Le luci del tramonto: i manager e l’ageismo

La diversità generazionale può affliggere le organizzazioni a vari livelli di aggregazione, dai sistemi-Paese fino alle organizzazioni minori. Tra gli aspetti salienti legati a tale fenomeno, lo studio internazionale qui sintetizzato e commentato affronta il tema del rapporto tra manager più giovani e lavoratori più anziani.

Introduzione

L’esito del referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (U.E.) – c.d. “Brexit” – ha riportato il tema della diversità generazionale alla ribalta dell’opinione pubblica, svelandone le eventuali forme di conflitto. Il tema ruota attorno all’evidenza che, almeno nei paesi più avanzati, le persone vivono più a lungo e in migliori condizioni di salute mentre i tassi di natalità e fecondità si presentano come stabili o in declino. Tali fenomeni si prestano a diverse considerazioni. Il caso Brexit è stato da molti interpretato come una forma di miopia da parte degli elettori più anziani e residenti nelle zone rurali, che si sono espressi in maggioranza per l’uscita agendo, a detta dei più giovani che hanno votato per rimanere invece nell’U.E., a scapito delle generazioni future.

Le organizzazioni non sono immuni a questi fenomeni. Anzi, se a livello di intere società questi conflitti tra generazioni si manifestano solo in occasione di grandi scelte elettorali o reazioni a progetti di riforma, l’allungamento della vita media e la presenza di condizioni di salute fisica e mentale ancora soddisfacente espone le organizzazioni ad almeno due fenomeni: 1) la crescente convivenza tra manager più giovani e lavoratori più anziani, 2) la permanenza dei soggetti più anziani fino alla pensione e oltre, ove possibile[1].

Un recente studio guidato da Armènio Rego dell’Università Catolica Portuguesa (Rego, Vitória, Cunha, Tupinambá e Leal, 2016) ha provato ad analizzare le implicazioni organizzative del divario generazionale tra manager e dipendenti. La ricerca si compone di tre studi complementari che hanno interessato realtà portoghesi e brasiliane. Lo studio qui sintetizzato è stato scelto anche per la prossimità culturale dei contesti in cui è stato condotto, probabilmente maggiore rispetto al mondo anglosassone da cui la ricerca manageriale tradizionalmente attinge.

Anzianità lavorativa e ageismo

L’ageismo: natura e conseguenze

Il termine “ageismo” è un inglesismo (originale: “ageism”) che fa riferimento ad “attitudini e convinzioni, sentimenti e comportamenti nei confronti di altre persone sulla base della loro età avanzata” (Butler, 2012, p. 176). Stereotipi negativi e preconcetti nei confronti dei lavoratori più anziani sono le principali ragioni dell’ageismo. Ciò che accompagna l’ageismo è in genere il preconcetto che questi si impegnino meno sul lavoro, che siano meno produttivi, meno competenti, meno innovativi, meno capaci dal punto di vista cognitivo, più resistenti al cambiamento, meno interessati ad apprendere cose nuove e che il loro interesse primario sia andare in pensione il prima possibile.

In concreto, se “affetti” da ageismo, colleghi e superiori tendono ad assumere che i lavoratori più in là con l’età non abbiano motivazioni, abilità e competenze in linea con le esigenze organizzative correnti. Tale supposto disallineamento può riguardare sia il volume di attività da svolgere (es. resistenza fisica/concentrazione sul lavoro) che la natura delle attività da svolgere (es. utilizzo sistemi informativi avanzati in condizioni di “digital divide”).

L’ageismo è in grado di generare conseguenze negative non solo per i soggetti presi di mira, nei confronti dei quali si possono verificare delle vere e proprie prassi discriminatorie, ma anche per l’intera organizzazione, il cui clima può risentire delle relative frizioni. Come per altri fenomeni, anche l’ageismo può prender vita in seno alle organizzazioni e trascendere a conseguenze che impattano sull’intera società. Rispetto a queste possibili conseguenze negative, il lavoro di Rego et al. (2016) ricorda che la maggior parte degli studi sul tema tende a ritenere tali timori come “errati e irrazionali” in quanto la sola età di per se non avrebbe una forte correlazione con l’impegno e i risultati che le persone riescono a profondere nel loro lavoro.

