionamento etimologico. Ad essere intelligente, probabilmente, non è tanto la modalità di esecuzione del rapporto di lavoro introdotta dal lavoro agile, quanto il modello di organizzazione del lavoro che dovrebbe derivarne. Lo stesso Governo, sul portale Clicklavoro parla di “nuovo approccio all’organizzazione o nuovo modello organizzativo”, mentre l’ Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano si spinge a definirlo “nuova filosofia manageriale”. 

Il trade-off tra modello di organizzazione del lavoro e strumento di welfare 

Le definizioni manageriali appena viste hanno dovuto fare i conti con la funzione socio sanitaria di ammortizzatore che è stata assegnata al lavoro agile durante la fase di emergenza sanitaria. L’articolo 3 del decreto del 19 ottobre 2020 del Ministro della Pubblica Amministrazione, infatti, ha stabilito che “le pubbliche amministrazioni, tenuto conto dell’evolversi della situazione epidemiologica, assicurano in ogni caso le percentuali più elevate possibili di lavoro agile, compatibili con le potenzialità organizzative e con la qualità e l’effettività del servizio erogato”. Lo stesso articolo ha individuato come criteri di priorità per l’accesso al lavoro agile “le condizioni di salute del dipendente e dei componenti del nucleo familiare di questi, la presenza nel medesimo nucleo di figli minori di quattordici anni, la distanza tra la zona di residenza o di domicilio e la sede di lavoro e il numero e tipologia dei mezzi di trasporto utilizzati, nonché i relativi tempi di percorrenza”. Anche se sicuramente queste previsioni hanno il fine superiore di contenere il diffondersi dell’epidemia, di fatto il lettore attento noterà che il decreto ha prodotto una commistione tra la funzione organizzativa del lavoro agile e il suo utilizzo come strumento di welfare socio-sanitario, inteso come complesso di azioni tese a garantire la salute dei cittadini2.

Tuttavia, pur nell’ambito di una cornice emergenziale, sembra non si sia completamente perduto il valore del lavoro agile quale modello di organizzazione del lavoro. Lo stesso articolo 3 del decreto in esame, infatti, al comma 1 stabilisce che i processi di lavoro che possono essere svolti in modalità agile sono individuati dai dirigenti delle pubbliche amministrazioni attraverso un’apposita “mappatura delle attività”, da svolgersi in maniera strutturata e soggetta ad aggiornamento periodico. La previsione di una mappatura delle attività lavorabili in modalità agile ha così spostato l’attenzione delle pubbliche amministrazioni dal previgente concetto di welfare aziendale (definire chi sono i dipendenti da collocare in smart working) al subentrante concetto di organizzazione del lavoro (definire quali sono le attività lavorabili a distanza). Inoltre, sempre secondo il decreto del 19 ottobre, sulla base della mappatura, i dirigenti dovranno organizzare il proprio ufficio assicurando, su base giornaliera, settimanale o plurisettimanale, lo svolgimento del lavoro agile almeno al cinquanta per cento del personale preposto alle attività che possono essere svolte secondo tale modalità. L’affidamento ai dirigenti della gestione dell’organizzazione delle prestazioni in lavoro agile appare quindi coerente con la definizione di “filosofia manageriale” offerta dal Politecnico di Milano, intesa come responsabilizzazione dei dipendenti e costruzione di rapporti di fiducia basati sulla maturità e sulla promozione dell’autonomia individuale degli stessi. 

Nella stessa direzione va anche la previsione, sempre contenuta nel decreto del 19 ottobre 2020, secondo la quale le pubbliche amministrazioni devono adeguare i tradizionali sistemi di misurazione e valutazione della performance alle specificità del lavoro agile, rafforzando i metodi di valutazione improntati al raggiungimento dei risultati. Sembra dunque che vadano progressivamente a chiarirsi anche i significati attribuibili all’aggettivo smart, il quale postulerebbe quindi delle forme evolute di organizzazione del lavoro in cui lo smart worker è messo nelle condizioni di operare su processi lavorativi complessi, interagendo a distanza in modo cooperativo con i colleghi e coordinatori, venendo valutato non attraverso una sorta di cottimo delle pratiche evase, ma piuttosto sul raggiungimento di risultati (Mattalucci, 2014). 