Ageismo ed età

Nonostante la cogenza dell’ageismo, non esistono di riferimenti chiari per la definizione delle fasce di età o altri criteri che possano definire dei perimetri precisi per segmentare i lavoratori (es. giovani/anziani); inoltre, la percezione stessa della “anzianità”, intesa nella prospettiva dell’ageismo e non come mera permanenza in servizio, varia da settore a settore (si pensi agli estremi dello sport, da un lato, e di alcuni comparti della Pubblica Amministrazione, dall’altro). Lo studio di Rego et al. (2016) deliberatamente non fissa alcuna soglia di età per la definizione di cosa si intenda per “lavoratore anziano”, lasciando agli intervistati la libertà di far riferimento a cosa ciò significhi per loro. Tale scelta risulta in linea con gli studi più recenti che evidenziano che le persone possono individualmente avere idee eterogenee su tali soglie di età e che queste evolvano nel tempo.

Ageismo, preconcetti e produttività

Le forme di discriminazione basate sull’età sono sovente argomentate in termini di razionalità economica. Si assume infatti che, in economie di libero mercato, le imprese dovrebbero preferire i lavoratori più giovani, assumendo che quelli più anziani siano più costosi e/o meno produttivi, al fine di soddisfare gli interessi dei propri portatori di interessi (“stakeholders”). Tuttavia, questo assunto sembra corrispondere a una visione piuttosto parziale della realtà contemporanea, rappresentando convinzioni e giustificazioni ritenute “errate ed irrazionali” (Loretto et al., 2000, p. 283). Le ricerche più recenti tendono, al contrario, a sottolineare come i maggiori costi della forza lavoro più anziana siano associati ad una maggiore esperienza del singolo lavoratore, nonché ad una maggiore conoscenza tacita delle dinamiche settoriali e/o aziendali, nel caso di carriere sviluppate nello stesso ambito industriale e/o organizzativo. In tal senso, i maggiori costi sarebbero giustificati da un maggiore potenziale in termini di raggiungimento dei risultati e, in genere, associati a dimensioni quali lealtà aziendale, maggiore accuratezza (minore numero di incidenti), minore assenteismo; tali fattori renderebbero i lavoratori più anziani addirittura meno costosi in termini relativi. “Considerando questo vantaggio apparente, vale la pena pensare a quanto costi ad un datore di lavoro … non assumere un lavoratore più anziano” (Cappelli e Novelli, 2010, p. 44, corsivo nell’originale). Altri lavori di ricerca enfatizzano il fatto che non ci siano effetti evidenti dell’età sulle performance lavorative e che i lavoratori più anziani possano anche ottenere risultati migliori in diverse aree di attività.

Managers, ageismo e lavoratori anziani

La ricerca di Rego et al. (2016) si concentra su un aspetto specifico dell’ageismo: l’attitudine dei manager nei confronti dei lavoratori più anziani. Alla luce dei fenomeni sociali di crescente invecchiamento della popolazione, e di conseguenza della sua forza lavoro, lo sviluppo di strumenti specifici consente alle organizzazioni di attrarre, motivare e gestire soggetti che in epoche precedenti sarebbero stati considerati come “in attesa” o “prossimi all’uscita” e quindi, probabilmente, meno meritevoli di attenzione.

Quando i manager soffrono di ageismo, le organizzazioni possono attivare pratiche discriminatorie che coprono l’intera attività di gestione delle risorse umane, dalla selezione alle politiche di uscita, passando per la formazione, la valutazione delle performance e le carriere. Tali pratiche discriminatorie possono tradursi in azioni formalizzate ma anche, e forse più frequentemente, essere alimentate da messaggi non verbali. Lo sviluppo di tali pratiche, inoltre, genera uscite anticipate e bassi tassi di re-ingresso, con conseguenze negative sui sistemi pensionistici e, di conseguenza, sui più ampi sistemi economici. Inoltre, l’impreparazione organizzativa rispetto al fenomeno dell’ageismo manageriale può avere effetti negativi sui risultati complessivi e sul corretto funzionamento aziendale.

A soffrire di ageismo sono in genere i manager più giovani e il fenomeno si acuisce quando questi si trovano a gestire lavoratori (subordinati) di età più avanzata. Quando questi manager mettono in pratica, in maniera manifesta o latente, pratiche discriminatorie nei confronto dei più anziani è facile aspettarsi manifestazioni di demotivazione, frustrazione, disincanto rispetto alle iniziative aziendali e, in ultima analisi, un calo del rendimento lavorativo. A questo punto gli effetti negativi possono essere ulteriori, in quanto il calo di prestazioni conferma i pregiudizi dei manager che trovano riscontro nei fatti, alimentando circoli viziosi basati su spirali che si alimentano di concezioni fuorvianti e frustrazione reciproca.

Sintesi della ricerca

La ricerca si concentra su come i manager si pongono nei confronti dei lavoratori anziani. Il progetto si è articolato in tre singoli studi volti a misurare attitudini e credenze dei manager nei confronti dei lavoratori più anziani. Le tre parti sono: 1) raccolta di evidenze empiriche rispetto a modelli concettuali esistenti; 2) arricchimento dei modelli esistenti attraverso la raccolta di evidenze presso i soggetti più anziani (categoria sovente trascurata dalle ricerche sul tema sebbene spesso soggetta a pratiche discriminatorie); 3) analisi dei profili attitudinali complessivi dei manager, piuttosto che le singole attitudini, quale modo più appropriato per interpretare le attitudini nei confronti dei lavoratori più anziani e le relative conseguenze.

Studio 1 – Managers e pensionati

Basato due campioni di soggetti intervistati (14 managers; 28 pensionati, tutti portoghesi) lo studio ha collezionato i significati (contenuti semantici) così come erano stati proposti (e adattati) dalla letteratura esistente. Le interviste si sono concentrate su cinque categorie: 1) qualità positive dei lavoratori più anziani; 2) qualità negative dei lavoratori più anziani; 3) implicazioni organizzative legate all’uscita di tali lavoratori (pensione); 4) considerazioni sul fatto che tali lavoratori dovessero/potessero continuare a lavorare per l’organizzazione dopo la pensione (compiti che avrebbero potuto svolgere e relative implicazioni organizzative); 5) differenze tra candidati giovani e anziani nei processi di selezione e reclutamento. Il confronto tra le principali percezioni dei manager e degli ex lavoratori è riportato nella Tabella n. 1.

Studio 2 e 3 – I profili attitudinali dei manager

Gli altri due studi della ricerca hanno coinvolto, rispettivamente, 224 manager portoghesi e 249 brasiliani, con il secondo che rappresenta una replicazione del primo in un contesto diverso. Gli studi si sono concentrati su alcune attitudini dei manager e hanno misurato come queste risultassero correlate alla percezione dei lavoratori più anziani. Tralasciando gli aspetti metodologici della ricerca, le analisi hanno evidenziato la presenza di cinque dimensioni principali:

  • Adattabilità, misurata attraverso l’adattamento a nuove situazioni, resistenza al cambiamento, comportamento creativo/innovativo, desiderio di partecipare alla formazione;
  • Valore attribuito ai lavoratori più anziani;
  • Consapevolezza organizzativa, misurata in termini di lealtà, assenteismo e voglia di sacrificarsi per l’organizzazione;
  • Capitale sociale (inteso come “social capital”) e generosità, espressa da comportamenti cooperativi e di aiuto agli altri, capacità di sviluppare relazioni durature, volontà di fare qualcosa di utile per la società;
  • Performance: risultati e produttività.

Nonostante la differenza di contesto economico e sociale (Portogallo/Brasile), Rego et al. (2006) non riportano differenze significative tra i due gruppi di manager. Le evidenze mostrano che i manager considerino carenti le capacità di adattamento dei lavoratori, mentre le altre dimensioni considerate incontrano, in genere, valutazione positiva. Un’analisi più accurata dei risultati evidenzia dei fenomeni interessanti: ad esempio, manager che vedono i lavoratori più anziani come più cooperativi o generosi tendono a considerare le competenze degli stessi come meno importanti per l’organizzazione, pur non identificandoli come meno “performanti”. Lo studio, in tal senso, smentisce una parte della letteratura che identifica i lavoratori anziani come “calorosi ma non competenti” (Cuddy et al., 2005).