Anche la forte attenzione rivolta ai cosiddetti “lavoratori fragili”, che apparentemente potrebbe rispostare l’ago della bilancia verso una misura di prevenzione, o di welfare socio assistenziale, appare invece metabolizzata nel decreto del 19 ottobre 2020 senza perdere di vista il valore del lavoro agile quale strumento di organizzazione del lavoro. E’ stabilito, infatti, che il dirigente dell’ufficio dovrà adottare per questa tipologia di lavoratori “ogni soluzione utile ad assicurare lo svolgimento di attività in modalità agile anche attraverso l’adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento”. Si riconosce quindi una precisa responsabilità del dirigente nella gestione di una misura di prevenzione del rischio epidemico (la protezione dei lavoratori fragili), attraverso la messa in campo di capacità manageriali3.

Prospettive future 

Anche dopo l’emergenza sanitaria il tortuoso trade-off del lavoro agile tra modello di organizzazione del lavoro e strumento di welfare scriverà ancora diversi capitoli. L’ultima decretazione sui Piani Organizzativi del Lavoro Agile (POLA) prevede un forte legame con i Piani della Performance4, affermando in questo modo il valore intrinsecamente organizzativo del lavoro agile, volto pertanto a garantire il continuo miglioramento dell’organizzazione (d.lgs 150/2009) e il rispetto dei principi di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (Art. 97 Costituzione e Legge 241/1990)5.

Non dobbiamo tuttavia sottovalutare che nei POLA, al termine dell’emergenza sanitaria, il lavoro agile dovrà riprendere il binario dell’accordo individuale previsto dall’articolo 19 della legge n°81 del 22 maggio 2017. Da questo punto di vista, nella contrattazione ante epidemia risultano molto spesso carenti gli aspetti relativi al tema organizzativo, come ad esempio le definizione delle conseguenze per il mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati o quelle derivanti da violazioni di natura disciplinare, che dovrebbero essere opportunamente modulate fino ad arrivare al recesso dell’accordo individuale. Invece, gli strumenti di verifica degli obiettivi del lavoratore agile risultano molto rari e, dove inseriti, prevedono l’assistenza di un rappresentante sindacale. Recentemente l’Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni Industriali ha evidenziato come la contrattazione sul lavoro agile all’interno della Pubblica Amministrazione risenta molto dell’ingerenza del diritto amministrativo nella definizione delle modalità organizzative. Si legge ad esempio in molti documenti il termine “graduatoria” il che rimanda implicitamente ad una concezione del lavoro agile quale strumento di welfare, nella preponderante ottica di una modalità che mira a tutelare le esigenze del lavoratore, piuttosto che di modernizzazione del funzionamento della macchina pubblica.

Conclusioni 

Il pericolo sempre in agguato è che anche i POLA si traducano, come purtroppo talvolta accade nella Pubblica Amministrazione, in colossali operazioni burocratiche, nelle quali montagne di ore ed energie lavorative verrebbero spese a compilare graduatorie, effettuare calcoli, pesature, perdendo di vista la vera finalità del dispositivo normativo, cioè la creazione di valore pubblico. Probabilmente sono proprio questi i motivi che hanno spinto il Ministro a dotarsi di un Osservatorio Nazionale per il lavoro agile (D.M. 4 novembre 2020), che ha il compito di definire gli indirizzi tecnico-metodologici in materia di lavoro agile in una prospettiva sistemica e multidisciplinare che sembrerebbe voler abbandonare le logiche di welfare potenzialmente attribuibili al lavoro agile. Detti indirizzi avranno infatti il compito di sviluppare le competenze individuali dei dipendenti e le capacità manageriali della dirigenza, la misurazione e la valutazione della performance organizzativa e di quella individuale. Non manca tuttavia, anche in questo caso, il riferimento alla conciliazione vita – lavoro dei singoli lavoratori, aspetto che rappresenta certamente una pietra miliare del lavoro agile, ma che potrebbe indurre in tentazione alcune pubbliche amministrazioni a riproporre di nuovo le logiche già applicate nell’epoca ante pandemia, vale a dire ricondurre tutto sotto l’ombrello del diritto amministrativo anziché delle scienze aziendali, così da trovarsi di nuovo a fare i conti con “graduatorie” e “punteggi”, lasciando in ombra i temi dell’innovazione amministrativa, organizzativa, tecnologica e, soprattutto, culturale. 