Tabella n. 1 – Attitudini di manager ed ex lavoratori

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Fonte: sintesi elaborata da Rego et al. (2016, p. 10 e 11)

L’analisi dei profili attitudinali dei manager rivela altri aspetti interessanti. La diversità nei profili attitudinali, infatti, si rispecchia nella percezione dei lavoratori più anziani. Lo studio evidenzia, ad esempio che, quando i manager hanno una generale predisposizione negativa nei confronti dei lavoratori più anziani, tendono ad essere soggetti ad una sorta di “effetto alone” per cui basano le loro decisioni sugli attributi negativi trascurando le altre caratteristiche positive. Al contrario, quando la loro attitudine è positiva, le discriminazioni verso i lavori più anziani sono minori. Le evidenze mostrano anche che i manager più giovani tendono ad essere più ostili nei confronti dei lavoratori più anziani.

Implicazioni manageriali

Lo studio di Rego et al. (2016) può essere riassunto in quattro passaggi salienti. In primo luogo, i manager possono assumere nei confronti dei lavoratori più anziani cinque possibili attitudini: adattabilità, valorizzazione delle competenze, coscienziosità organizzativa, valutazione del rapporto tra il loro capitale sociale (inteso come “social capital”) e le performance, come pure della loro generosità. In secondo luogo, tali attitudini in qualche modo predicono come i manager selezionano i lavoratori più anziani e più giovani, nonché come i primi si orientino rispetto alle attività di formazione. In terzo luogo, le qualità positive riconducibili all’esperienza e alle maggiori competenze dei lavoratori più anziani tendono ad essere oscurate da pratiche discriminatorie da parte dei manager più giovani. Infine, i manager sviluppano profili attitudinali differenziati nei confronti dei lavoratori più anziani e ciò impatta anche sui processi decisionali che riguardano questi ultimi. Il contesto “latino” in cui gli studi sono stati condotti consente di considerare le evidenze e le conclusioni dello studio come sufficientemente prossime al contesto italiano. Ciò vale sia per le dimensioni strettamente culturali che per l’impianto dei sistemi di ingresso e uscita dal mondo del lavoro, nonché dei sistemi previdenziali.

Oltre agli aspetti descritti, il lavoro consente di sviluppare due ulteriori implicazioni manageriali: una sul rapporto manager-lavoratore, l’altra su aspetti più generali di progettazione e disegno delle organizzazioni. In merito al primo aspetto, il lavoro di Rego et al. (2016) illustra come il rapporto tra manager e lavoratore anziano presenti una delle tanti fattispecie che alimentano la c.d. sindrome della predisposizione al fallimento (“set-up-to-fail syndrome”; Manzoni e Barsoux, 1997). In tale caso, la presenza di preconcetti e pregiudizi da parte del manager sulla carente adeguatezza del lavoratore più anziano rischia di alimentare un circolo vizioso in cui l’attuazione di pratiche discriminatorie impatta negativamente sulla motivazione del secondo. Prima o poi, anche nei soggetti votati al “martirio organizzativo” (Graber, 2015), tale frustrazione si trasforma in un calo di prestazioni, che il manager legge come conferma delle sue posizioni iniziali. Tale circolo vizioso può essere spezzato, se non addirittura prevenuto, con interventi organizzativi volti a favorire il confronto, la comunicazione aperta e l’empatia reciproca tra diverse generazioni aziendali che si trovano ad operare nel medesimo momento storico.

In secondo luogo, l’avvento della società basata sulla conoscenza, fa sì che in molti settori il lavoro si sia trasformato da un’attività fisica in attività intellettiva, anche a parità di attività (es. utilizzo dispositivi robotici, forme di automazione di processo, etc.). Ciò aumenta la possibilità di impiegare lavoratori a cui l’età ha ridotto la capacità di sforzo fisico, mettendo a frutto la loro maggiore esperienza. Ciò è tanto più vero in quegli ambiti in cui i lavoratori più anziani possono mettere a disposizione dei più giovani la loro maggiore esperienza. La possibilità di prevedere dei percorsi di mentoring rende concreta questa forma di affiancamento anche, ove possibile, nella forma di consulenza post-pensione.