NOTE

1. dopo aver esperito una serie di altre misure (ferie pregresse, del congedo, della banca ore, rotazione).

2. Dello stesso parere sembra essere l’UNADIS (Unione Nazionale dei Dirigenti dello Stato) in un comunicato del 22 ottobre 2020, nel quale viene però anche riconosciuto che nell’attuale grave momento pandemico questo tipo di utilizzo del lavoro agile era quasi inevitabile.

3. Già in precedenza, in tempi non sospetti, la Direttiva della Funzione Pubblica n. 3 del 2017 aveva puntato sulle capacità manageriali dei dirigenti, prevedendo che le Amministrazioni Pubbliche sviluppassero percorsi di formazione, anche eventualmente avvalendosi della SNA, per orientare in particolar modo i dirigenti verso l’introduzione del lavoro agile, del superamento della “logica della timbratura del cartellino” a favore invece della logica del risultato, della promozione di una maggior fiducia del dirigente verso le proprie risorse umane, di un diverso approccio al controllo del lavoratore, maggiormente orientato all’articolo 2104 del Codice Civile (controllo della corretta esecuzione della prestazione lavorativa) e, infine, del consolidamento di una cultura manageriale orientata ai risultati, scardinando l’assunto secondo il quale vi sarebbe una correlazione tra le ore prestate in ufficio e la produttività.

4. Sul tema dell’integrazione tra Piani che riflettono aspetti di natura organizzativa, il legislatore era peraltro già intervenuto con la Legge 190/2012 in tema di prevenzione della corruzione, prevedendo di non agire all’interno della Pubblica Amministrazione mediante logiche differenziate rispetto ai diversi obiettivi da perseguire, evidenziando invece come fosse necessaria una sostanziale integrazione tra il processo di gestione dei rischi e il ciclo di gestione della performance. Il tema della prevenzione della corruzione e, più in generale, degli episodi di maladministration, non potrà d’altronde essere trascurato nell’ottica di implementazione di un nuovo modello organizzativo di tipo agile che vede tra i suoi aspetti potenzialmente critici l’eventualità che il lavoro agile possa generare effetti negativi sul morale dei lavoratori e possa accrescere lo stress psicologico da loro fronteggiato; a tal proposito l’OCSE raccomanda di allestire degli speciali programmi di supporto per il personale in smart working, soprattutto per coloro che possono trovarsi di fronte a pressioni finanziarie, di incoraggiare i manager ad effettuare frequenti controlli all’interno delle loro strutture, anche aumentando il numero di coloro che devono approvare una determinata attività che comporta il pagamento di denaro da parte dei contribuenti o verso di loro e, infine, di garantire una sistematica condivisione dei risultati delle attività a distanza, affermando quindi ancora una volta la portata organizzativa del lavoro agile.

5. Si pensi ad esempio al progressivo invecchiamento dei dipendenti della PA: il lavoro agile rappresenta un acceleratore dello sviluppo di nuove conoscenze digitali, arginando così la tendenziale obsolescenza dei lavoratori pubblici. Si pensi, ancora, alla spinta imposta a ripensare i processi e i modelli di servizio per rispondere alle nuove esigenze dei cittadini, sfruttando al meglio le possibilità offerte dalle nuove tecnologie.

Autori

_

Ultimi articoli