Considerazioni conclusive

La presenza di soggetti (ritenuti troppo) anziani crea disagio e può innescare pratiche discriminatorie all’interno delle organizzazioni. Come molti altri studi, la ricerca qui presentata tende ad enfatizzare gli aspetti positivi del contrasto all’ageismo, inteso come frizione organizzativa, settoriale e al limite sociale. In tal senso, lo studio di Rego et al. (2016) tende a svelare le luci di un tramonto che può rivelarsi ancora radioso. Tuttavia, per par condicio, occorre anche ricordare che molte delle ipotesi sostenute dalle ricerche sul tema (es. i lavoratori più anziani hanno maggiore senso etico) possono anche essere smentite in contesti in cui i modelli culturali, organizzativi e imprenditoriali di riferimento sono cambiati rapidamente nel corso degli anni. Si pensi in tal senso alla maggiore sensibilità ai temi del rispetto della diversità, della promozione delle pari opportunità, della difesa dell’equilibrio vita privata/lavoro, all’evoluzione del concetto di etica degli affari, al contrasto al tabagismo in uffici e luoghi pubblici, all’evoluzione del concetto di benessere organizzativo. Se ciò è vero, i modelli comportamentali di qualche decennio fa possono risultare alieni ai contesti organizzativi attuali[2]. In tali situazioni, in assenza di meccanismi organizzativi (se non addirittura socio-culturali) volti a sensibilizzare/allineare gli appartenenti alle passate generazioni, la permanenza post-pensione (es. in forma di consulenza) si trasforma in un tentativo velleitario, pur quanto ispirato dalle migliori intenzioni, di proporre soluzioni non più percorribili o di reiterare azioni (un tempo soluzioni vincenti) a fronte di problemi che necessitano però di strumenti diversi (nuovi) per essere affrontati. Dal punto di vista relazionale interno (manager-lavoratore/i, relazioni tra pari), quando il potenzialmente utile si trasforma in tollerato, l’esperienza diventa parodia, cancellando ogni forma di vantaggio (anche solo potenziale) per l’organizzazione. In tali casi, il tramonto volge al crepuscolo.

Bibliografia

Blaine, B. E. (2012). Understanding the psychology of diversity. New York: Sage.

Butler, R. N. (2012 – 1st ed. 1975). Why survive? Being old in America. Baltimore, MD: John Hopkins University.

Cappelli, P. (2012). Why good people can’t get jobs: The skills gap and what companies can do about it. Boston, MA: Harvard Business Press.

Cuddy, A. J., Norton, M. I., & Fiske, S. T. (2005). This old stereotype: The pervasiveness and persistence of the elderly stereotype. Journal of Social Issues61(2), 267-285.

Graber, S. (2015). The Two Sides of Employee Engagement. Harvard Business Review. https://hbr.org/2015/12/the-two-sides-of-employee-engagement

Loretto, W., Duncan, C., & White, P. J. (2000). Ageism and employment: controversies, ambiguities and younger people’s perceptions. Ageing and Society20(03), 279-302.

Manzoni, J. F., & Barsoux, J. L. (1997). The set-up-to-fail syndrome. Harvard Business Review76(2), 101-113.

Rego, A., Vitória, A., Cunha, M. P., Tupinambá, A., & Leal, S. (2016). Developing and validating an instrument for measuring managers’ attitudes toward older workers. The International Journal of Human Resource Management, http://dx.doi.org/10.1080/09585192.2015.1128462.

 

Note

[1] Si fa riferimento alle proroghe ed estensioni che alcune professioni consentono rispetto all’età pensionabile, o l’estensione di fatto del rapporto di lavoro in forma di collaborazione o consulenza.

[2] Per analogia di contesto, il disagio che si vive nelle organizzazioni in tali casi può essere paragonato a quello che si prova a guardare con occhi moderni un B-movie italiano degli anni ’80; percepiremmo, infatti, una forte distonia culturale tra ciò che allora consentiva di vilipendere il “diverso” e la contemporanea maggiore sensibilità verso alcuni temi legati alla diversità, anche in ragione dell’importazione (talvolta anche esageratamente ostentata) dei canoni del “politically correct” in molti contesti sociali.

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